venerdì 30 novembre 2012

Goethe è sempre eccezione





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Soltanto Goethe legge totalmente ottavianea l’opera di Ovidio, nessuno scarto anti-augusteo e anti-classico è in grado di scalfire la sua coincidentia oppositorum.
La terrificante vicenda di Tomi è una minuzia per Goethe. Irrilevante per la vita dello spirito, e anzi per “la vita della vita” che è lo spirito: «Ovidio resta classico anche nell’esilio: l’infelicità non la ricerca in sé, ma nella sua distanza dalla capitale del mondo» (1829, massima 1032, in Maximen und Reflexionen, Weimar 1907, p. 215).
Goethe fa eccezione, Goethe è l’eccezione, Goethe sta parlando di Roma e non di Ovidio, Goethe è attratto dalla Roma del 1788, in essa vede, vive, rivive in prima persona il dramma del “bando inesorabile”. Sensibile al tema dell’esilio, lo recupera nell’autenticità poetica, neutralizza la retorica nasoniana, reintegra le rovine rumene nei fasti romani della capitale, caput mundi, annulla la relegatio ottavianea. Tomi è anche Roma, Roma è la Romania. Goethe è sempre eccezione. Solamente un gigante dalla serenità olimpica come la sua è, per la verità, voce fuori dal coro che in modo quasi unanime stronca (già dai tempi di Quintiliano e, in età moderna, del Norden) tanto il periodo amoroso quanto quello dell’esilio. In una circostanza, Goethe stesso si sentì Ovidio, quando il 23 aprile 1788 dovette andar via da Roma per ritornare a Weimar: «Evitava di scrivere, per non far scomparire – sono parole di Pietro Citati – la tenera nebbia dei suoi dolori. Andava fantasticando; gli pareva d’essere Ovidio mentre, esiliato nelle lontane solitudini del Ponto, paragonava il proprio destino a quello del Tasso, trascinato come lui “verso un bando inesorabile”, costretto a fuggire sotto il nero mantello del pellegrino, come un selvaggio straniero inseguito dalle furie» (Goethe, Milano 1971, pp. 12-13).
Al contrario, la riserva leopardiana a sfavore di Ovidio consiste nell’evidenza dell’artificio retorico-sofistico che dispiacque a Schlegel. Scrivere è un artificio che non va manifestato, non deve essere visibile. Leopardi non riesce a identificarsi nel poeta bandito attestandosi su posizioni classicistiche diversamentre da quanto romanticamente fanno Shelley o Byron, più in sintonia con la facies dello sbandato. Leopardi ha tutte le ragioni per sentirsi sradicato, emarginato, eppure lo sostiene con forza estetica e morale il suo attaccamento al canone fondamentale.
Da questa stroncatura di Leopardi, più criticamente lucida della pur luminosa e affascinante identificazione goethiana, emerge la post-classicità ovidiano-ottavianea, dall’8 d.C. e anche da prima. 



mercoledì 28 novembre 2012

Virtuale





Riguardo alla mia militanza feisbuchiana e al fatto che sono stato criticato per questo: le critiche vanno prese in considerazione solo se chi le fa è in condizione di giudicare e non è mosso da intenti malevoli. Non è vero che su Facebook si tratta sempre e solo di vita virtuale (qual è poi la vita “vera”?), a me – e non credo soltanto a me – è successo che rapporti inizialmente virtuali si sono trasformati in reali. Tant’è vero che in Fb, e da Fb, imprevedibilmente accadono discussioni, equivoci, litigate, riconciliazioni, come nella vita. E i rapporti che già c’erano prima sono in grado di approfondirsi.
Internet, e Fb che ne fa parte, è una fonte di notizie di ogni tipo, in primo luogo sul piano culturale, assai più della tivù e dei giornali o dei libri stessi (cui rimandano le suddette notizie). Illusoria, in parte, la comunicazione feisbuchiana è senz’altro, ma con un potenziale di verificabilità – e, aggiungerei, di flessibilità – a medio e anche a lungo termine, insito nel discorso. Lo spirito – diceva Goethe – è «la vita della vita» e sicuramente c’è l’indizio di una qualche insania nel rapportarsi spesso e con intensità a tale vita della vita. Chi legge – chi legge molto – è un isolato sociale in partenza, e spesso anche all’arrivo: ma asociale non vuol dire antisociale.  Perciò questo tema può essere percepito solo da una minoranza – sebbene estesa in termini quantitativi molto più che non si pensi.
Purtroppo, questo sì, emergono su Fb, oltre alle qualità, pure i difetti e le contraddizioni delle persone – in genere, scrittori, intellettuali, giornalisti, ecc. – che prima stimavamo; sarebbe forse stato meglio conservarne il ricordo che ne avevamo prima di accedere ai loro profili ma tant’è: tutto non si può avere. Un altro aspetto è quello della visibilità, che non è da confondersi con la notorietà e un’altra questione ancora è quella del fraintendimento. Ma sarebbe stupido non approfittare di questa rivoluzione – profonda trasformazione e - in ogni caso – trasformazione in atto – come se quando fu inventato il telefono qualcuno si fosse rifiutato di usarlo perché non poteva vedere il volto dell’interlocutore. Io non le uso, ma esistono anche le videochat!

