domenica 21 ottobre 2012
Altre versioni
da Virgilio,
(Aeneis)
Libro I
Io, quell’io che già
ritmai sull’agreste leggero mio flauto
versi e, uscendo dai
boschi, ridussi i poderi vicini
a essere agli ordini
degli ancorché insaziati coloni,
opera accetta a loro;
di Marte, pur ora, tremende[1]
canto
le armi eroiche, l’uomo che primo da Troia
esule per un decreto
del fato raggiunse l’Italia
e le spiagge lavinie,
sbattuto per terre e per mare
dalle potenze supreme e
l’ira inflessibile della
dura Giunone assai
sopportando, anche in guerra, finché
edificò una città, riponendovi
il culto esoterico[2]
dal quale il genus del Lazio, Alba e, eccelse, le mura
di Roma.
Musa, ricordami tu i
motivi per cui la regina
degli dèi tutti si
offese nel numen o di che ella
dolendosi
sì travolgeva di casi
quell’uomo famoso per pietas,
così tenendolo in pena.
Queste ire nei cuori celesti?
Era un’antica città (da
coloni la tennero i Tirii)
posta di fronte
all’Italia, Cartagine, lungi dal Tevere,
ricca opulenta fiera
nei suoi guerreschi furori.
Sola, si dice, fra
tutte le terre era cara a Giunone,
a Samo stessa da lei
preferita: qui pose le armi,
quivi il suo carro la
diva, del mondo ché fosse lo scettro
universale, volendolo
i fati; fin d’ora lo auspica.
Libro IV
Ma la
regina, invasa da tempo da quella sua pena
grave, alimenta nel
sangue occulto e violento un incendio.
Tornano nella sua
mente la virtus di Enea e il grande
onore
del di lui popolo,
fermi ne ha in seno il bel volto e i discorsi,
né la sua pena maligna
dà quiete notturna alle membra.
Giunta era mo’
nuovamente col limpido faro d’Apollo,
tolta ogni ombra dal
cielo, Aurora a scrutare la terra,
da Giovanni Pascoli
(Poemata Christiana),
Fanum Apollinis
Il tempio di Apollo
Imputridito
invecchiava un tempio su un lido deserto.
Mezzo
crollate oramai le colonne dall’edera cinte,
trìglifi a terra e
mattoni coperti all’intorno dal muschio,
già
la sua porta d’ingresso spargeva erbette sottili,
molta propaggine e il
rovo gremiva il boschetto già sacro.
Lui stesso vecchio,
benché diroccate, adesso, un custode
prossimo a morte
sorregge le vecchie macerie del tempio.
Nella cappella, però,
disdegnando il silenzio degli evi,
sta, qui, contiguo al
bel tronco d’un albero, il pubere Apollo.
Dal santuario, da
tempo mancarono i suoi primordiali
Numi,
cadevano altari: da cielo e da terra lontani -
dèmoni forse – errando, sospinti da venti e da nuvole:
ché abbandonarono i
Lari le strade e i crocicchi: qua e là
ché dolci pianti le
fonti rivolgono ancora alle Ninfe.
[1] Cfr. Anthony Camps, Lettura del primo libro dell’Eneide, in Lecturae Vergilianae, a cura di Marcello Gigante, vol. III, L’Eneide, Napoli 1983, p. 15: “I
problemi di interpretazione sono pochi, a meno che non ci si voglia preoccupare
(e io penso che non sia necessario) di quei quattro versi che in alcuni testi
precedono il fondamentale arma virumque,
e che sono intrinsecamente dei bei versi".
[2] Il testo latino recita inferretque deos Latio (v. 6) ma
“i Penati troiani erano statuine di marmo, legno o terracotta. In verità,
non tutti gli antichi autori sono d’accordo sull’attribuzione: alcuni vogliono
che si tratti di grandi divinità, ossia di Apollo e di Nettuno; altri di grandi
dèi di Samotracia, oggetto di un culto esoterico” (Pierre Grimal, Virgilio, trad. it. a cura di Anna
Silva, Milano 1986, p. 210).
