venerdì 2 settembre 2011

24 agosto del 79 d.C.





Caio Plinio Cecilio Secondo (C. Caecilius Secundus) detto il Giovane (61-113 d.C., uno dei letterati più mediocri del periodo post-classico, sintomo della depressione culturale che, con luminose eccezioni, aveva oppresso la letteratura latina fin dall'età dei Claudi) nella lettera VI, 16 (Epistularum Libri) a Tacito (Plinio il Giovane sta al giornalismo come Tacito sta alla grande letteratura) è diventato per capriccio della sorte il testimonium fondamentale che abbiamo dell'immane catastrofe che il 24 agosto del 79 d.C., essendo imperatore Tito, seppellì Pompei, Ercolano e Stabia.
Gli antichi non sapevano neppure che quella montagna così amena che si slanciava maestosa sopra la città fosse un vulcano. Ignoravano che cosa fosse un vulcano, perché l'Etna veniva considerato un caso a parte, un'anomalia a sé. Ritenevano il formidabil monte / sterminator Vesevo, come Leopardi avrebbe chiamato il Vesuvio, non diverso dagli altri.
Era una città ricca Pompei, un centro pieno di vita, dove c'era tutto e il contrario di tutto, in piena estate, come a Roma: giovani, vecchi, donne, ladri, prostitute, prostituti, fioraie, schiavi, giochi, raggiri, il pullulare del foro, patrizi e umanità gaudente, una città giovane morta anzitempo, la disperazione degli amanti, basti pensare a Gli ultimi giorni di Pompei di Edward Bulwer-Lytton per farsene un'idea. Del mondo romano non conosceremmo con tanta accuratezza certi aspetti se quel 24 agosto del 79 d.C. la tragedia non fosse avvenuta.
Pure il ricercato Plinio il Giovane, da parte sua, sapeva godersi la vita, se è vero che redigeva i suoi scritti per passatempo durante i bagni, o pranzando o in lettiga. Fu la sua fortuna non seguire lo zio, il naturalista Plinio il Vecchio, da Miseno, dove si trovavano entrambi quel giorno, sulle quadriremi verso il punto da dove tutti fuggivano. È un singolare destino sapersi ancora integri e vivi, felici fino a poche ore fa, oppure magari tristi per alcuni casi personali ma ancora legati ai viventi e perciò pieni di speranza per il futuro e, allo stesso tempo, constatare che invece, inevitabilmente, all'improvviso, la vita non sarà ancora per molto.
Faceva un caldo terribile. Fino al primo pomeriggio non c'era stata che una nube gigantesca che si alzava dal monte, simile a un pino ramificato, a causa del vento, in molte direzioni; poi la situazione peggiorò di ora in ora. In pieno giorno fumo, fulmini, il terremoto, i lapilli, le pietre, la lava. Uno scenario invivibile. Urla, corse di chi va inutilmente, non mancò chi si chiuse in casa e morì sotto il crollo del tetto appesantito dalla lava, fu a un certo punto impossibile anche uscire di casa, perché la natura impazzita aveva ostruito tutte le strade.
Gli abitanti di Ercolano videro quel che stava avvenendo nella vicina Pompei, capirono che l'inevitabile si sarebbe abbattuto anche su di loro e che niente e nessuno avrebbe mai potuto aiutarli, né i pompeiani né loro. Ancora vivi e salvi, però, gli ercolanesi, d'istinto, corsero verso la spiaggia. Senza ragione. Disperatamente. Per mare non era possibile  andare, i dintorni terrestri erano sconvolti dal Vesuvio, c'era il maremoto e Plinio il Vecchio s'era arrischiato per fare scienza e successivamente, sollecitato da un'invocazione d'aiuto di Rettina, moglie di Casco, per portare impossibili soccorsi a lei e ad altri, sarebbe morto per la cenere, le pomici, le pietre nere, l'aria resa irrespirabile dal monte sterminatore, dopo aver raggiunto la villa di Pomponiano a Stabia. Il mare era invalicabile ma l'istinto vitale spingeva i provvisoriamente incolumi nei pressi dell'acqua marina. Trovo estremamente poetico che in pericolo di morte gli abitanti di Ercolano, per sopravvivere, abbiano cercato il mare.
La paura li faceva regredire all'elemento primigenio, per istinto di sopravvivenza l'acqua è materna come il liquido amniotico che avvolge il nascituro, si cercava l'amicizia del mare, si confidava nelle acque, l'acqua che è inizio e fine, le acque azzurre e leggere, mosse da un lieve, appena percepito vento contrario come quelle che avevano accolto Virgilio, oppresso dal mal di mare, che da Brindisi cercava di tornare a Roma per bruciare il poema nel romanzo di Broch, l'acqua è soprattutto principio energetico, come il sole, che dà vita e rinforza nel vivere, come l'Eneide che avrebbe vissuto contro la volontà di Virgilio morente, per ordine di Augusto. Ma a casa non si può rimanere, neppure per strada, la città è inabitabile o lo sarà ormai tra poco, non ha senso stare e sarebbe pazzesco restare, suicida è restare quanto è folle fuggire e l'unica ragione è tentare il mare, sragionando e sperando che la situazione cambi, che il mare si acquieti, che in cielo ritorni il sole, che il monte la smetta di vomitare quell'indescrivibile incubo. La sragione assicura che stare sulla spiaggia è mortale quanto insistere a Ercolano, se a Pompei c'è la morte non è detto che essa arrivi fin qui, andiamo verso il Tirreno, si deve restare sulla riva che è un tempio naturale nel quale innalzare preghiere agli dèi, fratelli del mare, affinché ascoltino.

Sandro De Fazi


pubblicato in "POESIA ITALIANA" 22/8/10

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