giovedì 22 novembre 2012

Circolo vizioso



Fotogramma dal film La Vocation suspendue di Raoul Ruiz (1977)
(L'histoire de Jérôme, un abbé soupçonné d’être agent double qui remet en question sa vocation, nous est racontée par le montage alterné de deux versions d'un film prétendument inachevé. Des séquences en noir et blanc et des séquences en couleur avec des distributions différentes se succèdent pour éclairer dans des perspectives variées la querelle à l'intérieur de la communauté qui met en branle tout un système de pensée)




Il fondamento antropologico
I quattro Vangeli canonici sono stati sottoposti al vaglio laico, rigoroso, dell’antropologia culturale per distinguere scientificamente ciò che è stato sicuramente detto e compiuto dal fondatore del cristianesimo da quanto è stato invece frutto della trasposizione apologetica degli evangelisti, che neppure compresero appieno la novità eversiva del pensiero cristiano. Ha fatto questo Ida Magli, in Gesù di Nazaret.[i]
La fede, chiarisce subito la Magli, può sussistere senza venir contraddetta dall’analisi antropologica, il cui oggetto è il “documento culturale, proprio in quanto documento culturale[ii], anche se, di conseguenza, la tradizione cattolica quale si è venuta delineando in due millenni di storia sembra aver ribaltato alcune questioni fondamentali che Cristo aveva, viceversa, affrontato e risolto in modo addirittura opposto. Questo sconcerta se si considera, in primo luogo, che la mentalità ebraica è stata superata, a cominciare dal concetto di tempio, ossia di organizzazione clericale e verticistica (il Sinedrio, all’epoca altresì connivente, peraltro per ragioni di forza maggiore, col potere esecutivo romano) e la dimensione della preghiera diviene esclusivamente privata e individuale, non quindi di gruppo, né tantomeno liturgica e, ancora una volta, non ecclesiale né sottoposta alla gerarchia, in quanto non presuppone nel suo svolgersi la funzione mediatrice del ministro di Dio:

I passi dei vangeli da cui appare che sono questi i contenuti più radicali della sua ‘rivoluzione’ nei confronti delle strutture culturali e sociali ebraiche, sono numerosissimi. Ma è sufficiente pensare al: ‘Quando vuoi pregare entra nella tua camera…’ (cfr. vangelo di Matteo, cap. 6, versetto 6); oppure: ‘Quando fai l’offerta, non sappia la destra quello che fa la sinistra’ (cfr. vangelo di Matteo, cap. 6, versetto 3); oppure, ancora: ‘Quando digiuni, non fare la faccia triste’ (cfr. vangelo di Matteo, cap. 6, versetto 16).[iii]

Le due strutture fondamentali del sacro, lo spazio e il tempo, sono state eliminate da Gesù; si predilige al contrario – sempre nella prospettiva antropologica – il rapporto libero e diretto tra uomo e Dio. Perfino il Padre nostro, preghiera insegnata dal Maestro ai discepoli, è più ebraica che cristiana. Alla sessualità che, dalla legge mosaica in poi, costituisce da sempre l’ossessione della spiritualità cattolica nell’ambito della teologia morale, Cristo fa poco o nessun riferimento e senza il moralismo rabbinico. Quando ne accenna, si tratta o di aggiustamenti testuali degli evangelisti o di una loro rimozione, sintomatica per la cultura del tempo:

Gesù sa che è impossibile affrontare il problema della sessualità di per sé, - continua la Magli - come problema a sé stante, perché in realtà esso è presente dovunque è presente il sistema proiettivo della trascendenza. Una volta assunta ad analogia onnivalente della ‘potenza’, la sessualità non può più essere ‘liberata’ dalle innumerevoli implicazioni di cui è prigioniera, ma di cui diventa a sua volta prigione: dovrebbe venire prima sradicata la potenza della parola, dato che su di essa è costruito il vero Potere, quello che domina l’uomo attraverso la morte.[iv]

E anche:

La grande forza di Gesù, del resto, è proprio in questo: avendo fatto cadere il diaframma fra il sacro e il profano, fra il piano di potenza e l’uomo, in realtà ha reso all’uomo disponibile tutto l’al-di-là, tutto il trascendente. Il mondo di-là è riportato di-qua senza più alcuna differenza. Non può, quindi, Gesù non odiare la morte, perché quel diaframma tra l’al-di-là e il-di-qua che lui ha tentato di far cadere viene ristabilito dalla morte, in quanto la morte è comunque la fine del corpo, e fa percepire inevitabilmente il fatto che la ‘rottura’ c’è. Odiare la morte significa amare ogni singolo uomo, perché appunto l’individuazione è possibile soltanto attraverso il corpo, significa amare la vita e l’’umanità’ reale, mondana, dell’uomo, e non la trascendenza.[v]


