sabato 22 ottobre 2011

Inferno, Canto II



Lo giorno se n’andava, e l’aere bruno
toglieva li animai che sono in terra
da le fatiche loro; e io sol uno 3

m’apparecchiava a sostener la guerra
sì del cammino e sì de la pietate,
che ritrarrà la mente che non erra. 6

O muse, o alto ingegno, or m’aiutate;
o mente che scrivesti ciò ch’io vidi,
qui si parrà la tua nobilitate. 9 

mercoledì 12 ottobre 2011

Maturità classica 1978-1979




Quam gravis, quam magnifica, quam constans conficitur persona sapientis! Qui, cum ratio docuerit, quod honestum esset, id esse solum bonum, semper sit necesse est beatus vereque omnia ista nomina possideat, quae irrideri ab inperitis solent. Rectius enim appellabitur rex quam Tarquinius, qui nec se nec suos regere potuit, rectius magister populi (is enim est dictator) quam Sulla, qui trium pestiferorum vitiorum, luxuriae, avaritiae, crudelitatis, magister fuit, rectius dives quam Crassus, qui nisi eguisset, numquam Euphraten nulla belli causa transire voluisset. Recte eius omnia dicentur, qui scit uti solus omnibus, recte etiam pulcher appellabitur (animi enim liniamenta sunt pulchriora quam corporis), recte solus liber nec dominationi cuiusquam parens nec oboediens cupiditati, recte invictus, cuius etiamsi corpus constringatur, animo tamen vincula inici nulla possint. Nec expectet ullum tempus aetatis, ut tum denique iudicetur beatusne fuerit, cum extremum vitae diem morte confecerit, quod ille unus e septem sapientibus non sapienter Croesum monuit; nam si beatus umquam fuisset, beatam vitam usque ad illum a Cyro extructum rogum pertulisset. Quod si ita est, ut neque quisquam nisi bonus vir et omnes boni beati sint, quid philosophia magis colendum aut quid est virtute divinius?


(Cic., De finibus, III, 75-76)

sabato 8 ottobre 2011

La virtualità della prima intenzione

G.B. Montini a M.V. Rossetti

Appunti sulla carità e la preghiera tratti dalla Summa di s. Tommaso. Citazioni di Paolo e di Agostino.
(15 agosto 1951)[1]
-          Quis diligit me
-          Amor super hanc communicationem fundatus est caritas (S. Th., II, II, 23, 1)[2]
-          Caritas amor quidam est (ib., 25, 2)[3]
-          illa sit potior quae magis Deum attingit (ib., 6)[4]
-          Nulla vera virtus potest esse sine caritate (ib., 7)[5]
-          per caritatem ordinantur actus omnium virtutum ad ultimum finem; et secundum hoc ipsa dat formam actibus omnium aliarum virtutum; et pro tanto dicitur esse forma virtutum[6]
-          Fiduciam… talem habemus per Christum ad Deum, non quod simus sufficientes cogitare aliquid etc. (II Cor., III, 4)[7]
-          Christus vero tamquam filius in domo sua: quae domus sumus nos, si fiduciam et gloriam spei usque in finem firmam retineamus (Hebr., III, 6)[8]
cfr. II Cor. IX, 8[9] - Eph. II, 4-7[10]
S. Th., S.T., 22ae, 83, 13
-          Vis primae intentionis, qua aliquis ad orandum accedit, reddit totam orationem meritoriam[11]
-          … et ad hunc etiam effectum sufficit prima intentio (impetratorium[12])
-          refectio mentis: et ad hoc de necessitate requiritur in oratione attentio[13]
-          S. Agostino, Ep. ad Probam 121?
In fide, spe et charitate, continuato desiderio semper oramus[14]