[A ripetersi in questo fotogramma]
A ripetersi in questo fotogramma
oggi è (mai) come allora,
narcisismo perduto dell’infanzia
ottobrata per quei giorni d’aprile
dopo trent’anni.
(21 ott. 2012)
L’alta tragedìa
![]() |
William-Adolphe Bouguereau, Dante e Virgilio nell'Inferno, 1850 |
In vita gli si tributarono onori in una
misura sproporzionata alla ritrosia del suo carattere, che lo faceva riparare
nella prima casa che trovasse disponibile per evitare quelli che per strada lo
riconoscevano e pretendevano di congratularsi con lui. Se si recava a teatro,
la folla acclamante si alzava in piedi al suo ingresso, nello stesso atto di omaggio
solitamente destinato all’imperatore. La sua gloria crebbe dopo la morte tanto
presso il pubblico dei raffinati quanto presso il popolo, al punto che si
preferirono le sue opere negli ambienti intellettuali e nelle scuole per lo
studio della grammatica, della retorica e della filosofia nel momento in cui, presso
il popolino, era ritenuto nel Medioevo operatore di miracoli, indovino e
taumaturgo. Fu giudicato più grande di Aristotele. Dante sceglierà come guida
la poesia eroica, cioè i filosofemi e l’alta
tragedìa (Inf., XX, 112-114: «Eurìpilo
ebbe nome, e così ‘l canta / l’alta mia tragedìa in alcun loco: / ben lo sai tu
che la sai tutta quanta») e non il linguaggio razionale di Aristotele, perché
questi si era limitato a presentare la sua speculazione in una forma razionale
nota a Virgilio ma superata da Virgilio.
Dante
credeva alla profonda sapientia di
Virgilio non solo riguardo all’ars poetica, realtà indiscutibile, ma anche
nel campo della filosofia e di tutto lo scibile. Bernardo di Chartres cercava
di mostrare che nell’Eneide fosse
descritta in philosophicis la natura
della vita umana e quel che facesse o soffrisse la mens provvisoriamente reclusa nel corpo. Nel XII secolo anche
Giovanni di Salisbury affermava probabilisticamente che dietro l’apparenza dei
miti nel poema era espressa la verità della filosofia. Dante educato in un
ambiente del genere, impregnato di tali idee e nelle scuole dove, dopo
l’imprescindibile tirocinio grammaticale, si insegnava a liberare il senso
recondito e allegorico di un testo, seguendo Giovanni di Salisbury spiegò nel Convivio l’Eneide come romanzo allegorico.
Le sortes Vergilianae fin dall’età degli
Antonini furono una pratica basata sull’esoterismo del testo e consisteva
nell’aprire a caso l’Eneide traendone
oracolo dal primo o dai primi versi che si leggessero. Era un procedimento
analogo a quello dell’I King studiato
da Jung. Hanno parlato di esoterismo espressivo anche i commentatori delle Bucoliche per via soprattutto della IV
egloga, esempio insigne di sincretismo pagano-cristiano, intrisa di accenti cumani
antecedenti al libro VI. Furono i padri della chiesa per primi a darle
un’interpretazione in senso messianico, contribuendo non poco a far nascere il
mito di un Virgilio profeta: basti rileggere i vv. 4-10 - dove la Virgo è la dea della giustizia, Astrèa,
individuata nella costellazione della Vergine ma la suggestione è forte
soprattutto laddove la “profezia”, satura di principi cosmogonici esiodei,
annuncia la nascita di un bambino prodigioso per giunta “dall’alto del
cielo”(v. 7: caelo alto) e apportatore
di una nuova stirpe dell’oro dopo quella del ferro, sotto il consolato di
Asinio Pollione cui è dedicata l’egloga - per farsene un’idea:
Ultima Cumaei venit iam carminis aetas,
magnus ab integro saeclorum nascitur
ordo.