Dioniso e il Crocifisso
La circostanza in cui, come denuncia Pascal, quello di Descartes, agostinianamente derivato dal reditus in se ipsum, è un Dio filosofico ancora nulla dice contro il cristianesimo di Descartes. Il dubbio metodico è così forte che per dimostrare l’esistenza del mondo Descartes ha bisogno di dimostrare matematicamente l’esistenza di Dio laddove Nietzsche dubita del dubbio cartesiano dal momento che tenta di ricongiungere l’idea tardo-moderna del mondo con le premesse presocratiche di Dioniso. Il mondo nietzscheano, non trovando termine di paragone in nulla e tantomeno in Dio, né nel Dio dei filosofi né tantomeno in quello cristiano, non ha senso né valore alcuno. Ma per superare il nichilismo che ne consegue, restano le visioni di Zarathustra della volontà di potenza e dell’eterno ritorno dell’identico, al di là del bene e del male e non, comunque, al di là del nobile e del meschino.

Non è tanto assurdo sostenere che la morte di Dio – dice Vattimo – che è annunciata da Nietzsche è, in molti sensi, la morte di Cristo sulla croce narrata dai Vangeli. […] Il cristianesimo introduce nel mondo il principio dell’interiorità, in base a cui la realtà ‘oggettiva’ perderà via via il suo peso determinante. La frase di Nietzsche ‘non ci sono fatti, solo interpretazioni’ e l’ontologia ermeneutica di Heidegger non faranno che portare alle estreme conseguenze questo principio. Il rapporto dell’ermeneutica moderna con la storia del cristianesimo, dunque, non è solo quello che sempre si è creduto, e cioè il nesso essenziale che la riflessione sull’interpretazione ha sempre avuto con la lettura dei testi biblici. Ciò che qui propongo è invece che l’ermeneutica, nel suo senso più radicale che si esprime nella frase di Nietzsche e nell’ontologia di Heidegger, è lo sviluppo e la maturazione del messaggio cristiano.[vi]

L’Uebermensch, superando il cristianesimo tradizionale, si sarebbe in Nietzsche sostituito a Dio nel riconoscere la divinità originaria del cosmo (τò θει̃ον), come in Eraclito è il mondo. In ciò non c’è professione di ateismo: Zarathustra è senza Dio ma non senza il cosmo τò θει̃ον, divino. Solo in questo senso è pio Zarathustra, proprio come è qualificato dall’ultimo papa a colloquio con lui.


La Vocation suspendue
Il simulacro sta all’eros come il segno sta all’agape, come Dioniso sta al Crocifisso. Il segno deriva storicamente dal simulacro, e lo continua. Klossowski sarebbe d’accordo con Agostino nell’individuare i dèmoni del male negli dèi greci, del cui nuovo avvento, dissoltasi la spiritualità cristiana nel mondo con la morte dialettica di Dio, Nietzsche era stato profeta. Essi, in definitiva, partecipando della divinità non sono il diavolo nella misura in cui si tratta di una simulazione, di un gioco speculare divino, come ben sapeva Zarathustra, e Agostino era stato ingeneroso nei riguardi della cultura pagana. Ma nella dissimulazione Dio e Satana (anche lui, prima, simulacro) si riappropriano dei rispettivi ruoli. L’idolo si fa carne. Il sistema  delle rappresentazioni di Klossowski non prevede la realtà della transustanziazione, il gioco essendo condotto da Dio che però nel circolo vizioso è assente, non essendoci che simulacri. Il segno riconquista la propria legittimazione distinguendosi dal simulacro, dal divino inganno col quale siamo stati messi alla prova, quali uomini di poca fede o di troppa fede (l’inquietudine non è ignorata che dai santi o dai mediocri). Ma tra realtà e simulacro non c’è più distinzione. Il Doppio prevale nell’ambiguità dei segni: natura uni-duale della divinità, rassomigliando il Maligno esattamente a Dio, incommensurabile quanto la Bontà infinita sarebbe il Male, allora infinito Male quanto l’Infinità divina. Non il trionfo del bene sul male, ma l’eterna vicenda dell’uno e dell’altro e, anzi, la coesistenza di entrambi nella medesima natura riverberantesi in modo speculare nel tempo della storia sarebbe la conseguenza del circolo vizioso di Klossowski.
Ma, ora, il segno è ancora un simulacro? L’esegesi dei segni è impossibile nella parodia di Klossowski. Pur non essendo estranea alle culture pre-cristiane l’idea di una creazione divina, il Dio di Aristotele non ama, ma il Dio di Israele appunto ama, in modo elettivo, personalmente Israele. È un’affermazione che concilia sia la visio del disvelamento illuminante, sia il senso della razionalità auto-cosciente, sia il lumen agostiniano, sia la sua derivazione platonica, suggestioni tutte queste non estranee ad Heidegger. Quindi il confronto critico con l’istituzione e gli adiaphora - non con i fundamenta - individua il circolo vizioso senza smentire necessariamente l’aspetto particolare dell’ufficio sacramentale-ontologico.