mercoledì 5 ottobre 2011

La speranza ci rimanda al futuro



Una piccola dose di saggezza o di follia, che è lo stesso, per chi non avesse altro e sa intendere. In Orazio (Carmina, I, 11) come in Matteo (6, 31: Nolite ergo solliciti esse dicentes: “Quid manducabimus?”, aut: “Quid bibemus?”, aut: “Quo operiemur?”) la disperazione è un modo di defuturizzare il presente, depotenziarlo energeticamente dai pericoli della speranza come modo per viverlo, attraversare tutto il dolore preservandosi dall’ansia per ciò che potrebbe accadere e che di fatto non è (spatio brevi / spem longam reseces). Se non aveste avuto da combattere di qua, ci sarebbe stata in ogni caso la necessità di farlo di là! E guardate all’amicizia non come un ripiego ma come scelta, come destino:
«La speranza ci rimanda al futuro: è in esso che noi speriamo, invece di conciliarci col presente; di conseguenza, siamo infelici. Da circa 14 mesi, senza neanche un minuto di pausa, soffro di mal di testa, e per tutto questo tempo ho avuto quasi sempre il desiderio di gettarmi a terra e urlare (bella situazione per un filosofo!) di furore, di disperazione, perché non si vedeva alcun miglioramento. Alla fine ho abbandonato la speranza, e da allora sono assai più felice. E poi penso anche: la vita, comunque sia, è – cattiva; quindi non è tanto importante che sia in un modo o nell’altro. Ma quel che mi rasserena ancor di più della mia stessa mancanza di speranza è – come Lei, caro amico, può bene immaginarsi – la prospettiva di trovarmi con Lei.» (Paul Rée da Stibbe a Nietzsche a Naumburg, 19 ottobre 1879) 

domenica 2 ottobre 2011

Le «radici comuni» di Anna Maria Ortese e di Elsa Morante





Rapallo, 14 gennaio 1986

Caro Citati,

è stato un periodo tempestoso, per fortuna ora è finito, quello di dicembre-gennaio. Ne sono uscita come ammalata (e indignata vanamente), con la sensazione che le «fate» siano una fatalità demoniaca. Mi giunge adesso la sua lunga e intelligente lettera (che lezione, per me!); inoltre, le stradine sono vuote, non fa freddo ed è nevicato. Ricomincia quindi il respiro.

