domenica 2 ottobre 2011

Giacomo Leopardi


Giacomo Leopardi fu un lirico cioè uno di quei poeti che nei loro versi parlano di sé e pongono in primo piano la propria esperienza esistenziale. La sua opera in prosa e in versi è qualcosa di unico e di originale ed è espressione dell’epoca storica in cui è vissuto, oltrepassando «con estrema originalità e impareggiabile forza inventiva i motivi della poetica neoclassica e della filosofia illuministica, nel momento in cui accoglie del Romanticismo alcune peculiari istanze» (Giorgio Petrocchi).


La vita

Giacomo Leopardi nasce a Recanati il 29 giugno 1798 dal conte Monaldo e dalla marchesa Adelaide Antici e cresce in un ambiente familiare conformista e povero d’affetti. Il padre è un erudito conservatore che si interessa ai libri e alla cultura, incapace di gestire il patrimonio familiare occupandosi solo della ricca biblioteca del palazzo ma non privo di attenzione verso i figli, reazionario dal punto di vista politico (era un fanatico fautore dell’Ancien Régime). La madre è invece eccessivamente severa, molto religiosa e dedita ad amministrare con rigore le dissestate finanze della casa.
Ricevuta la prima educazione da precettori ecclesiastici, a partire dai dieci anni apprende da autodidatta il greco, il latino e l’ebraico; infatti anche secondo alcune testimonianze di Monaldo gli istitutori non avevano più nulla da insegnargli.
Si dedica all’erudizione e cresce senza amici e senza amori, ma con il grande desiderio di emergere nella letteratura. Neppure va trascurato il Leopardi filologo, il più grande della sua epoca in Italia e apprezzato da studiosi stranieri.
Nel 1816 inizia a dedicarsi alla poesia e nel 1818 conosce personalmente Pietro Giordani, ospite della famiglia a Recanati.
Leopardi soffre di mali fisici, ma in aggiunta a questi patisce le incomprensioni familiari e dei concittadini: familiari perché i genitori vogliono avviarlo a una carriera ecclesiastica che egli rifiuta avendo maturato convinzioni materialistiche che lo spingono ad abbandonare la fede cristiana; dei concittadini perché a Recanati chi ha interessi culturali viene schernito come saccentuzzo.
Tutto ciò lo porta a maturare una profonda crisi che sfocia nel tentativo di fuggire da Recanati, ma scoperto dal padre rinuncia a tale progetto.
Nel novembre del 1822 ottiene finalmente da Monaldo il permesso di lasciare il borgo selvaggio e si reca a Roma ospite degli zii Antici, ma rimane deluso dalla capitale dello Stato della Chiesa. A Roma la vita intellettuale gli appare in decadenza e legata in modo chiuso al passato. Si trasferisce poi in varie città italiane come Milano, Bologna, Firenze e Pisa. A Firenze conosce l’amore, violento e infelice, per Fanny Targioni Tozzetti e stringe amicizia con l’esule napoletano Antonio Ranieri.
Con quest’ultimo si trasferisce nell’ottobre del 1833 a Napoli, dove trascorre gli ultimi anni.
La metropoli partenopea accoglie il malandato fuggiasco con la sua magnanimità e le sue benevoli miserie, e ancora una volta gli tocca prendere atto della propria irreversibile solitudine, della sua distanza abissale dalle magnifiche sorti e progressive. «Al Caffè d’Italia aveva spesso constatato il suo isolamento, non soltanto fisico ma intellettuale. Quando si sedeva a un tavolino e restava immobile per ore a guardare lo spettacolo della strada, intorno a sé percepiva una evidente ostilità. Sguardi, risatine, commenti. È arrivato o ranavuottolo, il ranocchio, il commento più consueto, bisbigliato con quei toni a mezza voce che riescono ancor più a ferire.» (Renato Minore)
Muore il 14 giugno 1837 assistito dall’amico Ranieri, così importante nella sua vita affettiva, e dalla di lui sorella Paolina. Riposa accanto a Virgilio, a Mergellina. Ranieri comporrà i Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi, libro che pur costituendo un documento prezioso, non è tuttora ben giudicato dalla critica poiché presenta una visione negativa e scandalistica della vita del poeta.

