Ad rivum eundem lupus et agnus venerant,
siti compulsi. Superior stabat lupus,
longeque inferior agnus. Tunc fauce improba
latro incitatus iurgii causam intulit:
"Cur - inquit - turbulentam fecisti mihi
aquam bibenti?" Laniger contra timens :
"Qui possum - quaeso - facere quod quereris, lupe?
A te decurrit ad meos haustus liquor."
Repulsus ille veritatis viribus:
"Ante hos sex menses male - ait - dixisti mihi".
Respondit agnus: "Equidem natus non eram!"
"Pater, hercle, tuus - ille inquit - male dixit mihi!"
Atque ita correptum lacerat iniusta nece.
Haec propter illos scripta est homines fabula
qui fictis causis innocentes opprimunt.
* * *
Inops, potentem dum vult imitari, perit.
* * *
Il cervo alla fonte
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Laudatis utiliora, quae contempseris,
saepe inveniri haec asserit narratio.
Ad fontem cervus, cum bibisset, restitit
et in liquore vidit effigiem suam.
Ibi dum ramosa mirans laudat cornua
crurumque nimiam tenuitatem vituperat,
venantum subito vocibus conterritus
per campum fugere coepit et cursu levi
canes elusit. Silva tum excepit ferum,
in qua retentis impeditus cornibus
lacerari coepit morsibus saevis canum.
Tunc moriens vocem hanc edidisse dicitur:
«O me infelicem, qui nunc demum intellego,
utilia mihi quam fuerint, quae despexeram,
et, quae laudaram, quantum luctus habuerint».
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* * *
SENARIO GIAMBICO
Ad rì| v(um) eundem | lupùs et a | gnus vè | nerant,
sitì | compul | si. Sù| perior| stabàt | lupus,
longè | que infe| rior à | gnus. Tunc | fauc(e) ìm | proba
latr(o) ìn | cita | tus iùr| gii | caus(am) ìn | tulit
Piede giambico: ∪ —.
Piede giambico: ∪ —.
Il trimetro giambico greco:
∪ — | ∪ — | ∪ — | ∪ — | ∪ — | ∪ —
Rispetto al modello greco però il senario giambico latino presenta maggiori libertà nelle sostituzioni del piede puro, secondo il seguente schema:
— —′| — —| — —′| — —| — —′| ∪ —
Fa mè co a cta vùl pes al t(a) in vì nea
Famè coacta vùlpes alta in vìnea
uv(am) àdpetebat sùmmi saliens vìribus:
quam tànger(e) ut non pòtuit, discedéns ait:
nondùm matur(a) est; nòl(o) acerbam sumere.
Luca Canali, Storia della poesia latina, Milano, Bompiani, 1990, pp.155-179.
* * *
Di Fedro sappiamo pochissimo (fra gli autori latini, lo nominano soltanto Marziale e, nel IV secolo, Aviano). Nasce in Tracia. Schiavo da piccolo, forse eunuco, giunge nella familia di Augusto, che lo libera. Diventa così uno dei tanti liberti che in età giulio-claudia premono, nella gerarchizzata società di Roma, per un’ascesa sociale che i tradizionalisti, da Petronio a Giovenale, considerano sovversiva, offensiva. Ma Fedro, ai tempi dello strapotere di Seiano presso Tiberio, viene condannato non sappiamo perché, e inutilmente cerca poi di ottenere l’appoggio di altri liberti più o meno potenti fino ai tempi di Claudio (Eutiche, Particulone, Fileto). È dunque un fallito.
Questo fallimento ha un significato particolare. Gli altri liberti, specie fra Claudio e Nerone, sono riusciti a sfondare operando nei canali che lo permettevano: il commercio, la carriera clientelare presso le famiglie della nuova aristocrazia, l’amministrazione dei beni imperiali. Fedro è fallito, invece, come poeta che intendeva porsi alla pari dei poeti degli «ordini superiori», per la sua libertà di parola; e in età tiberiana. Ha tentato una via sbagliata, in un tempo sbagliato.
[…]
Sia in Grecia che a Roma, comunque, la favola esopica non rientrava nei generi letterari canonici. Fondata su tradizioni popolari soprattutto orali, veniva considerata un’espressione paraletteraria dei ceti subalterni, di cui rivelava la rassegnata visione di vita. La stessa, sporadica apparizione in opere di genere alto serviva, appunto, come richiamo ad una generica saggezza propria di qualunque strato della società.