Alessandro Manzoni



La vita
Alessandro Manzoni nasce il 7 marzo 1785 a Milano, da Pietro Manzoni (padre putativo, quello vero essendo probabilmente Giovanni Verri) e da donna Giulia Beccaria, figlia del celebre marchese illuminista Cesare Beccaria, autore del trattato Dei delitti e delle pene. Dopo la separazione dei genitori viene mandato dalla madre nel collegio gestito dai padri somaschi in Brianza e successivamente dai barnabiti a Milano. Tutta la sua adolescenza sarà contrassegnata da tali tetri educatori, che tuttavia lo iniziarono alla cultura classica, alla conoscenza degli autori latini tra i quali in primo luogo Virgilio, nonché di Dante e di Parini. «Il Manzoni ha avuto tragici rapporti coi genitori, specie con la madre (cosa che l’ha costretto, tra l’altro, a passare lunghi anni in collegio). È semplice per noi posteri, lettori di Freud, analizzare la conseguente nevrosi che è caratterizzata dall’eterna forma di complesso nei riguardi del sesso femminile (le vertigini che egli provava, solo se seduto su una sedia isolata, ne sono un sintomo “da laboratorio”): ciò non poteva che portarlo a una cristallizzazione della femminilità, condizione senza la quale sarebbe stato impossibile per lui pensare al rapporto sessuale. […] La vita sessuale – dice Freud – non è un fiume che scorre sul suo letto, ma è un rivolo di liquido vischioso, pieno di rami, pozzanghere, e solo faticosamente il suo corso principale giunge al proprio sbocco.
«L’omosessualità di Manzoni era evidentemente uno di questi corsi secondari, di queste pozzanghere: ma è sotto il suo segno che si svolge tutto il fitto intreccio di rapporti dei personaggi dei Promessi sposi» (Pier Paolo Pasolini, Descrizioni di descrizioni).
A Milano entra in contatto con Vincenzo Monti, riconoscendo in lui un vero e proprio ruolo paterno, dedicandogli anche alcuni versi. Terminati gli studi trascorre qualche tempo nella casa paterna, frequentando circoli dove conosce Ugo Foscolo, Vincenzo Cuoco e Francesco Lomonaco.
In seguito, coltiva un interesse per la storia e per la letteratura componendo testi di stampo neoclassico, poi viene mandato a Venezia per essere sottratto all’influsso della Milano napoleonica. Nello stesso tempo muore Carlo Imbonati, amante della madre. Manzoni per invito di Giulia si reca a Parigi dove scrive il suo primo testo di rilevo, il carme In morte di Carlo Imbonati.
Da questo momento, inizia a dedicarsi a un programma di vita legato a un’etica laica di alto profilo morale, che egli non rinnegherà neanche dopo la discussa conversione: «il Carme si annunzia come un programma limitato sibi et paucis: con l’implicito riconoscimento, ancora più categorico che storico, della frattura insormontabile che da sempre condannava l’intellettuale italiano ad una sorta di perpetua alienazione nei confronti del proprio retroterra “popolare”.
«E intanto ne restava stimolata, a livello esistenziale, una nativa asocialità, che si può riempire di motivazioni culturali e psicanalitiche di più larga estensione (dal rousseauvismo all’agorafobia), ma che per l’appunto negli anni che vanno dal Carme alla conversione resta in evidenza anche come nodo traumatico di un oggettivo vuoto generazionale, confermato da molte biografie parallele, nel trionfo della retorica napoleonica e nel restringersi d’ogni alternativa» (Giancarlo Mazzacurati, Per un diaframma tardo-illuministico: Manzoni tra il Carme in morte di C. Imbonati e l’Urania, in Forma & ideologia).
A Parigi frequenta i salotti intellettuali dopo aver ricevuto un’educazione cattolica rigida ma, particolare spesso dimenticato, con idee illuministiche. Che il cattolicesimo in sede culturale e letteraria debba essere sfrondato anche da un pregiudizio laicista, peraltro legittimato purtroppo da una bieca tradizione scolastico-provinciale che tuttora agisce, è d’altra parte una necessità manifestata da una riflessione critica ulteriore, a partire proprio dal “laico in tutti i sensi” che fu Manzoni. «Fu inoltre considerato padre inetto e incapace di indirizzare a una professione i figli, - ha scritto Salvatore Silvano Nigro - che si indebitarono e lo indebitarono. Cattolico per nulla filisteo, e anzi “laico in tutti i sensi” e sostenitore – nella seconda parte delle Osservazioni sulla morale cattolica - della compatibilità della religione cattolica con lo spirito del secolo da dirigere e da correggere, fu contrario al temporalismo del corpo giuridico della Chiesa: difatti, tra la scandalizzata protesta dei cattolici intransigenti, non esitò in qualità di senatore del regno d’Italia a votare in favore del trasferimento della capitale da Torino a Firenze, come tappa intermedia verso la predestinata Roma, né ad accettare nel 1872 – nello spirito della legge delle Guarentigie fondata sul principio della separazione tra Stato e Chiesa – la cittadinanza onoraria offertagli dal comune di Roma.»
Alessandro incontra così la dimensione religiosa, conosce la donna che rivestirà un ruolo importante nella sua vita coniugale: Enrichetta Blondel. In questo stesso periodo, durante il matrimonio di Napoleone con Maria Luisa d’Austria, tra la folla perde la moglie e si va a rifugiare nella chiesa di S. Rocco pregando affinché Enrichetta ritorni; quando la ritrova, si attribuisce proprio a questo episodio la conversione al cattolicesimo ma in realtà fu semmai un ritorno alla fede. Comincia ora la sua maturità artistica e grazie alla cospicua eredità lasciatagli dal padre e da Carlo Imbonati fissa la sua dimora a Milano.
Nel 1819 la famiglia Manzoni si trasferisce di nuovo per un determinato periodo a Parigi dove lo scrittore incontrerà molti personaggi da cui prenderà ispirazione per le sue opere. 

Giacomo Leopardi


Giacomo Leopardi fu un lirico cioè uno di quei poeti che nei loro versi parlano di sé e pongono in primo piano la propria esperienza esistenziale. La sua opera in prosa e in versi è qualcosa di unico e di originale ed è espressione dell’epoca storica in cui è vissuto, oltrepassando «con estrema originalità e impareggiabile forza inventiva i motivi della poetica neoclassica e della filosofia illuministica, nel momento in cui accoglie del Romanticismo alcune peculiari istanze» (Giorgio Petrocchi).

