Il fondamento antropologico
I quattro Vangeli canonici sono stati sottoposti al
vaglio laico, rigoroso, dell’antropologia culturale per distinguere
scientificamente ciò che è stato sicuramente detto e compiuto dal fondatore del
cristianesimo da quanto è stato invece frutto della trasposizione apologetica
degli evangelisti, che neppure compresero appieno la novità eversiva del
pensiero cristiano. Ha fatto questo Ida Magli, in Gesù di Nazaret.[i]
La fede, chiarisce subito la Magli, può sussistere senza
venir contraddetta dall’analisi antropologica, il cui oggetto è il “documento
culturale, proprio in quanto documento culturale”[ii],
anche se, di conseguenza, la tradizione cattolica quale si è venuta delineando
in due millenni di storia sembra aver ribaltato alcune questioni fondamentali
che Cristo aveva, viceversa, affrontato e risolto in modo addirittura opposto.
Questo sconcerta se si considera, in primo luogo, che la mentalità ebraica è
stata superata, a cominciare dal concetto di tempio, ossia di organizzazione
clericale e verticistica (il Sinedrio, all’epoca altresì connivente, peraltro
per ragioni di forza maggiore, col potere esecutivo romano) e la dimensione
della preghiera diviene esclusivamente privata e individuale, non quindi di
gruppo, né tantomeno liturgica e, ancora una volta, non ecclesiale né
sottoposta alla gerarchia, in quanto non presuppone nel suo svolgersi la
funzione mediatrice del ministro di Dio:
I passi dei vangeli da cui appare che sono questi i
contenuti più radicali della sua ‘rivoluzione’ nei confronti delle strutture
culturali e sociali ebraiche, sono numerosissimi. Ma è sufficiente pensare al:
‘Quando vuoi pregare entra nella tua camera…’ (cfr. vangelo di Matteo, cap. 6,
versetto 6); oppure: ‘Quando fai l’offerta, non sappia la destra quello che fa
la sinistra’ (cfr. vangelo di Matteo, cap. 6, versetto 3); oppure, ancora:
‘Quando digiuni, non fare la faccia triste’ (cfr. vangelo di Matteo, cap. 6,
versetto 16).[iii]
Le due strutture fondamentali del sacro, lo spazio e il
tempo, sono state eliminate da Gesù; si predilige al contrario – sempre nella
prospettiva antropologica – il rapporto libero e diretto tra uomo e Dio.
Perfino il Padre nostro, preghiera insegnata dal Maestro ai discepoli, è più ebraica che
cristiana. Alla sessualità che, dalla legge mosaica in poi, costituisce da
sempre l’ossessione della spiritualità cattolica nell’ambito della teologia
morale, Cristo fa poco o nessun riferimento e senza il moralismo rabbinico.
Quando ne accenna, si tratta o di aggiustamenti testuali degli evangelisti o di
una loro rimozione, sintomatica per la cultura del tempo:
Gesù sa che è impossibile affrontare il problema della
sessualità di per sé, - continua la Magli - come problema a sé stante, perché
in realtà esso è presente dovunque è presente il sistema proiettivo della
trascendenza. Una volta assunta ad analogia onnivalente della ‘potenza’, la
sessualità non può più essere ‘liberata’ dalle innumerevoli implicazioni di cui
è prigioniera, ma di cui diventa a sua volta prigione: dovrebbe venire prima
sradicata la potenza della parola, dato che su di essa è costruito il vero
Potere, quello che domina l’uomo attraverso la morte.[iv]
E anche:
La grande forza di Gesù, del resto, è proprio in questo:
avendo fatto cadere il diaframma fra il sacro e il profano, fra il piano di
potenza e l’uomo, in realtà ha reso all’uomo disponibile tutto l’al-di-là,
tutto il trascendente. Il mondo di-là è riportato di-qua senza più alcuna
differenza. Non può, quindi, Gesù non odiare la morte, perché quel diaframma
tra l’al-di-là e il-di-qua che lui ha tentato di far cadere viene ristabilito
dalla morte, in quanto la morte è comunque la fine del corpo, e fa percepire
inevitabilmente il fatto che la ‘rottura’ c’è. Odiare la morte significa amare
ogni singolo uomo, perché appunto l’individuazione è possibile soltanto
attraverso il corpo, significa amare la vita e l’’umanità’ reale, mondana,
dell’uomo, e non la trascendenza.[v]
Dioniso e il Crocifisso
La circostanza in cui, come denuncia Pascal, quello di
Descartes, agostinianamente derivato dal reditus in se ipsum, è un Dio
filosofico ancora nulla dice contro il cristianesimo di Descartes. Il dubbio
metodico è così forte che per dimostrare l’esistenza del mondo Descartes ha
bisogno di dimostrare matematicamente l’esistenza di Dio laddove Nietzsche dubita
del dubbio cartesiano dal momento che tenta di ricongiungere l’idea
tardo-moderna del mondo con le premesse presocratiche di Dioniso. Il mondo
nietzscheano, non trovando termine di paragone in nulla e tantomeno in Dio, né
nel Dio dei filosofi né tantomeno in quello cristiano, non ha senso né valore
alcuno. Ma per superare il nichilismo che ne consegue, restano le visioni di
Zarathustra della volontà di potenza e dell’eterno ritorno dell’identico, al di
là del bene e del male e non, comunque, al di là del nobile e del
meschino.