Iam redit et Virgo, redeunt Saturnia
regna;
iam nova progenies caelo demittitur
alto.
Tu modo nascenti puero, quo ferrea
primum
desinet ac toto
surget gens aurea mundo,
casta, fave, Lucina: tuus iam regnat
Apollo.
Oppure
il famoso, e dibattuto in sede filologica, explicit
dei quattro esametri (vv. 60-63):
Incipe, parve puer, risu cognoscere
matrem
(matri longa decem tulerunt fastidia
menses);
incipe, parve puer: cui non risere
parentes,
nec deus hunc mensa, dea nec dignata
cubili est
che
fece vedere a Auerbach come, nell’interpretazione tipologica medievale degli
inni-elogio, l’espressione risum fecit
mihi Dominus (mi sorrise il Signore) in Gen.,
21, 6 «è
la gioia causata dalla nascita del bambino miracoloso, lungamente atteso, che
può anche ridere ed esser chiamato “noster risus”, il gaudium magnum” di Luca 2, 10. È mia opinione – scrive
Auerbach - che la quarta Egloga di Virgilio abbia contribuito anch’essa a
questa figura; l’interpretazione medievale del testo di Virgilio come profezia
di Cristo è ben nota» (Erich Auerbach, Studi su Dante, trad it. a cura di Maria Luisa De Pieri Bonino e Dante
Della Terza, Milano 2009, p. 290).
«“Incipe
parve puer risu cognoscere matrem” [o pargolo incomincia a riconoscere la mamma
col tuo sorriso]. La lettura – continua l’Auerbach alla nota 37 (ibidem) - delle parole “qui non risere
parenti” [che non risero al genitore], (invece di “cui non risere parentes” [“a
cui non risero i genitori”]) si fonda su un passo di Quintiliano (IX, III, 8)
ed è stata sostenuta da E. Norden, Die
Geburt des Kindes; Geschichte einer religiösen Idee (Leipsig 1924), p. 62.»
Abbiamo
scelto per questo passo delle Bucoliche il
testo stabilito da E. De Saint Denis, Virgile,
Bucoliques (Les Belles Lettres, Parigi 1987). Per la verità, di Quintiliano
e della IV Egloga, nonché di corruttela esclusa per la qualità del testimonio
parla Paul Maas sia pur motivando la lezione del Norden con una congettura di
Schrader (parentes > parentei
> parenti):
«In
Virgilio, Ecl. 4, 62, dove i
manoscritti offrono la lezione
cui non
risere parentes,
nec deus hunc mensa, dea nec dignata
cubili est.
Quintiliano (9, 3, 8) leggeva qui non
risere e si meravigliava che a questa espressione seguisse hunc al singolare. Egli non avrebbe
fatto ciò, se allora ci fosse stata una variante cui non risere. Di tale variante non è dunque da tener conto per la
recensione. Ma dopo qui non ha senso parentes: plausibile congettura di J.
Schrader parenti (= parentei L. Havet). Dipende
probabilmente da contaminazione da tradizione corrotta di Virgilio il fatto che
i manoscritti quintilianei scrivano egualmente cui e parentes. Perché
Virgilio poi non abbia scritto hos,
potremo sentire, se pensiamo al letto della Dea: la costruzione, irregolare in
latino, è un grecismo (cfr. Euripide, Heracles
195 ὅσοι ἔχουσι…., ῥύεται), come l’intero motivo della chiusa vuole essere
una reminiscenza di Teocrito IX (“colui che non è stato ammaliato da Circe, ha
diviso con lei la mensa e il talamo”). Da ultimo e nel modo più deciso ha sostenuto
questa lezione E. Norden, Geburt des Kindes (1924), 61 sgg.» (Paul Maas, Critica del testo, con lo «Sguardo
retrospettivo 1956» e una nota di Luciano Canfora, trad.
it. a cura di Nello Martinelli, Firenze 1990, p. 47).
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