[…]
È il primo scrittore latino del mondo antico a dedicarsi completamente alle favole e a farne una raccolta in versi (a noi son giunti 5 libri più un’Appendix); il primo a voler portare la favola al livello dei generi letterari canonici, specie della satira. Di questa Orazio aveva detto che «castigat ridendo mores»; Fedro sostiene che la sua favola «risum movet». Come in Orazio (ma non in Lucilio) il suo ammaestramento non si rivolge al singolo, ma concerne, universalmente, «ipsam vitam et mores hominum». […] In sostanza, Fedro vuol essere, per la favola, quello che il venosino è stato per la satira: il maestro classico», l’introduttore a Roma di un nuovo genere letterario, che egli rinnova di fronte al modello greco, aggiungendo anche aneddoti storici o novellistici.
[…]
A questo mondo servile, nettamente caratterizzato ed affermato, è legata la poesia di Fedro. Chi vi cerca ciò che non c’è, la giudica male. Nelle favole fedriane è assente la gioia del racconto favoloso per bambini, l’abbandono al mondo degli animali come mondo fantastico: egli non è Orazio o Ovidio, La Fontaine o Krylov. Manca egualmente e del tutto una capacità e volontà di ricostruire simbolicamente, nel mondo degli animali, un analogo mondo umano, come nel Roman de Renart o in esempi più recenti. Fedro racconta con una essenzialità che sembra impoverisca tutto; non descrive lo sfondo paesistico delle vicende; ci dà solo scarse presentazioni delle caratteristiche fisiche e scheletrici cenni di quelle psicologiche degli animali. […]
I verbi plectere, occidere, contemni, derideri, opprimere, rapere, pati, perire, servire; i sostantivi pernicies, potentes, improbi, nequitia, praeda, servitus, superbia, flatus, querela; gli aggettivi aridus, durus, turpis, pravus, obscurus, victus tornano come una condanna immutabile. Alcuni versi sono di una lacerante, indimenticabile densità, che ricorda alcune letterature modernissime. Si pensi al (revocato da Ennio) «palam muttire plebeio piaculum est»; a «defectus anni set desertus viribus»; a «id demum et homini turpe, quod meruit pati»; «qui natus est infelix, non vitam modo / tristem decurrit, verum post obitum quoque / persequitur illum dura fati miseria»; e soprattutto allo straziato «et loqui poena est et tacere tormentum».
È un mondo di disperazione arida, ferita, stanca, rassegnata e senza lacrime; una testimonianza di offeso dolore umano fortissima per autenticità e per pudore.
Salvatore D’Elia, Dall’impero italico all’impero mediterraneo. Scrittori dell’età imperiale, Napoli, Loffredo, 1984, pp. 25-29.
* * *
Non fu un grande poeta, è vero; ma ebbe velleità di poesia e meriti grandi: la cura particolare con cui ogni vocabolo è collocato al giusto suo posto, la raffinata tecnica del verso, l’incisività della morale esposta, specialmente nei primi due libri, all’inizio (promitio = prima del mythos, cioè prima del racconto) o alla fine della favola (epimitio), il tono rapido e la festevolezza dell’arguzia, la brevità del racconto, specie nel I libro.
[…]
Queste Fabulae Aesopiae sono in senari giambici. Scrisse e pubblicò cinque libri, ma solo parte delle sue favole, circa un centinaio, sono a noi giunte: la raccolta presenta un prologo a ciascun libro (i libri III, IV, V hanno anche un epilogo). Altre 30 favole di Fedro si trovano in un manoscritto dell’umanista Nicolò Perotti, ma ignoriamo da quali fonti l’umanista ricavò queste favole: al patrimonio poetico di Fedro forse appartengono anche i contenuti di alcune favole in prosa che si trovano in raccolte medievali.
[…]
La sua condizione di liberto di Augusto lo pose fatalmente, alla morte del principe, alle dipendenze della corte del successore: ma alla corte di Tiberio la sua condizione era equivoca. Le sue favole avevano una carica incontenibile di umanità.
[…]
Le favole di Fedro si leggono con un certo diletto sia per la piacevole festività del racconto sia perché sono scritte in uno stile semplice e schietto, senza ricercatezze retoriche, con rare immagini, con rare metafore, con epiteti, quando ricorrono, appropriati e per lo più formanti, col nome cui si riferiscono, quasi una sola immagine: uno stile tenuis e asciutto, pur tuttavia caratterizzato da una certa tendenza a privilegiare il termine astratto. Ricerca la brevitas ma non riesce talvolota ad evitare la monotonia.