[i] Milano 1987, 2004.
[ii]  op. cit., p. 33.
[iii] op. cit., p. 61.
[iv] op. cit., p. 89.
[v] op. cit., pp. 167-168.
[vi] Gianni Vattimo, L’età dell’interpretazione, già in “Eidos”, n. 1, 2003, pp. 17-23, ora in Richard Rorty-Gianni Vattimo, Il futuro della  religione. Solidarietà, carità, ironia, a c. di Santiago Zabala, Milano 2005, pp. 49-50. E naturalmente, del filosofo torinese cfr. Il soggetto e la maschera. Nietzsche e il problema della liberzione, Milano 1974, 2003.
    

mercoledì 21 novembre 2012

La morte di Cicerone





Nella prima metà del 43 Cicerone pronuncia le altre dieci Filippiche, stimolando instancabilmente senato e popolo alla lotta contro Antonio: l’ultima la pronuncia in senato nel tripudio per la prima vittoria di Modena, mentre il popolo lo acclama; ed è ancora esortazione a condurre la lotta sino in fondo. Ma la seconda vittoria di Modena costa la vita ai consoli Irzio e Pansa; Antonio riesce a fuggire nella Gallia Narbonese, ove si accorda con M. Emilio Lepido, che era succeduto a Cesare nella carica di pontefice massimo. Ottaviano si stacca da D. Bruto e, benché non avesse ancora compiuto venti anni, osa imporre con la forza delle armi al senato di concedergli la carica di console. Indi torna nell’Emilia, si accorda presso Bologna con Antonio e Lepido che erano ridiscesi in Italia e costituisce con loro il secondo triumvirato, che è una carica pubblica di carattere straordinario («tresviri reipublicae constituendae») e di spirito nettamente antitradizionalista e cesariano. Come ai tempi di Silla, i nuovi dittatori, occupata Roma, inaugurano il loro potere con le proscrizioni. Il nome di Cicerone, abbandonato da Ottaviano al rancore di Antonio, apre la lista dei proscritti. Rifugiatosi nella sua villa di Tuscolo e di lì fuggito verso la costa campana, egli non riuscirà a prendere il mare e sarà raggiunto presso Formia dai sicari di Antonio, che lo uccideranno il 7 dicembre. Saranno trucidati anche il fratello Quinto e il figlio di costui.
Un frammento di Livio, conservatoci da Seneca il vecchio, contiene un drammatico racconto della morte di Cicerone e un equanime giudizio della sua figura politica e morale:

M. Cicerone, nell’imminenza dell’arrivo dei triumviri, s’era allontanato da Roma, ritenendo per certo – come in realtà era – di non poter sfuggire alla vendetta di Antonio più di quanto Cassio e Bruto avrebbero potuto sfuggire a quella di Cesare (Ottaviano). Dapprima si rifugiò nella sua villa di Tuscolo, di lì si diresse, per vie secondarie e traverse, in quella di Formia, con l’intenzione di salpare da Gaeta. Ma dopo essersi più volte spinto di lì in alto mare, poiché ora i venti contrari lo risospingevano a riva, ora lo sconvolgeva il rullio della nave sbattuta dai marosi, fu preso dal disgusto della fuga e della vita stessa: rientrato nella villa che guarda dall’alto il mare e ne dista poco più di un miglio: «Morrò – disse – nella patria tante volte salvata». È risaputo che gli schiavi eran pronti a battersi strenuamente e fedelmente per lui; ma egli ordinò loro di porre a terra la lettiga e di tollerare senza ribellarsi ciò che la sorte avversa imponeva. Mentre si sporgeva dalla lettiga e tendeva il collo senza un fremito, gli fu recisa la testa. Né ciò fu abbastanza per la stolta ferocia dei soldati: gli tagliarono anche le mani, facendo loro carico d’aver scritto contro Antonio. Poi la testa fu recata ad Antonio e per ordine suo fu esposta, in mezzo alle due mani, sui rostri, là dove egli, parlando e da console e da consolare e in quell’anno stesso contro Antonio, aveva suscitato negli ascoltatori tanta ammirazione quanta nessun’altra voce umana mai. A stento, sollevando gli occhi annebbiati dalle lagrime, gli uomini potevan reggere la vista di quelle membra mutilate. Visse sessantatré anni, sì che, se si fosse spento per esaurimento naturale, non potremmo neanche giudicar prematura la sua morte; il suo ingegno fu fecondo di opere, che gli procurarono adeguata rinomanza; godette a lungo di prospera fortuna, e bersagliato ogni tanto, pur nella lunga durata della sua fortuna, da gravi colpi, l’esilio, il crollo del partito cui s’era aggregato, la morte della  figlia, una fine così dolorosa e atroce, non seppe sopportare virilmente nessuna di queste avversità, tranne la morte; ed essa, in chi sapeva ponderar bene le cose, avrà esercitato minore indignazione, perché egli dal nemico vincitore non aveva avuto a soffrire nulla di più crudele di quanto egli stesso sarebbe stato capace di fare, se avesse potuto raggiungere il medesimo successo. Ma se vogliamo controbilanciare i difetti con le virtù, dobbiamo riconoscere che fu uomo magnanimo, alacre, degno di eterno ricordo, e tale che a celebrarne i meriti occorrerebbe l’eloquenza di un altro Cicerone.

