sabato 25 febbraio 2012

Non so come facciate a far finta di non accorgervene






Ho eliminato da Facebook un’altra quantità di inutilità culturale. Continuerà a "esistere" (?), ci mancherebbe altro; ma almeno non ne vedrò più nella home l’ingombrante fasullaggine che la contraddistingue. Nella quale home bastava nascondere i loro post, lo so, ma si vede che a me non bastava. La vasta e articolata consecutio delle proposizioni in un unico periodare lungo pochissimi sono capaci di tenerla, non solo per ignoranza della storia della lingua tanto più esistente quanto più testimoniata dai titolini accademici e dalle collaborazioncelle ai giornalini che fanno tanto bene alla lingua, eppure è stato il trait d'union per secoli tra la prosa ciceroniana classica fino alle migliori narrazioni del novecento italiano, passando per Boccaccio Leopardi Manzoni che già avvertiva il disagio e la necessità di aprire a una consecutio letteraria moderna. Ma l’estremo paradosso dei vostri scrittorini di oggi è l’afasia: telegrafica.
- Cfr. Gian Luigi Beccaria su Tuttolibri 25/2/2012.

domenica 19 febbraio 2012

Prosa e poesia



manoscritto primitivo de L'educazione sentimentale di Flaubert (1843)

Il tempo della letteratura è il futuro anteriore. Ciò perché noi non viviamo in realtà al presente ma al passato-presente-futuro (immaginario) contrariamente all’assetto logico delle convenzioni comuni, così Frédéric Moreau “avrà amato” Mme Armoux nel non-luogo romanzesco (che è L’educazione sentimentale di Flaubert) imposto dalla separazione della prosa dalla poesia. È paradossale che manchi il concetto di individuo in una cultura come quella antica che conosceva esistenzialmente la pratica (poetica) delle relazioni sociali senza l’interferenza della merce (nel senso moderno), laddove è nato teoreticamente l’individuo quando la scienza moderna ha frantumato quell’antico fondamento che escludeva la merce. La tensione lineare-progressiva dei tempi storici e dei tempi principali (presente e futuro) è una contro-verità che si scontra con la letteratura: «Citarono in appoggio a questa contro-verità le pagine in cui alcune briciole di madeleine inzuppate in un’infusione mi ricordano (o almeno al narratore che dice “io”, e che non sono sempre io) tutto un tempo della mia vita, dimenticato nella prima parte dell’opera» (Marcel Proust).

Lo scrittore che si nasconde e che riappare



Ho sempre pensato che gli scrittori in fondo, nel profondo, sono abili commedianti non tanto per vocazione quanto per necessità. Leggo ora che nel 1979 Claudio Magris, prima di andare a Zurigo telefonò a Elias Canetti per sentire se fosse possibile incontrarlo; non gli rispose nessuno. Chiamò allora alla sua casa di Londra: stavolta gli rispose un'anziana governante che subito, con un forte accento inglese, in modo gentile, quasi festante, gli passò il poeta. Canetti gli spiegò che si era ritirato a Londra per finire un libro, e aggiunse: "mi scusi, per un momento fa, sa, ero io al telefono, prima, quando Lei ha chiesto di parlare con me..." Presumibilmente se non si fosse trattato di Magris la vecchia signora avrebbe annunciato, più o meno rammaricandosi, che Canetti non era in casa. (cfr. Claudio Magris, Itaca e oltre)

