domenica 30 settembre 2012

VIRGILIO POETA ANTI-AUGUSTEO (bozza)


Vincenzo Camuccini, Virgilio legge l'Eneide ad Augusto


1
Lo svenimento di Ottavia



Hic vir, hic est, tibi quem promitti saepius audis,
Augustus Caesar, Divi genus, aurea condet
saecula qui rursus Latio regnata per arva
Saturno quondam; super et Garamantas et Indos
proferet imperium: iacet extra sidera tellus,
extra anni solisque vias, ubi caelifer Atlas
axem umero torquet stellis ardentibus aptum.

Verg., Aeneis VI 791-797


Il dramma dell’ultimo Virgilio

Mi ha sempre dato da pensare questa domanda: per quale vera, profonda, inammissibile ragione Virgilio intendeva bruciare l’Eneide, la grande Incompiuta? E per quale autentico motivo la considerava incompiuta? Per completare poche decine di puntelli non gli occorreva molto tempo. È vero che il tempo stringeva, e di ritorno dal viaggio in Grecia, a Brindisi, capì che non ce n’era più. Allora, che cosa non andava davvero bene in ciò che aveva composto fino a quel momento, al punto di volerne rigettare la paternità e considerarla un’opera da dare alle fiamme?
Era soltanto spinto da ragioni di perfezionismo formale? Da una sorta di consapevolezza narcisistica, un po’ vanitosa e un po’ artata, provocatoria, come accade agli scrittori di ogni epoca, cioè dal fatto che a lui l’Eneide sembrava imperfetta ma che gli altri - a cominciare dallo stesso princeps - l’avrebbero trovata magistrale mettendola sullo stesso piano dell’Iliade e dell’Odissea? Una specie di falsa modestia, un “No, grazie!” pronunciato in extremis?
Spiegazioni per ritenerla imperfetta ce ne sono, intendiamoci, anche per noi. L’Eneide fu scritta prout liberet quidque et nihil in ordinem arripiens, cioè come veniva veniva, svogliatamente, come per compiacere un desiderio esterno. L’autore buttò giù prima tutto in prosa, nihil in ordinem arripiens, senz’ordine alcuno, successivamente passò agli esametri che Huysmans trovava meccanici. Ma non fece in tempo a correggere le correzioni né a eliminare i puntelli né le ricorrenti contraddizioni: Turno uccide due volte Fegeo (IX, 765: addit Halym comitem et confixa Phegea parma e XII 371: Non tulit instantem Phaegeus animisque frementem, dove è dato ancora per vivo); Remulo è fatto fuori prima da Ascanio (IX, 633: perque caput Remuli venit et cava tempora ferro, cfr. non tulit Ascanius del v. 622) e poi da Orsiloco (XI, 636-637: Orsilochus Remuli, quando ipsum horrebat adire, / hastam intorsit equo ferrumque sub aure reliquit); le navi sono trasformate in ninfe da Venere(X, 83: et potes in totidem classem convertere nymphas nel lamento di Giunone) e prima invece si diceva che c’era stato un intervento di Cibele (IX, 77-78: Quis deus, o Musae, tam saeva incendia Teucris / avertit? tantos ratibus quis depulit ignis?); a Enea è profetizzata nella maledizione di Didone una morte in giovane età (IV, 620: sed cadat ante diem mediaque inhumatus harena) e, allo stesso tempo, da parte di Anchise una lunghissima vita (VI, 764: quem tibi longaevo serum Lavinia coniunx). Le triremi della flotta troiana non erano ancora state inventate, stando al giudizio di Tucidide; Enea e Didone cacciano cervi, animali che non esistevano in Africa; alla fine dell’esperienza cartaginese, il vir viene spinto verso l’Italia da Aquilone, che però è un vento del nord. Quando, com’era consuetudine, il poeta lesse il VI libro all’imperatore, a Ottavia e a Livia, rispettivamente sorella e moglie di Augusto, si tramanda lo svenimento di Ottavia quando si arrivò ai versi che parlavano del di lei figlio Marcello, erede al trono, morto giovanissimo da poco tempo: le sembrò di rivederlo. Leopardi malignamente insinua che Ottavia non svenne per questo motivo, bensì perché non ne poteva più di ascoltare la lunga lettura di Virgilio, che era anche balbuziente (Pensieri, XX: “Fino gli scritti più belli e di maggior prezzo, recitandoli il proprio autore, diventano di qualità di uccidere annoiando: al qual proposito notava un filologo mio amico, che se è vero che Ottavia, udendo Virgilio leggere il sesto dell’Eneide fosse presa da uno svenimento, è credibile che le accadesse ciò non tanto per la memoria, come dicono, del figliuolo Marcello, quanto per la noia del sentir leggere.”)
Al di là di queste pur numerose farfalle sotto l’arco di Tito, la risposta alle domande precedenti va ricercata nei suoi rapporti personali con Augusto. Qual era dunque questa ragione così inammissibile? Che cosa c’era di così inconfessabile?
È indubbio che, a differenza di Orazio, Virgilio abbia raccolto elementi se non di dissenso, quantomeno eterodossi rispetto alla propaganda imperiale. Che Augusto non si sia accorto dell’esistenza di tali elementi, acquisendo coartatamente il poema è da escludere, essendo per giunta ancora vivo Mecenate, il fedelissimo ministro della cultura che gli faceva da filtro nei rapporti con gli intellettuali. Semmai è probabile che l’imperatore li assunse strategicamente nell’ideologia ufficiale, allo stesso modo in cui neutralizzò le spinte restaurative del “pompeiano” Livio (di fatto funzionali al regime della “repubblica apparente”) o smascherò gli omaggi formali (in quanto extraletterari e non “impegnati”) di Ovidio che pure era ricevuto quale cortigiano a corte. Anche Luca Canali è su questa linea: “Enea giustiziere convince meno dell’umano coraggio di Turno. La valorizzazione della resistenza italica agli invasori non era in contrasto con la politica di Augusto. Tuttavia credo che l’ispirazione di Virgilio abbia qui valicato i confini della ortodossia augustea.”(Storia della poesia latina, Milano 1990, p. 91).
Io mi spingerei più oltre. Motivi catoniano-arcaici sono presenti in Orazio e in Virgilio, e non insinceri, in tutt’altra forma che di una mascherata; forse Orazio è stato l’alibi del Virgilio anti-augusteo. Non c’è dubbio che Orazio sia augusteo: ma decidere massicciamente sui caratteri profondamente e autenticamente augustei di Virgilio è un dramma: il dramma dell’ultimo Virgilio.