(Ettore Paratore, La letteratura latina dell’età repubblicana e augustea, Rizzoli 1993, pp. 235-236)

martedì 20 novembre 2012

PROVOCAZIONI VIRGILIANE/ Cornelio Gallo




La repubblica è finita in una pace violenta. Stanchi delle guerre civili, i romani non hanno protestato. Sul piano culturale una folta schiera di intellettuali arriva a Roma per sostenere la rivoluzione. Ne vengono a loro volta sostenuti e ricompensati fino in fondo, tranne Cornelio Gallo e Ovidio. Cilnio Mecenate è capace di raccogliere intorno  a sé i migliori scrittori dell’epoca, non tutti di fama uguale ma tutti di origine provinciale: Virgilio viene da Mantova, Orazio da Venosa, Gallo da Forum Iulii, l’attuale Fréjus, nella Gallia Narbonese, Tibullo da Tivoli, Properzio da Assisi, Ovidio (che fa intanto un personale doppio gioco con la fronda di Valerio Messalla Corvino) da Sulmona, Tito Livio da Padova.
Messalla Corvino e Asinio Pollione organizzano i due rispettivi circoli in apparenza alternativi, in realtà funzionali al regime. Tuttavia proprio Virgilio e Orazio, i massimi rappresentanti della poesia latina classica, vanno di rado a corte preferendo restarsene nelle loro ville in splendido isolamento. Virgilio sta più a Napoli e in Sicilia che a Roma, Orazio negli ultimi tempi sarà ossessionato nevroticamente dal putiferio della capitale. Orazio, dopo aver militato nelle fila di Bruto e Cassio, passa dall’altra parte come se niente fosse. Vero esempio di onestà intellettuale, Virgilio non si fa scrupolo a espungere dal IV libro delle Georgiche l’elogio a Cornelio Gallo, nel frattempo caduto in disgrazia dell’imperatore, che lo invita alla damnatio memoriae dell’amico comune. Il Mantovano lo sostituisce in quattro e quattr'otto col mito di Orfeo. Quale autore sacrifica 200 versi della sua opera per compiacere qualcuno? Virgilio lo fa.
Il suicidio di Cornelio Gallo avviene nel 26, le Georgiche sono già state terminate nel 30, pubblicate nel 29 o nel 29 sicuramente lette a corte. Di origine sociale modesta, Gallo è stato amico di Ottaviano fin da giovane, muore a soli quarantatre anni, dopo essere salito ai vertici dell’amministrazione statale. Augusto l’ha mandato al giudizio del senato con l’accusa di ribellione, probabilmente una calunnia, Gallo è reo di aver ricoperto con successo la sua carica di prefetto in Egitto, forse non lieve delitto, sufficiente a offuscare la gloria ottavianea. Virgilio non solo tace ma abiura, Orazio tace del tutto. Di Gallo solo Properzio e Ovidio, temerari, oseranno accennare in un rapido ricordo, di lui poeta novus sappiamo (dalla X egloga virgiliana) che cantò con gusto alessandrino Licoride (nome fittizio per l’attrice Citeride, che l’aveva lasciato) in quattro libri di distici elegiaci che non ci sono stati tramandati. Tibullo, Properzio e lo stesso Ovidio devono la loro esistenza di poeti a lui, iniziatore del genere. Con la morte di Gallo, nel 26 a. C., mentre Virgilio da tre anni ha cominciato l’Eneide senza molta convinzione, Augusto inaugura una prassi punitiva che precede la notte di Tomi e che i suoi successori non si periteranno di applicare, come nel caso di Seneca e di Petronio. Che fine abbia fatto l’elogio a Gallo, che intanto si era diffuso per tutta Roma negli anni dal 29 al 26, non è dato sapere.

venerdì 16 novembre 2012

Stroncatura nietzscheana di Euripide





Non estetizza Furio Jesi quando afferma che Doctor Faustus di Th. Mann è la riscrittura de La nascita della tragedia di Nietzsche. In Euripide muore il mito, ha tradito lo spirito della musica/Dioniso (E. è abbandonato anche da Apollo).
Mann insieme professore di greco e musicista.
Identità filistea del prof. Zeitblom = professore-musicista Nietzsche.
Ma Zeitblom è anche “omologo tragico" di N. (Jesi).
Non umanesimo.
Non rinascimento.
Sono opere del tempo di guerra:
a) La nascita della tragedia di Nietzsche (guerra franco-prussiana 1870-71)
b) Considerazioni di un impolitico di Th. Mann (I guerra mondiale)
c) Doctor Faustus di Th. Mann (II guerra moniale)
d) Il giuoco delle perle di vetro di H. Hesse (II guerra mondiale)
e) Tesi di filosofia della storia di Benjamin (II guerra mondiale).
«Prima di tutto il problema, ché qui si presenta un problema, - e ché i Greci, fin quando non avremo una risposta alla domanda “che cosa è dionisiaco?”, resteranno, ora come prima, assolutamente sconosciuti e inconcepibili…» (F.N., Tentativo di autocritica, 3)
«Fu Epicuro un ottimista – proprio come sofferente? – Si vede, è di un intero fascio di gravi problemi che questo libro si è caricato, - aggiungiamo ancora il suo problema più arduo! Cosa significa, nella prospettiva della vita, la morale?...» (4)