mercoledì 8 febbraio 2012

Auseinandersetzung mit Wagner




I Pringsheim erano stati buoni conoscitori di Mahler e Thomas lo aveva incontrato alcuni anni prima, a un tè dato in suo onore alla Franz Joseph Strasse. L’estate precedente Mahler era tornato a Monaco per dirigervi la sua Ottava Sinfonia. Mahler non era affatto popolare nell’ambiente musicale, e quando mandò a chiedere al direttore artistico certi piccoli strumenti poco comuni, di cui aveva bisogno per la sinfonia, questi gli restituì la missiva comunicandogli che purtroppo quella sera aveva bisogno lui stesso di quegli strumenti.
«Porti i miei rispettosi saluti al direttore artistico», aveva replicato Mahler, «e gli dica che in un modo o nell’altro eseguirò lo stesso la mia sinfonia». Quanto a Thomas, non aveva il minimo dubbio sul genio di Mahler. A Katja confessò che per la prima volta aveva avuto l’impressione di incontrare un uomo veramente grande - «intenso in modo divorante» - come lo definì più tardi.
Il gruppetto dei Mann partì per Venezia la terza settimana del maggio 1911. Era la prima volta che vi giungevano dalla parte del mare – abitualmente vi si recavano in treno – e a bordo c’era una vecchia «checca» orrendamente imbellettata e circondata da un vivace stuolo di allegri giovanotti. Al molo cercarono qualcuno che li portasse al Lido. Immediatamente si presentò un gondoliere; ma erano appena arrivati al Lido quando qualcuno li avvisò che quel gondoliere non aveva la licenza per il tratto Venezia-Lido. Era una fortuna che non fosse successo niente, aggiunse.
Era uno strano inizio. Un facchino portò i loro bagagli all’Hotel des Bains e a tavola, il primo giorno, notarono un’interessante famiglia polacca – le ragazzine vestite in modo piuttosto austero, e accanto a loro un ragazzo tredicenne di straordinaria bellezza, vestito di blu, alla marinara. Il ragazzo affascinò Thomas – quella sua serenità, la testa greca, i movimenti misurati e sciolti, la grazia delicata. Sulla spiaggia Thomas si trovò a studiare il ragazzo, il modo in cui giocava con gli amici, l’inconsapevolezza assoluta con cui portava la sua bellezza – pur essendo allo stesso tempo conscio!
Ma Heinrich, forse perché si annoiava sulla spiaggia, o perché sentiva il disagio del caldo afoso, ben presto implorò che si trasferissero in montagna dove avrebbe fatto più fresco e avrebbero potuto fare lunghe passeggiate. E così, a malincuore, Thomas e Katja acconsentirono.
Ma a Bolzano la villa che volevano loro era occupata da una coppia di inglesi, e l’hotel non aveva comodità moderne. Trionfanti tornarono quindi a Venezia e al Lido. La famiglia polacca, con grande soddisfazione di Thomas, c’era ancora; e sulla carta intestata dell’Hotel des Bains egli cominciò a scrivere un articolo sulla rappresentazione del 1909 del Parsifal, che aveva promesso al giornale viennese «Merkur». Disputa con Wagner (Auseinandersetzung mit Wagner) era il titolo. In proposito egli disse a Ernst Bertram: «Edificare templi al proprio lavoro, pensavo amaramente, è qualcosa che solo una natura barbarica e semi-cieca può fare».
Intanto, sulla spiaggia e nei lussuosi saloni dell’Hotel des Bains, era l’immagine del bellissimo tredicenne polacco che continuava a esercitare uno strano fascino su Thomas. Lo riportava indietro a stati d’animo e amori della sua giovinezza, a Tonio Kröger, a Lubecca e Travemünde, con l’orchestrina sulla spiaggia. L’intero edificio dell’opera romantica tedesca cominciava a cedere. «Credo di poter dire», scrisse nel suo articolo «che la stella di Wagner nel firmamento della cultura tedesca stia per tramontare».
Ma se questo era vero, «Tadzio», il ragazzo polacco, pareva non accorgersene. La sua stella splendeva sul Lido, sull’Hotel e la spiaggia privata, sulle sedie a sdraio e le cabine, sul lieve sciaquio del mare. Sulla sabbia correva a piedi nudi con il suo costume da bagno a righe, nel salone presiedeva i pasti con la sua bellezza prepotente e gli occhi azzurri come l’acqua.
Una sera apparve nel recinto dell’albergo un «osceno» cantante napoletano dal volto subdolo e giallastro. La gente cominciò ad abbandonare l’albergo e si sentì dire che in città c’era il colera. Dopo che «Tadzio» fu partito, anche Thomas e Katja andarono a fare le prenotazioni per il ritorno in vagone letto, ma l’impiegato dell’agenzia Cook diede loro il consiglio di non trattenersi per un’altra settimana come avevano intenzione di fare, e, dato che si era verificato un numero impressionante di casi di colera, tenuto segreto dalle autorità, di partire l’indomani.
Senza «Tadzio» non c’era un motivo per restare. Fecero le valigie: era l’ultima volta che avrebbero visto Venezia prima della guerra; eppure il volto della città – il calore afoso dello scirocco, la bellezza di uno stato marinaro un tempo potente, ridotto a nascondere la malattia che avrebbe potuto rovinare la stagione turistica, il fasto e il sentore di morte – non fu dimenticato. Terminato il saggio su Wagner, Thomas cominciò a lavorare a quella cosa «immaginata come improvvisazione da sbrigare in fretta e da inserire nel lavoro del romanzo di Krull, come una storia che per soggetto e mole doveva essere adatta al ‹Simplicissimus›».
Ma l’improvvisazione non doveva essere terminata tanto rapidamente. «Io sono al lavoro», scrisse Thomas a Philipp Witkop il 18 luglio del 1911. «Una cosa parecchio singolare, che mi sono portata da Venezia, una novella, di tono puro e severo, che tratta di un caso di pederastia in un artista senescente».
Era in verità una storia sconcertante e depravata, per l’uomo che recentemente aveva criticato il dott. Lessing per la sua dissolutezza. La verità, come rifletteva Thomas più avanti, era che:

