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Foro di Augusto |
Da
giovane, appena tre anni dopo la morte di Cesare, Virgilio aveva tutte le
ragioni per non stare dalla parte del secondo triumvirato, tale in virtù della lex Titia de III viris rei publicae
constituendae consulari potestate creandis del 27 novembre del 43.
Dopo
Filippi, il provvedimento eccezionale col quale Antonio, Lepido e Ottaviano
espropriavano i territori appartenenti alla Gallia Cisalpina, di cui era proconsole
Marc’Antonio, a beneficio dei veterani di guerra, fu traumatico per il
Mantovano, che nel 41 aveva solo ventinove anni. «La distribuzione delle terre
d’Italia ai veterani, che non si limitò soltanto a deduzioni coloniarie, era un
compito difficile e ingrato, affidato a Ottaviano. […] I lamenti della
borghesia espropriata – dei Virgilii, dei Properzii, dei Tibulli – erano talora
conditi di riverenza per il giovane Cesare, il quale – mediocre soldato, ma
spietato politico – aveva fatto mozzare la testa al cadavere di Bruto, e
mandarla a Roma, ammonimento a quelle borghesie cittadine che dopo le idi di
Marzo non avevano esitato (per esempio a Pozzuoli o a Teano Sidicino) ad
esaltare il cesaricidio» (Santo Mazzarino, L’Impero
romano, I, Roma-Bari 2010, pp. 41-43).
Fu
grazie all’intervento di Asinio Pollione presso il giovane Cesare che il podere
tra Cremona e Mantova non gli fu confiscato.
Del trauma resta traccia
all’inizio della I egloga, allorché identificandosi in Titiro, che può
tranquillamente continuare a dedicarsi ai canti silvestri sotto l’ombra di un
ampio faggio, allo stesso tempo riesce a stare emotivamente tutto dalla parte
di Melibeo costretto a lasciare la sua casa e i suoi campi (vv. 3-5: nos patriae finis et dulcia linquimus arva;
/ nos patriam fugimus; tu, Tityre, lentus in umbra), nonostante il ringraziamento
espresso con accenti religiosi al nuovo deus
(vv. 7-8: namque erit ille mihi semper
deus; illius aram / saepe tener nostris ab ovilibus imbuet agnus).