mercoledì 14 novembre 2012

Il luogo dove situare l’esperienza culturale






Secondo Kurt Lewin non solo in termini topologici ma anche mediante l'insight, il bambino piccolo può attuare un cambiamento dello spazio vitale. Per un adolescente che sia entrato nella fase del pensiero astratto e per un adulto, a maggior ragione, il cambiamento di struttura sociale interviene in termini di interazione con quello che Freud chiama strategicamente φ (mondo esterno, in Tentativo di rappresentare i processi ψ normali), da intendere quale fonte di stimolo. Questa considerazione riguarda anche la psicologia dell’artista né esclude la dimensione puramente ludica e intellettuale della comunicazione. Freud parla specificamente del poeta ma il discorso, carico di forti significati affettivi, va esteso anche alle altre forme di espressione artistica. Quando ne Il poeta e la fantasia (in Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio) si domanda come faccia il poeta a trovare il proprio materiale e in un secondo momento a elaborarlo nel suo linguaggio, risponde che il gioco del bambino gli offre un’occasione interpretativa, precisata successivamente con più rigore. Il poeta non è in condizioni in quanto adulto inappagato di modificare φ secondo il principio di piacere. Sul piano dinamico l’attività della fantasia, che nell’adulto prende il posto delle forme infantili di gioco, assume la funzione di soluzione delle tensioni inconsce che non abbiano ancora trovato un’altra valida espressione.
Gioca anche l’adulto, naturalmente, ma non lo fa come il poeta. In ogni caso, chi è appagato non fantastica e, proprio come il bambino scopre nel gioco una sistemazione fantastica a elementi di realtà irrisolta, i desideri insoddisfatti attivano le forze della fantasia che si presenta nel poeta come appagamento di desiderio ambizioso o erotico. Fin qui, se la situazione linguistica non è verificata dal principio di realtà, φ corre il rischio di venire allucinato, a meno che in φ non rientrino esperienze di rielaborazione intellettuale, quando, cioè, sussista una comunicazione non biunivoca, o simbolicamente biunivoca, tra i due elementi ψ e φ.
Winnicott interviene in una posizione più dialettica, o intermedia, tra ψ e φ. Critica Freud per non aver indicato – o per averlo tutt’al più solo accennato - un luogo dove situare l’esperienza culturale, non essendo questa né nel mondo interiore né in quello esterno. Ciò significa mettere in guardia, però, dal pericolo di far coincidere il principio di realtà con la frustrazione proveniente dal mondo esterno, dal momento che esso è anche fonte di piacere. Il bambino che non gioca è angosciato come lo psicotico. Senza creatività non esiste sopravvivenza. Per Winnicott, l’esperienza culturale si situa nel gioco e nel controgioco con la madre, la fantasia del bambino si riferisce anche alle persone e a parti di persone che sono state introiettate attraverso il cibo ingurgitato, prima attraverso il seno e poi indipendentemente da questo. Viceversa, l’angoscia per la madre estranea può essere contenuta e la realtà esterna analizzata e adattata (l’amore di transfert ricrea lo spazio potenziale tra il bambino e il seno). La fantasia stessa, legata al pensiero magico, precede la realtà in quanto più primitiva e il gioco diventa lo spazio intermedio tra il bambino e il seno, un vero e proprio spazio potenziale nel quale la fantasia del poeta, ma più in generale la creatività, tanto dal punto di vista estetico quanto concettuale, diventa, ed è, realtà.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                             

