Rapallo, 14 gennaio 1986
Caro Citati,
è stato un periodo tempestoso, per fortuna ora è finito, quello di dicembre-gennaio. Ne sono uscita come ammalata (e indignata vanamente), con la sensazione che le «fate» siano una fatalità demoniaca. Mi giunge adesso la sua lunga e intelligente lettera (che lezione, per me!); inoltre, le stradine sono vuote, non fa freddo ed è nevicato. Ricomincia quindi il respiro.
Di Elsa Morante so bene – ho saputo a suo tempo, ho inteso – la vita come (quasi) negazione o rovesciamento di quell’ordine che le era apparso all’inizio. Ma proprio per questo avvertivo quella sua vita come tragica e penosa. Perché la vedevo (solo la vita, non le opere) inadeguata a quello. E questo, poi, dev’essere stato il suo profondo patire. Di capire che l’ordine le era impossibile. Io stessa, da anni, vado sperimentando la difficoltà della coerenza, di serbarsi fedeli a una specie di giuramento fatto all’Invisibile. Di più non saprei dire. Ma follia e rivolta le intendo, le vedo ammissibili, solo in questo senso: di quasi militare obbedienza a un fanciullesco mite giuramento fatto, in passato, alla stella: conta l’immensa tentazione dell’essere – del vivere - «naturale». Quando si dice «anarchia», e «follia», e «rivolta», si dice (per me) qualcosa di estremamente facile e comune. Vera follia e vera rivolta sono solo nella obbedienza a un ordine sovrumano di pietà, e anche rigore verso se stessi.
Credo di aver pensato a questo nel dire, parlando di Elsa Morante, «radici comuni». Lì, le tenebre, la oscurità iniziale – di tutt’e due – ma anche e più delle radici, una certa linea da seguire, che doveva non smarrirsi nel «naturale» - non atterrare nel «mondo», che è inesistenza. Elsa ha creduto nella inesistenza, nel miraggio, ha visto terra dove non era. Questa, per me, la sua tragedia. Un’anima perduta.
Perduta anch’io, ma intuendolo e accettandolo (generalmente, o almeno finché sarò in piedi). Non credo nel reale. O almeno, non nel comune reale. Ma l’ingegno per dire tutto questo, ora (che ho capito) manca. Dico perciò: perduta anch’io.
Di Benjamin Constant: i suoi brevi romanzi, soprattutto Adolphe, da soli non raccontano Constant. Lo scrittore di Adolphe è nei Diari. Quell’eterno tormentoso oscillare, e dietro quel pendolo il mondo dei costumi e la storia di allora. Un’impressione che ho avuto leggendo la Mansfield dell’epistolario e del Diario, più che la Mansfield delle novelle. Quelle novelle – della Mansfield – anche meravigliose – sono poche. Ma epistolario e Diario hanno un respiro infinito, pur non essendo illimitati.
Ho trovato in questi giorni dei nuovi racconti (nuovi, perché non li conoscevo) di James, La panchina della desolazione, e ne sono stata felice.
Sto leggendo anche (non lo conoscevo) Nietzsche (La gaia scienza): un sentire e un pensare di una sottigliezza sovrumana, abbagliante.
Di Mann. È vero, almeno nella Montagna ci sono i limiti che Lei avverte: ma il Tonio Kröger non è grande? e non basta a una vita?
Nessun commento:
Posta un commento