E poiché Fedro si accorge che la favola, proprio come la commedia, si propone di risum movere, «far ridere» ha scelto come metro non l’esametro, che pure era stato usato da Lucilio e da Orazio per la satira, bensì il verso tipico delle parti dialogate della commedia (deverbia), cioè il senario giambico, dove i giambi non sono aggruppati in dipodie. Nella composizione dei senari è molto più vicino alla metrica degli antichi poeti, non alla metrica classica: perciò, mentre nell’epica classica la sostituzione dello spondeo può aversi solo nei piedi dispari (1°, 3°, 5°), Fedro pone liberamente lo spondeo in tutte le sedi, tranne l’ultima. Ancora: sfruttando la possibilità di sciogliere una lunga in due brevi, ammette in tutte le sedi, eccetto l’ultima, grande varietà.
Accoglie di solito l’anapesto nel 1° e 5° piede (ma evita la successione di due anapesti); usa il dattilo per lo più nel 1°, 3° e 4° piede; accetta il proceleusmatico, cioè una serie di quattro brevi, solo in prima sede. La pausa metrica è semiquinaria, quando capita a dividere il terzo piede (più di rado, la semisettenaria).
Fabio Cupaiuolo, Storia della letteratura latina, Napoli, Loffredo, 1994, pp. 287-295.
* * *
Dopo Ovidio nella poesia latina c’è non solo una netta caduta di livello – a parte alcune eccezioni -, ma anche un offuscamento degli animi. Le ragioni storiche di ciò sono evidenti, e non è il caso di esaminarle in questa sede. Basterà dire che la dinastia Giulio-Claudia (Augusto, Tiberio, Caligola, Claudio, Nerone), ma anche le altre in seguito, saranno incapaci di suscitare quelle spinte ideali e quei fermenti e motivi che costituiscono sempre la causa liberatoria dell’ispirazione e della creazione poetica. […]
Gli intellettuali erano ormai quasi tutti cortigiani, o addirittura stretti dell’imperatore (si pensi a Seneca, ma anche a suo nipote Lucano, e al grande retore Quintiliano, tutti spagnoli; poi a Silio Italico – forse spagnolo anche lui -, spia di Stato a servizio di Nerone, poi console). E la corte, ove costoro si aggiravano, sede di intrighi di ogni genere e di sanguinose congiure: la società nel suo complesso prosperava, all’atrocità e alla bassezza della vita degli ambenti vicini al princeps non corrispondeva lo sfacelo del corpo dell’Impero. Era vero semmai il contrario. E le plebi erano torpidamente paghe: panem et circenses era il grido lanciato dalle folle e sempre esaudito, per addormentarle.
Che cosa dovevano cantare i poeti? Cosa poteva impedir loro di trasformarsi in letterati manierati e spesso prolissi, o in tetri cantori di atrocità, o in irridenti osservatori di un costume irrimediabilmente deteriorato?
[…] Fedro è singolarmente chiaro e a suo modo combattivo, ma non certo “ribelle”: egli dà inizio alla umanissima, ma pessima abitudine di attaccare i potenti solo quando sono caduti in disgrazia o defunti. Fedro lo farà con Seiano, l’onnipotente prefetto delle coorti pretoriane, come in seguito lo faranno Giovenale e Marziale, con Domiziano, l’ultimo imperatore (o princeps o Caesar) della dinastia Flavia.
[…]
È una morale abbastanza trita, quella dell’oscuro individuo che non ama prender partito, sapendo che sarà sempre lui a “portare il basto”. Sarebbe un grave errore dare valore universale e permanente alla morale di questa favola, tuttavia essa contiene pur sempre un’amara verità, anche se non propriamente educativa nei confronti dei giovanissimi, cui con grave errore didattico è stata per secoli propinata la “saggezza” di Fedro.
Luca Canali, Storia della poesia latina, Milano, Bompiani, 1990, pp.155-179.
* * *
La letteratura augustea aveva voluto fondare un sistema organico dei generi e insieme darsi un orizzonte civile; la letteratura neroniana rappresenta la perdita di questo orizzonte anche nella “decostruzione” del sistema letterario augusteo. Il poeta perde il ruolo positivo di vate che propaga i valori della comunità e, cedendo al pessimismo delle vecchie aristocrazie esautorate, soffre insieme di nostalgia e di aggressività. La sua voce diventa declamatoria, sempre più gridata perché insidiata dalla sfiducia nel suo pubblico: c’è quasi – in questi poeti – il gusto vittimistico del rappresentarsi isolati e senza ascolto: il titanismo degli atteggiamenti è come una compensazione per le frustrazioni di chi sente incerto il proprio ruolo.
