Soltanto Goethe legge totalmente
ottavianea l’opera di Ovidio, nessuno scarto anti-augusteo e anti-classico è in
grado di scalfire la sua coincidentia oppositorum.
La
terrificante vicenda di Tomi è una minuzia per Goethe. Irrilevante per la vita
dello spirito, e anzi per “la vita della vita” che è lo spirito: «Ovidio resta
classico anche nell’esilio: l’infelicità non la ricerca in sé, ma nella sua
distanza dalla capitale del mondo» (1829, massima 1032, in Maximen und Reflexionen, Weimar 1907, p. 215).
Goethe
fa eccezione, Goethe è l’eccezione, Goethe sta parlando di Roma e non di
Ovidio, Goethe è attratto dalla Roma del 1788, in essa vede, vive, rivive in prima persona il dramma del
“bando inesorabile”. Sensibile al tema dell’esilio, lo recupera
nell’autenticità poetica, neutralizza la retorica nasoniana, reintegra le
rovine rumene nei fasti romani della capitale, caput mundi, annulla la relegatio
ottavianea. Tomi è anche Roma, Roma è la Romania. Goethe è sempre eccezione. Solamente
un gigante dalla serenità olimpica come la sua è, per la verità, voce fuori dal
coro che in modo quasi unanime stronca (già dai tempi di Quintiliano e, in età
moderna, del Norden) tanto il periodo amoroso quanto quello dell’esilio. In una
circostanza, Goethe stesso si sentì Ovidio, quando il 23 aprile 1788 dovette
andar via da Roma per ritornare a Weimar: «Evitava di scrivere, per non far
scomparire – sono parole di Pietro Citati – la tenera nebbia dei suoi dolori.
Andava fantasticando; gli pareva d’essere Ovidio mentre, esiliato nelle lontane
solitudini del Ponto, paragonava il proprio destino a quello del Tasso,
trascinato come lui “verso un bando inesorabile”, costretto a fuggire sotto il
nero mantello del pellegrino, come un selvaggio straniero inseguito dalle
furie» (Goethe, Milano 1971, pp.
12-13).
Al
contrario, la riserva leopardiana a sfavore di Ovidio consiste nell’evidenza
dell’artificio retorico-sofistico che dispiacque a Schlegel. Scrivere è un artificio che non va manifestato,
non deve essere visibile. Leopardi non riesce a identificarsi nel poeta bandito
attestandosi su posizioni classicistiche diversamentre da quanto romanticamente
fanno Shelley o Byron, più in sintonia con la facies dello sbandato. Leopardi ha tutte le ragioni per sentirsi sradicato,
emarginato, eppure lo sostiene con forza estetica e morale il suo attaccamento
al canone fondamentale.
Da
questa stroncatura di Leopardi, più criticamente lucida della pur luminosa e
affascinante identificazione goethiana, emerge la post-classicità ovidiano-ottavianea, dall’8 d.C. e anche da prima.
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