La formazione e il pensiero
Rinchiuso nella biblioteca paterna, impara da solo insieme alle lingue antiche anche quelle moderne. Inizia a comporre i suoi primi lavori dedicandosi alla filologia classica e all’erudizione. Stando a Recanati, rimane isolato dal panorama culturale italiano; nell’ambito politico, sviluppa il conservatorismo paterno da cui si distanzia sempre di più e sostiene che la politica non risolve nulla.
Nel 1816 avviene la conversione letteraria: il passaggio dall’erudizione al bello, cioè dalla filologia alla poesia. Si dedica quindi alla lettura delle opere classiche e traduce letterariamente molti testi antichi. Invia nel 1817 a Vincenzo Monti, ad Angelo Mai e a Pietro Giordani, che diventerà suo amico, la versione del II libro dell’Eneide virgiliana, entrando così in contatto con alcuni intellettuali italiani e rompendo almeno in parte, per lettera, il proprio isolamento. Anzi, la sua vita ha una svolta proprio grazie al rapporto con Giordani che, essendo per lui l’unico punto di riferimento esterno, è l’unico allo stesso tempo ad intuire le sue grandi qualità letterarie.
Dà un contributo notevole al dibattito fra romantici e classicisti e, pur essendo pervaso da sensibilità romantica, si schiera in favore di questi ultimi.

Le fasi della poetica
Nel 1819 si ha il passaggio dal bello al vero e quindi dalla poesia fondata sui miti classici alla poesia sentimentale e filosofica.
Tradizionalmente si individuano almeno quattro fasi della produzione letteraria di Leopardi, ma è bene precisare che una poetica come la sua non può essere imprigionata in schematizzazioni troppo rigide, trattandosi di un pensiero per il quale «è essenziale proprio il confronto tra prospettive opposte e che tende a rimettere in discussione concetti, a spostare obiettivi, a rintracciare fondamenti, a ribaltare definizioni» (Giulio Ferroni).
In un primo tempo è del parere che soltanto pochi individui siano condannati a soffrire una vita senza senso e senza scopo maturando un pessimismo individuale. In questa prima fase vive solitario a Recanati e vede la vita come qualcosa di negativo: questa situazione è attribuita ai suoi stessi mali fisici e psicologici.
La seconda fase è molto legata alla prima e prende il nome di pessimismo storico. Ora sostiene che gli uomini sono infelici e che la loro infelicità è la conseguenza del progresso e della civilizzazione. Ispirandosi a Rousseau, sostiene che l’uomo nasce buono ed è felice finché vive in armonia con la natura. Tuttavia con l’intervento della civiltà si allontana dalla natura e si corrompe (l’illuminismo «recuperato come momento attivo soprattutto nel suo ultimo periodo, - osserva Walter Binni - non fu il “carcere” da cui Leopardi si liberava con la sua poesia, ma fu una forza per lui e per la sua poesia»).
In una fase successiva, che prende il nome di pessimismo cosmico, arriva a pensare che il dolore e l’infelicità siano qualcosa di connaturato all’uomo.
Non solo l’uomo, ma ogni essere vivente è nato per soffrire e la natura è considerata matrigna e nemica di ogni essere vivente.
L’uomo propende verso il male che deriva dal cosmo, cioè il tutto.
L’ultima fase riguarda La ginestra o il fiore del deserto. Introduce il concetto di solidarietà universale sostenendo che gli uomini non devono scontrarsi gli uni contro gli altri per non essere homo homini lupus (Hobbes), bensì solidarizzare contro il nemico comune: la natura matrigna.

La teoria del piacere
La felicità non è mai raggiungibile completamente e non abbiamo altro che l’illusione della felicità. Nella teoria del piacere (contenuta nello Zibaldone) Leopardi sostiene che l’uomo nella sua vita tende sempre a ricercare un piacere infinito, che non cessa mai e non ha limiti. Ma il piacere non è mai presente: esso appartiene al passato come nostalgia o al futuro come aspettativa, e l’uno e l’altro sono illusori.
Tale piacere è cercato soprattutto grazie all’immaginazione poiché è attraverso di essa che possiamo figurarci piaceri inesistenti. «L’ipotesi leopardiana si fonda sulla realtà delle “illusioni” da cui s’inferisce che la natura, “ancorché depressa e indebolita oltre a ogni credere”, è pure in grado di prevalere sulla sua “nemica”. Una verità valida non meno di quella che, su un altro piano, ispirandosi all’”esperienza” e alla “lugubre cognizione delle cose”, ne svela la tragica precarietà» (Achille Tartaro).