Non
è tanto assurdo sostenere che la morte di Dio – dice Vattimo – che è
annunciata da Nietzsche è, in molti sensi, la morte di Cristo sulla croce
narrata dai Vangeli. […] Il cristianesimo introduce nel mondo il principio
dell’interiorità, in base a cui la realtà ‘oggettiva’ perderà via via il suo
peso determinante. La frase di Nietzsche ‘non ci sono fatti, solo
interpretazioni’ e l’ontologia ermeneutica di Heidegger non faranno che portare
alle estreme conseguenze questo principio. Il rapporto dell’ermeneutica moderna
con la storia del cristianesimo, dunque, non è solo quello che sempre si è
creduto, e cioè il nesso essenziale che la riflessione sull’interpretazione ha
sempre avuto con la lettura dei testi biblici. Ciò che qui propongo è invece
che l’ermeneutica, nel suo senso più radicale che si esprime nella frase di
Nietzsche e nell’ontologia di Heidegger, è lo sviluppo e la maturazione del
messaggio cristiano.[vi]
L’Uebermensch,
superando il cristianesimo tradizionale, si sarebbe in Nietzsche sostituito a
Dio nel riconoscere la divinità originaria del cosmo (τò θει̃ον),
come in Eraclito è il mondo. In ciò non c’è professione di ateismo: Zarathustra
è senza Dio ma non senza il cosmo τò θει̃ον, divino. Solo in questo senso è pio Zarathustra, proprio
come è qualificato dall’ultimo papa a colloquio con lui.
La Vocation suspendue
Il
simulacro sta all’eros come il segno
sta all’agape, come Dioniso sta al
Crocifisso. Il segno deriva storicamente dal simulacro, e lo continua. Klossowski
sarebbe d’accordo con Agostino nell’individuare i dèmoni del male negli dèi
greci, del cui nuovo avvento, dissoltasi la spiritualità cristiana nel mondo
con la morte dialettica di Dio, Nietzsche era stato profeta. Essi, in
definitiva, partecipando della divinità non
sono il diavolo nella misura in cui si tratta di una simulazione, di un
gioco speculare divino, come ben sapeva Zarathustra, e Agostino era stato
ingeneroso nei riguardi della cultura pagana. Ma nella dissimulazione Dio e
Satana (anche lui, prima, simulacro) si riappropriano dei rispettivi ruoli.
L’idolo si fa carne. Il sistema delle
rappresentazioni di Klossowski non prevede la realtà della transustanziazione,
il gioco essendo condotto da Dio che però nel circolo vizioso è assente, non
essendoci che simulacri. Il segno riconquista la propria legittimazione
distinguendosi dal simulacro, dal divino inganno col quale siamo stati messi
alla prova, quali uomini di poca fede o di troppa fede (l’inquietudine non è
ignorata che dai santi o dai mediocri).
Ma tra realtà e simulacro non c’è più distinzione. Il Doppio prevale
nell’ambiguità dei segni: natura uni-duale della divinità, rassomigliando il
Maligno esattamente a Dio, incommensurabile quanto la Bontà infinita sarebbe il
Male, allora infinito Male quanto l’Infinità divina. Non il trionfo del bene
sul male, ma l’eterna vicenda dell’uno e dell’altro e, anzi, la coesistenza di
entrambi nella medesima natura riverberantesi in modo speculare nel tempo della
storia sarebbe la conseguenza del circolo vizioso di Klossowski.
Ma,
ora, il segno è ancora un simulacro? L’esegesi dei segni è impossibile nella
parodia di Klossowski. Pur non essendo estranea alle culture pre-cristiane
l’idea di una creazione divina, il Dio di Aristotele non ama, ma il Dio di
Israele appunto ama, in modo elettivo, personalmente Israele. È un’affermazione
che concilia sia la visio del
disvelamento illuminante, sia il senso della razionalità auto-cosciente, sia il
lumen agostiniano, sia la sua
derivazione platonica, suggestioni tutte queste non estranee ad Heidegger.
Quindi il confronto critico con l’istituzione e gli adiaphora - non con i fundamenta
- individua il circolo vizioso senza smentire necessariamente l’aspetto
particolare dell’ufficio sacramentale-ontologico.
[i]
Milano 1987, 2004.
[ii] op. cit., p. 33.
[iii] op.
cit., p. 61.
[iv]
op. cit., p. 89.
[v]
op. cit., pp. 167-168.
[vi]
Gianni Vattimo, L’età dell’interpretazione, già in “Eidos”, n. 1, 2003,
pp. 17-23, ora in Richard Rorty-Gianni Vattimo, Il futuro della religione. Solidarietà, carità, ironia, a
c. di Santiago Zabala, Milano 2005, pp. 49-50. E naturalmente, del filosofo
torinese cfr. Il soggetto e la maschera. Nietzsche e il problema della
liberzione, Milano 1974, 2003.
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