domenica 15 ottobre 2023

L’ULTIMO VIAGGIO DI WERNER MÜDE di Andrea Rossetti. Una recensione

 


Guido Valderani raccoglie le ultime lettere dell’amico Werner Müde a lui indirizzate prima che questi si rechi in Svizzera per il suicidio assistito, dopo aver scoperto non ancora quarantenne di avere l’Alzheimer. L’ultimo viaggio di Werner Müde (Giacovelli Editore, 2023) di Andrea Rossetti potrebbe apparire come la riscrittura sapiente e originale, ai giorni nostri, del capolavoro foscoliano. Werner va perdendosi in viaggi da Lisbona a Roma, da Palermo a Selinunte a Capri (proprio a Villa Lysis), da Firenze a Lucca a Milano, da Bologna a Ferrara a Zurigo. Quello di Rossetti è un romanzo epistolare dai motivi fortemente romantici e felicemente anacronistici, e allo stesso tempo è una professione di poetica e un atto eroico di resistenza estetica, nonché etica.

Werner indirizza unilateralmente a Guido il suo romanzo epistolare, nel senso che non conosciamo le eventuali risposte dell’altro e qui il pensiero al Foscolo dell’Ortis si impone obbligatoriamente, stabilendosi un’indubbia analogia tra Werner Müde-Jacopo Ortis e Guido Valderani-Lorenzo Alderani nella memoria del lettore. In appendice Guido riporta il testo di un dialogo avvenuto in chat tra Werner e Chiara, facente funzione di Teresa. Personalmente sento più vicino, però, detto questo, il romanzo di Rossetti non tanto all’Ortis bensì, ma al Sesto tomo dell’io del Foscolo, anche se i primi cinque tomi non furono mai scritti da Niccolò Ugo (cfr. Edizioni Croce 2019, con una dottissima introduzione e a cura di Maria Serena Sapegno), per la molteplicità delle tematiche affrontate. Il romanzo di Andrea Rossetti può essere benissimo Il settimo tomo dell’io della letteratura italiana nel contesto europeo per la sua tonalità picaresca, l’estetismo assoluto che fa venire in mente Joris-Karl Huysmans. E va aggiunto, a questo proposito, che prima di Andrea è esistito in Italia un altro Rossetti, esattamente il napoletano Gabriele Rossetti (1783-1854) autore di libretti d’opera e scritti danteschi tra cui Beatrice di Dante (Londra, 1842; Imola, 1935), e poeta in proprio (in Arcadia aveva il nome di Filidauro Labidiense).

Per vero si tratta di e-mail e di messaggi che hanno avuto luogo in chat: il nostro tempo non concede l’uso di penna e calamaio, anche se mi risulta che l’autore neppure disdegni tale pratica. Parliamo di una prosa lirico-narrativa di altissimo livello in forma epistolare-wertheriana post-moderna (e-mail di un solo personaggio fondamentalmente a un solo destinatario, anche se Chiara è ricorrente nel testo). Rossetti ci sfida quando fa dire al suo personaggio: «è la vita il vero capolavoro del genio, quella vita della quale le sue opere non sono che sinceri, ambigui e reticenti testimoni della difesa. La fede senza le opere è muta ma le opere senza la fede straparlano» (p. 35). Rossetti realizza un vero momento di impegno civile nel quale l’identità della critica al presente – al politically correct, alla sua degenerazione nella cancel culture che ci affligge fino al paradosso di danneggiare con tante buone intenzioni proprio i diritti egualitari e inclusivi che ne costituivano le premesse necessarie, fino, per intenderci, implicitamente e come conseguenza logica, alla neo-chiesa liberal-progressista di Bergoglio - è ben precisa e anche il suo ruolo: «Siamo immersi nell’infinita chiacchiera, siamo in pieno pianerottolo globale, tra falsi profeti, finti scoop, segreti di Pulcinella svelati, menzogne, idiozie e, soprattutto, opinioni irrilevanti» (p. 37).

Ma su tutto e tutti primeggia, superbamente intangibile, Chiara. La passione d’amore di Werner è un tutt’uno con quella letteraria, il romanzo di Rossetti è anche un breviario poetico-esistenziale: Chiara è un amore non troppo virtualmente diverso da come avrebbe, per la sua portata simbolica, potuto essere l’amore di Dante per Beatrice. «Fui almeno, fra tanti falsi mancanti, un vero assente» (p. 178) è la frase che Guido Valderani ci riporta nella sua nota finale a chi legge.

  

 



lunedì 9 ottobre 2023

Recensione di Andrea Rossetti a INTRIGO


Quando leggo un libro di Sandro De Fazi - e li ho letti quasi tutti - do per scontato sin da principio che qualcosa mi sorprenderà, perché la cifra della sua scrittura è sempre l’inganno elegante, che io amo definire l’abuso estetico della digressione. De Fazi usa infatti la digressione in modo a dir poco mirabile, così da fuorviare, in una sorta di vergiliato malizioso, il lettore, senza sottrarsi al coinvolgimento diretto, cosicché leggere un romanzo, un saggio, un racconto, una poesia di Sandro De Fazi comporta l’onere e l’onore di una passeggiata, nel senso più walseriano del termine, sottobraccio all’autore.

In questo Intrigo che, come il Decameron, è un romanzo di racconti, si viene subito fuorviati, anzi è forse più appropriato dire confusi: Intrigo è un titolo hitchcockiano, fa pensare a un complotto, a un mistero; ma Intrigo significa anche attrazione, complicazione, imbarazzo. Ebbene De Fazi gioca magistralmente col lettore portandolo infatti a credere ciò che vuole e a volere ciò in cui non crede.

In realtà, questo romanzo di racconti è un intrigo tanto nel senso del labirinto che del mosaico.

L’etimologia, controversa e misteriosa, della parola labirinto ci offre ricchi spunti di riflessione. Una prima interpretazione sembra ricondurre la parola al greco λαβύρινθος, usato nella mitologia per indicare il labirinto di Cnosso; la parola trae la sua derivazione dal lidio labrys = bipenne, l’ascia a due lame, simbolo del potere reale a Creta. In effetti, il libro di De Fazi è un luogo complesso, nel quale il racconto viene sezionato e direi quasi disorientato dalla ricerca potente e regale della propria prescritta e fatale unità (come l’ascia bipenne, alla quale le due lame, sebbene a sé stanti, comunque appartengono). Credo tuttavia che non si debba dimenticare in questo caso anche un’etimologia più complessa e magari discutibile, quella cioè che connette λαμβάνω, prendo, e ρινάω, inganno, ovvero “vengo ingannato”. Sandro De Fazi, maestro della digressione come l’ho definito a suo tempo, non può non essere anche un grande ingannatore. Ed è proprio qui, nell’al di là di un tempo giocosamente intrecciato nel romanzo, che ci soccorre l’altro concetto che ho prima evocato: il mosaico. Intrigo ci sfida da labirinto, nel corpo a corpo, come Gamiani di Alfred de Musset (non a caso opera attribuita con certezza al suo autore ma da lui mai firmata), e ci incanta come mosaico, nella distanza spirituale di una contemplazione estatica d'insieme.

In definitiva, De Fazi ci racconta sfacciatamente l’eros solo per dircene manzonianamente “il sugo”, per digredire da par suo in un incantevole e non di rado amaro saggio sull’amore.

 

Andrea Rossetti

Palermo, 9 ottobre 2023