* * *

Il fascino di questo capolavoro consiste, oltre che nella sua incompiutezza appena percepibile, nell’essere ideologicamente ancipite, secondo una duplice possibilità interpretativa che la critica ha reso ugualmente legittima.
 La tesi tradizionale vede l’adesione totale alla propaganda: mos maiorum, centralità di Roma dopo la battaglia di Azio, centralità della persona di Augusto (da non adulare però in maniera diretta: il suo nome è fatto un’unica volta, nel libro VI), religione di stato come appartenenza civica. È  la posizione di Richard Heinze e di Eduard Norden. Più recentemente Pierre Grimal, pur se in modo problematico, ha dato sostegno a questa interpretazione.
La tesi più avanzata ritiene il punto di vista di Virgilio costruito, meccanico, formalistico nelle parti encomiastiche dirette (poche, come secondo propaganda) e indirette (la guerra). La visione della storia e quindi dell’imperialismo romano è pessimistica. Il poema si può leggere in chiave di (latente) opposizione al regime.  Iniziatore di questo discorso fu negli anni ’50 Victor Pöschl, che senza mettere tuttavia molto in discussione il carattere augusteo coglieva le contraddizioni attraverso la simbolizzazione interna alla struttura etica dell’opera. Successivamente, con maggior decisione la scuola di Harvard (Adam Parry, Wendell Clausen, Michael Putnam) portò avanti negli anni ’60 la tesi anti-augustea. 
Se il programma culturale vuole il trionfalismo della Romana gens, prevale al contrario l’adesione profonda all’umiltà degli ambienti rurali e una voce di sconforto accompagna senz’altro il canto interiore contrapposto alla celebrazione esterna della res publica. Enea è più intenzionato a guardare indietro verso la città perduta che non a costruire le premesse di un futuro vittorioso, è più credibile come furens che come pius quando combatte nel Lazio e uccide Turno che pure gli si era rivolto in atteggiamento supplichevole.


