1. Non c’è dubbio che Kierkegaard sia complice dei suoi esteti.
«È regola di delicatezza quando si scrive,
utilizzando gli avvenimenti della propria vita, non dire mai la verità, ma
tenerla per sé e lasciarla soltanto rifrangersi sotto angoli diversi» (Diario,
842-44).
In Kierkegaard la dimensione estetica è intrecciata
alla morte, perché la bellezza e l’eros non rispondono alla domanda ultima
dell’esistenza. In lui l’estetica è una contemplazione della morte. Ma allo stesso
tempo si compiace del carpe diem o, meglio, si vorrebbe compiacere
dell’istante se non dovesse contemplare la morte. Va nella posizione mediana
dell’etica per risolvere temporaneamente il conflitto. Lo stadio etico è una
fuga necessaria quanto non risolutiva, perché l’esteta si rivolge di nuovo a una
miriade di figurazioni attraenti senza arrivare mai peraltro alla realizzazione
del sentimento. Il piacere è sempre rinviato, il seduttore si agita a destra e
a sinistra per compiacersi del proprio destreggiarsi. Manca un centro
totalizzante nella sua ricerca, nel senso che non viene trovato e lo stadio
religioso è l’altrove che intensifica illusoriamente quella mancanza di
centralità radicale, tant’è vero che il cristianesimo diventa paradossalmente
più appetibile in termini di tensione erotica di quanto non lo fosse la stessa
etica sessuale antica. Se per caso trova la centralità (Regina Olsen), la
abbandona in quanto gli occorre lo stadio religioso per rinforzare il rapporto con
gli oggetti della seduttività molteplice, come se ogni singola avventura fosse
da rivivere sub specie aeternitatis. Così si assolutizza il carpe
diem, in Kierkegaard non esiste che l’istante. Non lo dice apertamente
perché banalizzerebbe l’esperienza.
In Kierkegaard c’è l’impossibilità di raggiungere la
fede cristiana ed esservi coerente, senza la consolazione di Pascal di averla
trovata proprio perché la sta cercando. Si direbbe piuttosto che non vuole
realmente perseguire la ricerca.
2. Un genio in una città provinciale[1]
Peter
P. Rohde, autore di Søren Kierkegaard. Un genio in una città provinciale,
è stato uno tra i maggiori studiosi danesi del filosofo:[2].
In realtà il sottotitolo del libro è un’espressione dello stesso Kierkegaard
contenuta nei suoi diari: lui lamentava l’incomprensione e l’invidia che lo
circondava nell’arco della sua breve esistenza a Copenaghen, una città che
tuttora ha pochi segni tangibili che lo ricordino, a parte un brutto monumento
(a differenza di Praga, che conserva molte tracce del passaggio di Kafka), come
se Kierkegaard non fosse mai stato a Copenaghen, il che è molto strano se si
considera la svolta epocale, in polemica con la dialettica hegeliana, che il
suo pensiero ha costituito, con parecchi continuatori a cominciare dal teologo
Karl Barth che si ispirò al danese.
Il libro di Rohde non mantiene
quello che promette, non affronta il rapporto con Copenaghen se non
indirettamente e nella sua sintesi piuttosto delinea i tratti fondamentali
della filosofia kierkegaardiana e i rapporti con le poche persone che hanno
contato nella sua vita: il padre, Regina Olsen naturalmente e i suoi maggiori
antagonisti Goldschmidt e i vescovi Mynster e Martensen. Così se si vogliono
ripercorrere i tratti salienti della sua vita bisognerà cercare altrove, nel
recente volume di Clare Carlisle[3],
che tuttavia ha il limite di considerarlo soprattutto un teologo, e dagli studi
fatti in Italia da Maria Rosaria Pepe, in particolare riguardo al rapporto
divenuto poi non-rapporto con Regina Olsen[4],
al di là del gossip naturalmente in quanto quello è un momento cruciale in cui
si realizza nella vita la filosofia di Kierkegaard.
La sua vita è stata povera di
eventi, anche perché è morto molto giovane lasciando una produzione abnorme di
scritti. Quando è a Berlino, la mattina esce per poco, poi rincasa e scrive
fino alle tre, poi esce di nuovo per andare al ristorante. Torna a casa e
continua a scrivere. Ma anche a Copenaghen la sua giornata non è troppo
diversa. Passeggia tra la folla, fa veri e propri bagni di folla, proprio lui
che ha tanto scritto sul Singolo minacciato dalla massa. Eppure dava luogo a
tutti, parlava con tutti e presumibilmente non di filosofia; era molto
benvoluto e mi piace sottolineare questo aspetto che non c si aspetterebbe in
uno scrittore come lui sempre un po’ allineato con l’odi profanum
vulgus di oraziana memoria e invece questo profanum vulgus lo
prendeva a braccetto, lui si lasciava prendere a braccetto amabilmente, come se
una volta tanto fosse anche lui uno di loro.