venerdì 30 settembre 2011

La condizione servile a Roma

L’humanitas caratterizzava il legame tipicamente romano tra servus, o mancipium, e dominus. Non sono rari i casi tramandati di fedeltà fino alla morte non solo del primo verso il secondo ma anche viceversa, fino all’identificazione totale del corpus dell’uno nel corpus dell’altro.
Esisteva tra i due un rapporto privilegiato, avulso da qualsiasi altra modalità consueta nella pratica delle relazioni sociali o nei legami affettivi più intimi. Questa situazione anomala contraddice il luogo comune che attribuisce allo schiavo romano, spesso liberto, condizioni di lavoro e di esistenza durissime se non addirittura disumane. In età giulio-claudia le favole di Fedro, prive dell’energia sufficiente per assurgere all’alta letteratura, risentono del deterioramento della condizione servile successiva ad Augusto. Non risulta nemmeno, iscrivendosi in un mos abbastanza consolidato, così umanitariamente innovativo il famoso passo di Seneca, peraltro nobile per l’energia con cui il filosofo denuncia l’arroganza usata da parte di alcuni, dove si legge: «”Servi sunt”. Immo homines. “Servi sunt”. Immo contubernales. “Servi sunt”. Immo humiles amici» (Epistulae ad Lucilium, 47). Seneca scriveva in un periodo storico nel quale si era andata progressivamente restaurando un’abitudine oppressiva nei confronti dei servi, umiliante in sé, ma che si configurava all’interno di una zona franca: il rendiconto immediato alla comunità dei domini, anche se il diritto contemplava la compravendita e la possibilità stessa della tortura.
Esisteva tra i due un vero e proprio vincolo affettivo. In quanto ultimo rifugio potenziale (e nonostante che la legge non lo considerasse soggetto giuridico ma lo trattasse come oggetto di scambio, non diversamente da altri beni materiali), il servus fin dall’inizio si collocava in una dimensione relazionale fondamentale ed esclusiva e, perciò, in un certo senso superiore a tutte le restanti forme di rapporto anche per quanto riguardava gli altri uomini liberi. Ed è vero che ogni servus era un potenziale liberto, e avrebbe potuto rendersi cittadino libero. Il dominus alimentava la speranza del riscatto futuro; che il servus a sua volta poi fosse fedele è dimostrato dal fatto che in una casa patrizia vivevano anche decine di schiavi, ognuno preposto a determinati compiti tra i più delicati dal momento che, se non fosse stato degno, o degna, nel caso della serva, di fiducia avrebbe potuto, ad es., avvelenare i cibi o tagliare la gola al dominus paradossalmente sottomesso per farsi radere. Non c’era nessuna circostanza della vita che fosse in grado di ridurre il cittadino libero a non poter contare nemmeno sul proprio schiavo.

mercoledì 28 settembre 2011

Celan e Heidegger



«È forse questo il luogo adatto per segnalare – scrive Jean Bollack in La Grecia di nessuno (Sellerio 2007, pp. 289-290) - che, secondo la testimonianza di suo figlio, Heidegger non sapeva che Celan era ebreo. La notizia è poco credibile, ma dopo tutto possibile, e fornisce dunque una testimonianza dell’insensibilità, del non-riconoscimento e del rifiuto di identità».
Dalla scuola della durezza un’idea di riconciliazione è completamente avulsa, nel senso che non è necessario innalzare, come invece vorrebbe Baumann, il fallimento dell’offesa ricevuta a un grado di necessità irrimediabile. Ma saper camminare sopra il pericolo, anzi cercarlo per poi resistere, è proprio il rimedio che Celan avrebbe appreso da Heidegger (anche se Celan non aveva probabilmente la forza di sopportare il pensiero di Heidegger), almeno stando a Otto Pöggler (ma non è meno vero per Lacoue-Labarthe). Cito: Wo aber Gefahr ist, wächst das Rettende auch: potrebbe essere di Hölderlin quanto di Ernst Jünger, a questo punto. 
Sdf

Libertà e uguaglianza




Il contrasto tra Rousseau e Nietzsche può essere bene illustrato dal diverso atteggiamento che l’uno e l’altro assumono rispetto alla naturalità e artificialità dell’eguaglianza e della diseguaglianza. Nel Discorso sull’origine della diseguaglianza, Rousseau parte dalla considerazione che gli uomini sono nati uguali, ma la società civile, vale a dire la società che si sovrappone lentamente allo stato di natura attraverso lo sviluppo delle arti, li abbia resi diseguali. Nietzsche, al contrario, parte dal presupposto che gli uomini siano per natura diseguali (ed è un bene che lo siano perché, fra l’altro, una società fondata sulla schiavitù come quella greca era, proprio in ragione dell’esistenza degli schiavi, una società evoluta) e soltanto la società, con la sua morale del gregge, con la sua religione della compassione e della rassegnazione, li ha resi eguali. Quella stessa corruzione che, per Rousseau, ha generato la diseguaglianza, ha generato, per Nietzsche, l’eguaglianza.
[…]