La morte di Virgilio di Hermann Broch

Il romanzo di Broch è piuttosto su questa linea. La morte di Virgilio racconta le sue ultime ore a Brindisi fino alla morte avvenuta undici giorni prima delle Calende di ottobre, essendo consoli Gneo Senzio e Quinzio Lucrezio, esattamente il 21 settembre del 19 a.C. Nonostante che già a Megara il morente avesse chiesto a Lucio Vario di distruggere il manoscritto, contravvenendo al suo desiderio Augusto in persona ordina a Plozio Tucca e allo stesso Vario di curarne l’edizione, permettendo loro solo i ritocchi puramente indispensabili senza alterare il testo con integrazioni. 
Il porto di Brindisi, brulicante di vita corrotta e di degradanti segni di sfacelo, accoglie di sera il malandato poeta, stanco e agonizzante. La plebe intorno a lui non lo riconosce, ne è incuriosita soltanto perché lui è al seguito dell’imperatore e dev’essere un personaggio importante. Viene trasportato lentissimamente in lettiga in mezzo alla folla urlante, scomposta – gli lanciano invettive d’invidia, insulti, è paurosamente costretto a chiudersi gli occhi con le mani per non vedere lo spettacolo offertogli della più nera quotidianità miserabile – fino al palazzo imperiale piantonato dalla coorte pretoriana.
Un funzionario gli chiede chi sia per verificare se il suo nome è tra quelli degli ospiti e il famoso scrittore, non senza risentirne nell’orgoglio, glielo dice:
«Sì, Publio Virgilio Marone, questo è il mio nome».
Gli si replica solo con un vago cenno affermativo del capo.
Per l’intero tragitto dalla nave fin lì, aveva vagliato malinconico i cupi segni di thanatos devastanti in modo inverosimile, aveva resistito interrogandosi se quello che stava vivendo fosse un avvertimento del destino, una minaccia o l’irrevocabile inizio dell’ultima conoscenza.

[...]


2
Centralità del VI libro



Cuma, Tempio di Apollo (sede più probabile della Sibilla)


La climax ascendente del VI libro è ostinatamente cercata nel bilanciamento compositivo delle tre parti in cui è possibile suddividerlo: 1) 263 versi hanno per protagonista la Sibilla; 2) 371 successivi rappresentano l’oltretomba; 3) i restanti 264 (o 263, secondo qualcuno) costituiscono la chiusura del libro per un totale di 901 (o 900) esametri se si aggiungono i primi due dell’approdo a Cuma. Tutto questo in ossequio al preciso calcolo delle proporzioni per seguire un importante postulato dell’armonia classicistica. Di fatto, il VI è il canto più lungo, se si eccettuano i 908 del X, i 915 dell’XI e i 952 dell’ultimo: dodici libri, la metà di quelli del primo e del secondo Omero, per una somma totale di 9896 (o 9895) esametri di contro ai 15.696 dell’Iliade e 12.007 dell’Odissea. Per questi motivi strutturali anche in termini quantitativi, che si tratti di un libro centrale nessuno discute tranne Victor Pöschl (Die Dichtkunst Virgils, Darmstadt 1964, p. 150 passim), secondo il quale la precedenza in tal senso va data al IV per la tensione metaforica riguardante il dramma di Didone nei rapporti con Enea (Pöschl evidentemente non considera validi gli intenti programmatici, più espliciti e diretti nel VI, inesistenti o appena sottintesi nel IV, ai fini del risultato estetico).










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