Ha una casa spaziosa nel centro di Copenaghen, ogni mattina ne esce indossando il cilindro e usando un bastone da passeggio o un ombrello chiuso, con un’aria da dandy e cammina moltissimo. Questo camminare a piedi l’ha in comune con altri pensatori, con Rousseau nelle sue ultime passeggiate solitarie in preda alla paranoia lucida, con Nietzsche che pure faceva lunghe marce nelle città dove abitava perché riteneva che all’aria aperta i pensieri si mostrassero più affidabili e che anzi bisogna diffidare dei pensieri che non si presentino all’aria aperta, con lo stesso Leopardi che a Napoli pure passeggiava da solo prima che Ranieri andasse a ripescarlo mentre la folla, il popolo si era radunato intorno a lui chiamandolo ‘o ranavuottolo.
C’è quindi questo aspetto amabile in Kierkegaard. Conversa coi conoscenti che incontra. Bisogna però precisare che ha l’aria giudicante quando i passanti lo incrociano e lo prendono a braccetto, sono intimiditi dall’azzurrità del suo sguardo penetrante e a sua volta lui deve ritrarsi, ha bisogno della solitudine del Singolo per scrivere. Tutto questo non lo dice Rohde. Rohde si sofferma a delineare le fasi della filosofia di Kierkegaard, non senza cadere in qualche luogo comune, per esempio nel considerarlo un precursore dell’esistenzialismo, dei vari Sartre e Heidegger. Infatti il pensatore esistente, di cui parla nella Postilla conclusiva non scientifica, non è il pensatore esistenzialista proprio perché in lui c’è il cristianesimo, e di questo avviso era anche Cornelio Fabro, massimo studioso di Kierkegaard (a parte il fatto che pure Gabriel Marcel rifiutava l’etichetta di esistenzialista, che fu affibbiata a Heidegger a sua volta non senza suo disappunto). E a mio parere tale equivoco, rinforzato da Rohde, è il punto debole del suo libro.
Non si può prescindere dal cristianesimo, ma il suo
è estetizzante, la sua fede è corrotta dall’interno (cfr. Hannah Arendt,
Quaderno XIII, 27[5]).
Kierkegaard critica ferocemente Hegel perché secondo lui l’idealismo è anticristico,
non è possibile che nel concetto (cum-capio) ci siano sia l’umano che il
divino, si tratta invece di un rapporto che è impossibile porre
dialetticamente.
L’estetica di Kierkegaard è il sentire, il percepire per mezzo dei sensi (da αỉσθάνομαι, sento, intendo, comprendo), insomma la vita del Singolo e tuttavia l'estetica, portata alle estreme conseguenze, diviene inadeguata a risolvere l’angoscia. Ma pure lo stadio etico non risolve l’angoscia perché anche l’etica è nel tempo. Il Singolo se prova nausea per l’estetica e si rivolge all’etica ecco che di nuovo ne è strozzato fino al paradosso dello Stato etico, mentre occorre l’eccezione del Singolo, ma lo Stato etico soffoca l’eccezione e diventa una dittatura. Solo Abramo può eccedere l’etica, Abramo uccide il figlio ubbidendo a Dio ma poi Dio glielo restituisce, di nuovo l’umano si trova nella sua dimensione senza che però l’abisso col divino sia colmato, - né può colmarlo la dialettica hegeliana. Ma i tre stadi non si susseguono.
[1] Testo della lectio magistralis tenuta presso il Liceo “Don
Gnocchi” di Maddaloni (Caserta) il 22 dicembre 2021.
[2] Traduzione e cura di Igor Tavilla, Roma, Castelvecchi, 2018.
[3] Kierkegaard. L’inquieto filosofo del cuore, trad. it. di
Francesca Ilardi e Massimo Bocchiola, Milano, Ulrico Hoepli Editore, 2020.
[4] La Paralisi della Possibilità: Søren
Kierkegaard e Regina Olsen, Acerenza, Telemaco
Edizioni, 2015.
[5] Nel deserto del pensiero. Quaderni e diari. 1950-1973, edizione
italiana a cura di Chantal Marazia, Milano BEAT, 2015, p. 256.