Guido Valderani raccoglie le ultime lettere dell’amico Werner Müde a lui
indirizzate prima che questi si rechi in Svizzera per il suicidio assistito,
dopo aver scoperto non ancora quarantenne di avere l’Alzheimer. L’ultimo viaggio di Werner Müde (Giacovelli
Editore, 2023) di Andrea Rossetti potrebbe apparire come la riscrittura sapiente
e originale, ai giorni nostri, del capolavoro foscoliano. Werner va perdendosi
in viaggi da Lisbona a Roma, da Palermo a Selinunte a Capri (proprio a Villa
Lysis), da Firenze a Lucca a Milano, da Bologna a Ferrara a Zurigo. Quello di Rossetti
è un romanzo epistolare dai motivi fortemente romantici e felicemente
anacronistici, e allo stesso tempo è una professione di poetica e un atto eroico
di resistenza estetica, nonché etica.
Werner indirizza unilateralmente a Guido il suo romanzo epistolare, nel
senso che non conosciamo le eventuali risposte dell’altro e qui il pensiero al
Foscolo dell’Ortis si impone
obbligatoriamente, stabilendosi un’indubbia analogia tra Werner Müde-Jacopo Ortis
e Guido Valderani-Lorenzo Alderani nella memoria del lettore. In appendice Guido
riporta il testo di un dialogo avvenuto in chat
tra Werner e Chiara, facente funzione di Teresa. Personalmente sento più vicino,
però, detto questo, il romanzo di Rossetti non tanto all’Ortis bensì, ma al Sesto tomo
dell’io del Foscolo, anche se i primi cinque tomi non furono mai scritti da
Niccolò Ugo (cfr. Edizioni Croce 2019, con una dottissima introduzione e a cura
di Maria Serena Sapegno), per la molteplicità delle tematiche affrontate. Il romanzo
di Andrea Rossetti può essere benissimo Il
settimo tomo dell’io della letteratura italiana nel contesto europeo per la
sua tonalità picaresca, l’estetismo assoluto che fa venire in mente Joris-Karl
Huysmans. E va aggiunto, a questo proposito, che prima di Andrea è esistito in
Italia un altro Rossetti, esattamente il napoletano Gabriele Rossetti (1783-1854)
autore di libretti d’opera e scritti danteschi tra cui Beatrice di Dante (Londra, 1842; Imola, 1935), e poeta in proprio
(in Arcadia aveva il nome di Filidauro Labidiense).
Per vero si tratta di e-mail e di
messaggi che hanno avuto luogo in chat:
il nostro tempo non concede l’uso di penna e calamaio, anche se mi risulta che
l’autore neppure disdegni tale pratica. Parliamo di una prosa lirico-narrativa
di altissimo livello in forma epistolare-wertheriana post-moderna (e-mail di un solo personaggio fondamentalmente
a un solo destinatario, anche se Chiara è ricorrente nel testo). Rossetti ci
sfida quando fa dire al suo personaggio: «è la vita il vero capolavoro del genio,
quella vita della quale le sue opere non sono che sinceri, ambigui e reticenti
testimoni della difesa. La fede senza le opere è muta ma le opere senza la fede
straparlano» (p. 35). Rossetti realizza un vero momento di impegno civile nel
quale l’identità della critica al presente – al politically correct, alla sua degenerazione nella cancel culture che ci affligge fino al
paradosso di danneggiare con tante buone intenzioni proprio i diritti egualitari
e inclusivi che ne costituivano le premesse necessarie, fino, per intenderci, implicitamente
e come conseguenza logica, alla neo-chiesa liberal-progressista di Bergoglio - è
ben precisa e anche il suo ruolo: «Siamo immersi nell’infinita chiacchiera,
siamo in pieno pianerottolo globale, tra falsi profeti, finti scoop, segreti di
Pulcinella svelati, menzogne, idiozie e, soprattutto, opinioni irrilevanti» (p.
37).
Ma su tutto e tutti primeggia, superbamente intangibile, Chiara. La
passione d’amore di Werner è un tutt’uno con quella letteraria, il romanzo di
Rossetti è anche un breviario poetico-esistenziale: Chiara è un amore non troppo
virtualmente diverso da come avrebbe, per la sua portata simbolica, potuto essere l’amore
di Dante per Beatrice. «Fui almeno, fra tanti falsi mancanti, un vero assente» (p.
178) è la frase che Guido Valderani ci riporta nella sua nota finale a chi
legge.