lunedì 12 novembre 2012

I «fatti romani» di A. M. Ortese






Trascrivo questa lettera di Anna Maria Ortese a Dario Bellezza, riportata nel volume: Anna Maria Ortese, Bellezza, addio. Lettere a Dario Bellezza (1972-1992), a cura di Adelia Battista, Archinto 2011. Ho scelto questa tra le tante perché testimonia l’estraneità ai «fatti romani» - li chiamava così - dichiarata più volte dalla scrittrice in privato agli amici (dal 1975 aveva abbandonato Roma e si era confinata a Rapallo, anche se col mondo letterario romano conservava rapporti telefonici e epistolari). L’intrigo presente in questo epistolario non è facilmente ricostruibile per il lettore che non fosse abbastanza esperto del linguaggio metaforico della Ortese, come del resto quello dei suoi romanzi strutturati con una tendenza (qualità singolare, poeticissima, per una scrittrice in prosa) a un continuo, vago, delirio, prossimo alla teatralità anche sotto il profilo concettuale (non si è forse sottolineato abbastanza quanto di filosofico è presente nella sua scrittura). Per es., dove allude – non qui, ma in altre lettere – ai «folletti», creature fiabesche della sua immaginazione visionaria, alla cui realtà però credeva – o faceva mostra di credere – e inducendo il lettore a credere alla loro esistenza e al loro aiuto, più potente – ma in altro modo, perché invisibile – del soccorso umano. È indubbio che Dario avesse amici forti e colpisce l’interrogativo iniziale della scrittrice: Dove sono? E afferma, poco dopo: Dietro i nomi, poco alla volta, non distinguo più niente. Emerge anche, fin dalle prime righe, il concetto della casa vissuta come il grande utero che accoglie e protegge, - visione questa che Anna aveva in comune con Elsa Morante. Mancano, come sempre in questo libro, le risposte di Dario.  sdf
N.B. Le note a piè di pagina sono di Adelia Battista.


Rapallo, 1.12.83[1]
Carissimo Dario,
la tua telefonata sul momento mi ha rallegrata, poi mi ha lasciato un po’ meno serena. Voglio dire: mi rendo conto che hai dei problemi ogni giorno, che coinvolgono tante cose preziose – come il tuo lavoro, la casa (per quello che vi respira – e che ti protegge). Avresti insomma bisogno di amici forti. Dove sono? È questo l’interrogativo.
Io da otto anni e più in Liguria, ho visto il deserto crescere intorno a me. Non puoi sapere fino a che punto. Spedisco delle lettere, ma è come se fossero imbucate sotto un albero. Le risposte arrivano quando ne ho quasi dimenticato il perché. Dietro i nomi, poco alla volta, non distinguo più niente. Mi chiedo se quelli che mi scrivono, sappiano davvero qualcosa della mia identità.
Quindi, sono rimasta senza fiato quando mi hai fatto qualche nome, per quel tuo problema. Non posso lamentarmi di nessuno – tutt’altro – ma ho l’impressione crescente di aver fatto perdere le mie tracce reali. Questo mondo è pieno di problemi – e anche di confusione e dimenticanza. Io tiro avanti solo perché non aspetto nulla, ma è una soluzione «estrema».
Ripensando a quanto mi hai detto, mi par di capire che il tuo attuale mondo romano si trovi intero davanti a uno specchio – e ciascuno – anche quando potrebbe farne a meno – pensa solo a se stesso, alla propria immagine.[2] Non è così? E non conosci nessuno a Firenze? Forse, sono persone più attente e in qualche modo più umane. Tu non vai mai a Firenze?[3]
Se non ti ho troppo «disgustato» fammi sapere qualcosa. Ti saluto tanto affettuosamente – con sincera ammirazione per la tua voce così spesso – da qualche tempo – libera e bellissima.
Ciao, Anna Maria



[1] Lettera autografa, su carta avorio, scritta su entrambe le facciate con inchiostro nero, con aggiunte a lato. Busta senza affrancatura, nome destinatario e città sottolineati, nessun indirizzo sul retro.
[2] La Ortese coglie con tristezza quella forma di narcisismo e autoreferenzialità che attraversa il nostro tempo impedendo la costruzione di rapporti intersoggettivi tra gli esseri umani. Per lei la relazione con l’altro si sostanzia di attenzione e cura: «Volere bene» per lei è attenzione affettuosa all’altro.
[3] La Ortese immagina che Firenze, città a lei cara, sede della Vallecchi, con cui ha pubblicato le sue opere dal ’58 all ’70, possa offrire a Dario quel soccorso umano di cui ha bisogno. Spesso la Ortese ha anche sognato di trasferirsi nel capoluogo toscano.

Marina Vittoria Rossetti






Lettere 1934-1978 di Montini-Rossetti (Rizzoli 1990, introvabile nelle librerie e credo difficilmente reperibile in altro modo) è il corpus epistolare di Marina Vittoria Rossetti (1916-1983) che trova un interlocutore d’eccezione in Giovanni Battista Montini, sua guida spirituale prima da Milano e poi da Roma. Marina sarà esclusa, a partire dal 1938, dall’insegnamento dell’italiano e della storia nei licei di stato, per aver rifiutato di iscriversi al partito fascista e ripiegando in istituti non statali. La raccolta è curata con scrupolosa acribia filologica da Emanuela Ghini, monaca carmelitana scalza del Carmelo di Savona e docente di filosofia teoretica.
Uno dei numerosi pregi del libro è costituito proprio dagli apparati introduttivi e dalle note a piè di pagina. I testi di Marina spesso mancano: se ne contano 33 dal 1934 al 1978 di contro alle 78 lettere di Montini, delle quali 71 sono di suo pugno (le prime 57 sono scritte a Milano e le ultime 21 dal Vaticano). Gli interventi della Ghini riportano brani delle Udienze Generali o delle Encicliche o delle Esortazioni apostoliche o delle Costituzioni conciliari, ritenendo la curatrice che non sia possibile commentare Paolo VI se non con le sue stesse parole. Risalta la personalità di Marina Vittoria Rossetti in questi scritti che lei stessa avrebbe voluto intitolare Lettere di circostanza tra un pontefice e una borghese. Seconda metà del secolo XX, ma che sono invece coinvolgenti non solo per la fedeltà cristiana ma anche dal punto di vista profano per l’attenzione rivolta tanto agli eventi storici, quanto a quelli della minuta quotidianità, che di volta in volta si susseguono. Paolo VI anche dal Vaticano continuerà a seguire Marina, nel segno della continuità di un’amicizia ancora presente nella sopraggiunta sintesi protocollare di riferimento (sette lettere hanno come intermediaria la Segreteria di Stato). 

