domenica 2 ottobre 2011

Le «radici comuni» di Anna Maria Ortese e di Elsa Morante





Rapallo, 14 gennaio 1986

Caro Citati,

è stato un periodo tempestoso, per fortuna ora è finito, quello di dicembre-gennaio. Ne sono uscita come ammalata (e indignata vanamente), con la sensazione che le «fate» siano una fatalità demoniaca. Mi giunge adesso la sua lunga e intelligente lettera (che lezione, per me!); inoltre, le stradine sono vuote, non fa freddo ed è nevicato. Ricomincia quindi il respiro.
Per Elsa Morante. Sono confusa al pensiero di aver sbagliato nel mio giudizio (davanti a Lei!). Ma se leggerà Menzogna e sortilegio capirà perché ne sono rimasta altamente soggiogata. Proporzioni mostruose. Ma non solo nella misura esterna del romanzo, quanto nel suo tempo interiore. Come un mondo intravisto al lume debole, tutte le sue ombre sono in moto, crescita e diminuzione continua. A volte si alzano fino a divenire montagne, o si abbassano quasi a sparire. C’è una perfezione – di certi particolari – assoluta. Sembra il libro – la storia – del povero e feroce mondo femminile, il mondo antico, che vive tuttora, dell’Italia che ha mille anni di tenebra. Dopo Menzogna e sortilegio, L’isola di Arturo è un luogo, e una struttura, dove l’aria aperta circola ampiamente. Però, è anche vero che c’è un congegno, una chiusura invisibile; l’architettura del libro è fredda. Mi colpì, e commosse, all’inizio, quell’accenno alla stella Arturo. Forse, pensavo, Elsa Morante deve aver ricordato (ricordando la stella Arturo) quel mio racconto di Angelici dolori, Il capitano, dove una ragazzetta si accorge di questo astro, e lo sceglie come confidente. Pensiero orgoglioso e malinconico. Perché in quella novella io avevo appena suggerito l’idea di una complicità con l’ordine celeste, mentre nel suo romanzo la Morante aveva lei stessa creato un ordine superiore, dei celesti comportamenti. Tutto qui.
Di Elsa Morante so bene – ho saputo a suo tempo, ho inteso – la vita come (quasi) negazione o rovesciamento di quell’ordine che le era apparso all’inizio. Ma proprio per questo avvertivo quella sua vita come tragica e penosa. Perché la vedevo (solo la vita, non le opere) inadeguata a quello. E questo, poi, dev’essere stato il suo profondo patire. Di capire che l’ordine le era impossibile. Io stessa, da anni, vado sperimentando la difficoltà della coerenza, di serbarsi fedeli a una specie di giuramento fatto all’Invisibile. Di più non saprei dire. Ma follia e rivolta le intendo, le vedo ammissibili, solo in questo senso: di quasi militare obbedienza a un fanciullesco mite giuramento fatto, in passato, alla stella: conta l’immensa tentazione dell’essere – del vivere - «naturale». Quando si dice «anarchia», e «follia», e «rivolta», si dice (per me) qualcosa di estremamente facile e comune. Vera follia e vera rivolta sono solo nella obbedienza a un ordine sovrumano di pietà, e anche rigore verso se stessi.
Credo di aver pensato a questo nel dire, parlando di Elsa Morante, «radici comuni». Lì, le tenebre, la oscurità iniziale – di tutt’e due – ma anche e più delle radici, una certa linea da seguire, che doveva non smarrirsi nel «naturale» - non atterrare nel «mondo», che è inesistenza. Elsa ha creduto nella inesistenza, nel miraggio, ha visto terra dove non era. Questa, per me, la sua tragedia. Un’anima perduta.
Perduta anch’io, ma intuendolo e accettandolo (generalmente, o almeno finché sarò in piedi). Non credo nel reale. O almeno, non nel comune reale. Ma l’ingegno per dire tutto questo, ora (che ho capito) manca. Dico perciò: perduta anch’io.
Di Benjamin Constant: i suoi brevi romanzi, soprattutto Adolphe, da soli non raccontano Constant. Lo scrittore di Adolphe è nei Diari. Quell’eterno tormentoso oscillare, e dietro quel pendolo il mondo dei costumi e la storia di allora. Un’impressione che ho avuto leggendo la Mansfield dell’epistolario e del Diario, più che la Mansfield delle novelle. Quelle novelle – della Mansfield – anche meravigliose – sono poche. Ma epistolario e Diario hanno un respiro infinito, pur non essendo illimitati.
Ho trovato in questi giorni dei nuovi racconti (nuovi, perché non li conoscevo) di James, La panchina della desolazione, e ne sono stata felice.
Sto leggendo anche (non lo conoscevo) Nietzsche (La gaia scienza): un sentire e un pensare di una sottigliezza sovrumana, abbagliante.
Di Mann. È vero, almeno nella Montagna ci sono i limiti che Lei avverte: ma il Tonio Kröger non è grande? e non basta a una vita?

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