Una certa crisi del mecenatismo era già avvertibile all’altezza della seconda generazione augustea, quella che era stata meno coinvolta dalla stagione sanguinosa delle guerre civili: essa aveva cominciato a dare segni di insofferenza per la letteratura “impegnata” dei suoi grandi predecessori (quello di Ovidio è un caso emblematico). La morte di Mecenate ha provocato un distacco che non sarà più ricomposto. La crisi del mecenatismo lascia i poeti privi di un riconoscimento sociale e di un unitario progetto culturale cui ispirarsi. I grandi modelli letterari vengono ammirati ma insieme sono sentiti come lontani e perduti. […]
La crisi del mecenatismo è già manifesta in Tiberio, che non sembra nemmeno porsi il problema di organizzare un programma di egemonia culturale. Anche Claudio, che pure avrà personalmente un’ottima fama di erudito, non riesce a farsi accentratore e organizzatore di cultura. Solo Nerone, nei primi anni del suo principato, tenta di esercitare un patronato sulle arti e sulla letteratura. Di una nuova, breve stagione classicistica, mirante appunto ad una fioritura letteraria che prende a modello l’età augustea, resta qualche modesto prodotto: un’Ilias Latina e la poesia bucolica di Calpurnio Siculo. Nerone stesso fu poeta e promosse in vario modo le attività artistiche, istituendo fra l’altro un concorso poetico pubblico, i Neronia.
[…]
Fedro è per molti versi un autore marginale: ha una posizione sociale assai modesta come individuo e, come poeta, non si può definire un virtuoso; pratica un genere letterario minore, anch’esso marginale rispetto alle grandi correnti letterarie della prima età imperiale. Tuttavia, Fedro è per certi versi una delle massime glorie della letteratura latina. È infatti il primo autore, nella cultura greco-romana, che ci presenti una raccolta di testi favolistici, concepiti come autonoma opera di poesia, destinata alla lettura. La favola è il genere più universale e più profondamente popolare che ci sia, e Fedro, come narratore, inventa ben poco. Il suo merito sta invece nell’impegno costante e sistematico per dare alla favola una misura, una regola, una voce ben definita e riconoscibile.
Gian Biagio Conte, La letteratura dell’età imperiale, in Filologia latina, direttore Fritz Graf, a c. di Marina Molin Pradel, trad. it. di Silvia Palermo, Roma, Salerno Editrice, 2003, pp. 309-401.
* * *
Come avvertiva egli stesso («Hoc illis narro qui me non intellegunt», III, 12, 8) comprensione e fortuna presso i contemporanei Fedro non ebbe, pur essendo il più notevole poeta del suo tempo, e neppure presso gli scrittori delle successive generazioni. Seneca e Quintiliano tacciono di lui o per ignoranza o di proposito. Soltanto Marziale lo nomina (III, 20, 5): «improbi iocos Phaedri». Ma della sua missione di favolista e del suo merito di scrittore Fedro ebbe sicura coscienza: preannunziò l’immortalità del suo nome: «Habebunt certe quo se oblectent posteri» (III, Ad Eut., 32). E le delusioni in vita furono compensate dalla gloria postuma che gli fu conferita dopo molti secoli, quando nel 1596 l’edizione principale di Pietro Pithou collocava Fedro tra i classici dell’arte favolistica europea.
Enzio Cetrangolo, Breve storia della letteratura latina, Pordenone, Edizioni Studio Tesi, 1991, pp. 167-173.
* * *
La brevità della concezione accompagnata da uno stile conciso dà particolare rilievo a questi lavori di miniatura; la lingua è sempre efficace ed esprime il pensiero con rapidità. A questo effetto Fedro non si fa scrupolo di scegliere vocaboli anche da scrittori antichi e dal popolo, offrendo una varietà, che poteva spiacere ai puristi. Spesso ricorre a forme astratte e qualche volta usa costrutti un po’ contorti; ma non ostante taluni difetti, bisogna riconoscere che questo poeta di cose piccole riesce ad interessare e a divertire, adattando all’ufficio della satira morale e civile la vita degli animali.
La raccolta delle favole ha subìto qualche guasto e delle perdite, perché mancano le favole degli alberi annunziate nel prologo del libro primo. Nell’età del rinascimento Niccolò Perotto, arcivescovo di Manfredonia, trascrisse da un manoscritto più antico 32 favole, che completerebbero la raccolta, se non fossero sorti dei dubbi circa l’autenticità di questa appendice, che alcuni ritengono del Perotto medesimo.
Ferdinando De Paola, Storia della letteratura latina, Genova-Roma-Napoli-Città di Castello, Società Editrice Dante Alighieri, 1947, pp. 253-256.
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