In verità ogni lavoro è un’attuazione frammentaria bensì, ma in sé conchiusa del nostro essere; e questa attuazione è l’unica faticosa via per fare esperienze di questo essere…
Anche nella Morte a Venezia non vi è nulla di inventato: il viaggiatore nel cimitero di Monaco, la tetra nave polesana, il vecchio bellimbusto, il gondoliere sospetto, Tadzio e i suoi, la partenza fallita per lo scambio dei bagagli, il colera, l’onesto impiegato dell’ufficio viaggi, il maligno saltimbanco, o che so io, tutto era vero e bastava metterlo a posto perché rivelasse in modo stupefacente la facoltà interpretativa della composizione…

Ma questa volta sentiva di aver trovato il filone giusto:

Durante il lavoro (lento come al solito) avevo in certi momenti la visione di una via tracciata, di un aiuto sovrano che non avevo mai provato.

Nella figura del protagonista, Gustav von Aschenbach, egli trasfuse il profilo, le caratteristiche fisiche di Mahler; ma suoi erano l’anima, la coscienza, lo spirito.
Gli ci volle quasi un anno per completarlo. Katja non stava bene, e in settembre andò con i bambini a Sils Maria. Thomas restò a Balz Tölz, e alla sera leggeva agli amici – e a Heinrich quando veniva a trovarlo – brani del racconto che si andava sviluppando.
Per «i lettori tedeschi che in fondo prestano attenzione soltanto alle cose serie e gravi e non alle leggere» scrisse Thomas dopo la pubblicazione, «La morte a Venezia, nonostante la materia piuttosto sospetta, provocò una certa riabilitazione morale dell’autore di Altezza reale».
L’elemento omosessuale dimostrò di non essere un ostacolo; non fece che arricchire lo strano e potente simbolismo della favola. In un’Europa che aveva raggiunto il culmine della civiltà e della cultura, il tema della fatale attrazione che un uomo celebre e che sta invecchiando prova per un ragazzo ebbe grande risonanza nel mondo letterario:

Verrà un giorno in cui un maestro, un cultore della bella forma, esempio per la gioventù e voce del suo popolo, siederà annientato sul bordo di un pozzo coperto di vegetazione nel centro di quel campiello in rovina di Venezia inondato dal tiepido efflusso della cartolina nella città appestata, a mormorare con labbra imbellettate belle parole corrotte al ragazzo che desidera.
Quell’uomo ha sprecato ciò che più di tutto gli appariva desiderabile: una vecchiaia fruttuosa, la ricerca dell’arte nel periodo finale della vita, in saggezza e perfezione. Mai più egli scriverà; non sarà sulla torre di guardia della tarda età da cui è dato all’uomo abbracciare per la prima volta veramente il proprio lavoro e la propria vita, - e in cui si raggiunge la freddezza. I suoi anni saranno diminuiti, le sue ultime ore sconvolte e rese magiche dall’urgere inconsulto dei sentimenti. E così quelle ore diverranno finalmente umane, lo libereranno ancora una volta insperatamente, tramite l’amore, un amore muto, inappagabile, dalla sua austera solitudine e gli ultimi battiti del suo cuore lo faranno palpitare come se fossero i primi. Dovrebbe pentirsene? Non se lo chiede nemmeno. Intorno a lui la città è infetta, e da quella cortigiana che è, lo dissimula per avidità di denaro. Essa è bellezza, una bellezza che ammalia e uccide. Da lontano, con visioni di sogno ed enigmatici messaggeri in vaghe maschere di morte, essa ha attirato a sé un essere che era maturo per morire nel suo seno. L’afa dolce e sospetta dell’aria, i colori radiosi della sua decomposizione, la sua depravazione sensuale: questa è identità, destino fraterno. L’anima di un uomo confonde i suoi ultimi, vividi istanti con quelli del mondo che lo circonda; e dal gioco congiunto di desiderio e timore sorgono eventi di grande profondità e significato, di silenzi riempiti tuttavia da mille voci: le voci delle procellarie, della peste, voci di calda umanità e voci di grandezza e di rovina. Esse echeggiano attraverso una città e il cuore di un uomo: echeggiano e si spengono nella Morte a Venezia.