domenica 4 novembre 2012

Prima la sentenza, poi il processo





l mulino dei pettegolezzi, pensa David, che gira giorno e notte, macinando reputazioni. La comunità dei virtuosi, che si riunisce di nascosto, al telefono, dietro porte chiuse. Bisbigli pieni di malvagia soddisfazione. Prima la sentenza, poi il processo.
Nei corridoi della facoltà, David s’impone di camminare a testa alta. 
Va a parlare con il legale che l’ha assistito durante il divorzio: - Sgombriamo subito il campo, - dice l’avvocato, - sono vere le accuse?
- Quanto basta. Avevo una relazione con la ragazza.

J. M. Coetzee, Vergogna


giovedì 1 novembre 2012

Beatrice 1 e Beatrice 2




Fontana di Diana e Atteone (Parco della Reggia di Caserta)


Beatrice non e-siste in quanto Bice né in quanto Beatrice. «La scoperta di una chiosa di Pietro di Dante nel manoscritto Ashburnhamiano 841 (a quella data recuperato da poco in Laurenziana, dal governo del nuovo Regno, dalla vendita britannica), che conservava la seconda redazione del Commentum di Pietro, sembrò dare una perentoria conferma della realtà storica della donna. In effetti, nel “Giornale Storico della Letteratura Italiana” del 1886 (7, p. 366) apparve una nota di Rodolfo Renier, da sempre agnostico sulla realtà fisica di Beatrice, che ammetteva volentieri che tale chiosa era risolutiva della questione. Da allora, a quanto pare, nessuno si è dato più cura di indagare sulla realtà di Beatrice, tacitamente ammessa; la questione, un tempo centrale nel dibattito, è stata accantonata e dimenticata del tutto» (Gorni).
Dante sta a Klossowski come la Vita nova sta a La Vocation Suspendue, nel suo campo di luce si danno giochi speculari, sottilmente perfidi. Bice e Beatrice non sono la stessa persona, si può parlare di Beatrice 1 (Bice) e Beatrice 2 (Beatrice): dell’esistenza fisica della prima non è lecito dubitare ma sull’in-sistenza identitaria della seconda la Vita nova non fornisce informazioni attendibili, è chiusa rappresentazione essoterica (all’esistenza di Beatrice 1 Dante ha sostituito l’in-sistenza e la per-sistenza di Beatrice 2). Semmai è il Boccaccio del Trattatello (§ 32 e passim) a darci ragguagli in merito, né sono mancati, fin dalla scuola ottocentesca di Adolfo Bartoli, quelli che hanno dubitato fortemente della realtà fisica di Beatrice 1. La Vita nova è un romanzo paradossale – un prosimetro – un “romanzo” che si interroga sulla propria struttura – in quanto Beatrice 2 è una realtà meta-storica, esoterica e tutt’al più meta-testuale. Tra la prima e la seconda si inserisce astutamente il simulacro a capovolgere i due estremi dell’antitesi: Beatrice 2 è la Medesima, l’Esattamente Rassomigliante a Beatrice 1 nella Vita nova prima e al punto da diventare poi nella Commedia il luogo deputato della teologia.
Ma, appunto, nella Commedia divinamente rappresentata, di Beatrice 1 restano solo le spoglie mortali incielate nella trasumanazione della Commedia divina, significate per verba al punto che Beatrice 1 in-siste e per-siste nella vita di Dante in quanto Beatrice 2. Ignorando l’alta letteratura medievale la sessualità, nel romanzo di Dante l’inesistenza è compensata dalla persistenza.  
Ma se fosse esattamente vero il contrario? Se Beatrice 2 non fosse il simulacro e Beatrice 1 a sua volta fosse l’Esattamente Rassomigliante? Infatti «l’uguaglianza A=A si anima di un movimento interiore e senza fine che allontana ognuno dei due termini dalla sua propria identità e li rinvia all’altro con il gioco (la forza e la perfidia) di questo stesso scarto» (Foucault, La prosa di Atteone). Beatrice 1 in-sisterebbe e per-sisterebbe come doppio dell’altra quando tutto sembrava convincerci del contrario.