Heinrich era stato presente, era stato testimone di quello strano sentimento, conosceva la bellezza corrotta della città un tempo potente, aveva osservato i primi brancolamenti di Thomas verso la forma e la favola sinistra, ne aveva visto – forse anche meglio di lui, in quanto si trovava al difuori – il significato storico. Fu nel primo numero del 1913 della rivista «März» che uscì questa sua recensione, forse la più toccante che il racconto abbia mai avuto.
Intanto le voci che correvano in Germania non parlavano di epidemia, ma del riconoscimento più ambito del mondo letterario: il Premio Nobel per la letteratura.

Nigel Hamilton, I fratelli Mann, trad. it. di Elena Grechi, Garzanti 1983, pp. 198-202.





martedì 7 febbraio 2012

Wilhelm Meisters Lehrjahre


Friedrich Schiller



Tra le vocazioni che crede di possedere e non possiede, tra i mestieri che intraprende per sbaglio, Wilhelm trascura proprio la sua autentica vocazione. Egli è un grande saggista e uno dei più acuti critici letterari del suo tempo, sebbene nessuna rivista accolga le sue geniali illuminazioni. I bellissimi saggi che dedica alla poesia (II libro), all’Amleto (IV-V libro), ai caratteri dell’aristocrazia e della borghesia (V libro), debbono certamente qualcosa a Goethe, di cui riflettono alcune idee dell’età giovanile e dell’età matura. Ma Wilhelm è un saggista più sistematico del proprio creatore, che indulgeva così volentieri alle incertezze e alle contraddizioni. Mentre teorizza, entusiastico e lucidissimo, mentre discute con Werner o Serlo, abbiamo sovente l’impressione di ascoltare la voce di Schiller, che in quegli anni stava per comporre o aveva appena composto i grandi studi Über Ammut und Würde e Über naive und sentimentalische Dichtung.

Pietro Citati, Goethe

sabato 4 febbraio 2012

Urbs Roma/1




L’intrinseca sacralità per legge della persona di Augusto, in quanto interprete indiscutibile della volontà degli dèi, risale alla tradizione leggendaria che vedeva in Romolo il detentore supremo di tale carisma («Nomen meum senatus consulto inclusum est in saliare carmen, et sacrosanctus in perpetuum ut essem et, quoad viverem, tribunicia potestas mihi esset, per legem sanctum est» August., Res gestae Divi Augusti, 10). Nonostante l’abile strategia populista impiegata nella fondazione della “repubblica apparente”, il principato augusteo ha in sé i limiti della sua stessa struttura, individuabili in primo luogo nel potere autocratico, al di fuori del controllo di qualsiasi altro organismo esterno e, di conseguenza, in un vacillante equilibrio nei rapporti col senato, di fatto esautorato di ogni funzione tranne quella della fronda e dell’adulazione, sia pure rispettato nella forma (non nella sostanza). Poi la propaganda di governo imposta agli intellettuali sarà tutta una serie di crack, come ha scritto recentemente Luca Canali: «la restaurazione etica fallì nella stessa famiglia imperiale; alla religione degli avi nessuno credeva più, se non come alla necessità di un governo che poggiasse anche sulle colonne dei templi; le dottrine filosofiche si perpetuavano iterando la loro esaustione paradossalmente significata dal prefisso νέος con cui tentavano di vitalizzarsi»[i]. Il conflitto latente col senato, che era esploso alle idi di marzo del 44 per l’incuria di Cesare di occuparsi degli avversari, è tuttavia magistralmente tenuto a freno insieme ai rigurgiti repubblicani; l’antagonismo tra ordine senatorio e ordine equestre mina la pax dalle fondamenta ma l’Italia, con circa cinque milioni di cives Romani, continua a godere di una supremazia forzata a dispetto dei ben sessanta milioni di provinciali che popolano l’impero. Tutta questa imponente opera di latinizzazione è stata realizzata dal III al I sec. a.C., periodo nel quale il populus Romanus è diventato un vero e proprio populus imperator. Il suo è un primato sia politico che economico dal momento che vengono accresciuti e stabilizzati sotto Augusto i privilegi di carattere giuridico e sociale, in un benessere economico che i secoli successivi non conosceranno più. È anche da questo preciso momento che la cultura latina è in grado di affrancarsi del tutto dalla subalternità al modello greco lungamente patito e contrastato con risultati sempre più convincenti fino all’età di Cesare, fondendo e trasmettendo fino a noi  l’elemento greco-ellenistico nella nozione di classicità tuttora egemone.


[i]  L. Canali, Identikit dei padri antichi. Sedici scrittori latini e cristiani, Roma, manifestolibri, 2010, p. 71.