Canti
L’edizione definitiva dei Canti è composta da quarantuno liriche. In questa raccolta rinnova la canzone di Petrarca costituita da settenari e endecasillabi e che aveva una sua struttura rigida, immodificabile.
Rifà tale tipo di canzone, continuando a utilizzare settenari ed endecasillabi, ma abolendo la rima e rendendo la canzone più moderna. I metri più frequenti utilizzati nei Canti sono dunque ancora settenari e endecasillabi ma la canzone è formata da strofe a rima libera: la raccolta percorre la sua intera esistenza, tant’è vero che avrà molte edizioni e in ognuna di esse verranno aggiunti nuovi elementi.
Nei Canti esprime ricordi, emozioni, sentimenti, desideri, riflessioni personali e filosofiche.
Nei suoi testi la poesia lirica è espressione di pensiero al pari della prosa, nel senso che il tono liricizzante è integrato dalla riflessione filosofica. Il lessico nasce dall’intreccio della lingua quotidiana e di quella letteraria. Spesso utilizza termini antichi e vaghi, ritenendo che siano indispensabili in letteratura, suscitando ricordi e sentimenti.

Idilli
Negli Idilli per comunicare emozioni e sentimenti, si serve della descrizione di un paesaggio legato alle sue esperienze.
Gli Idilli si dividono in Piccoli Idilli, contraddistinti da versi brevi, e Grandi Idilli, dove predomina la canzone di ampio respiro.
Tra i Piccoli Idilli ci sono: L’infinito, La sera del dì di festa, Alla luna, Il sogno, La vita solitaria, Lo spavento notturno.
L’infinito analizza le emozioni e i pensieri del poeta posto di fronte all’immensità dell’universo e alla brevità della vita. Il suo sguardo è rivolto verso una siepe, che per un vasto tratto gli impedisce la vista dell’orizzonte: la siepe rappresenta il limite della conoscenza umana che risveglia il desiderio d’infinito.
Rimanendo seduto Leopardi immagina l’infinito e, dopo averlo percepito nel rumore del vento, lo paragona alle epoche trascorse e il fruscio provocato dal vento alla realtà destinata a essere inghiottita dallo scorrere del tempo.
È proprio in quell’infinito spaziale e temporale che annega il suo pensiero. Questo annegare è piacevole poiché il pensiero si perde in una dimensione lontana da angosce e meschinità. «Se ci mettiamo dal punto di vista del pensiero, tutto finisce con un disastro: il pensiero annega nel flusso vitale. Ma questo disastro è un trionfo. È la dolcezza, la quiete: una gioia che colma la mente sino all’orlo, davanti alla molteplicità delle sensazioni» (Pietro Citati).
Tra i Grandi Idilli: Il Risorgimento, A Silvia, Il passero solitario, Le ricordanze, La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia.
In A Silvia, il nome si identifica con Teresa Fattorini, figlia del cocchiere di casa Leopardi, trasfigurazione immaginaria e simbolo di un segreto amore dello scrittore e morta in giovane età. Silvia e la sua morte rappresentano i sogni e le speranze della fanciullezza, che svaniscono in età adulta quando la natura svela i primi inganni.
Ricorda Silvia che, attendendo la gioventù, trascorreva le giornate cantando e lavorando alla tela e accusa se stesso di trascorrere i suoi anni giovanili dedicandosi agli studi anziché alla vita. Infine tratta la morte della fanciulla che non aveva più potuto godere i suoi anni migliori.

Il ciclo di Aspasia
Comprende i componimenti scritti a Firenze per la bellissima Fanny Targioni Tozzetti, chiamata Aspasia dal nome della cortigiana amata da Pericle. Questo ciclo comprende: Il pensiero dominante, Amore e Morte, Consalvo, A se stesso, Aspasia.
«Voleva restare a Firenze finché duravano i pochi denari; poi sarebbe di nuovo sprofondato nell’”orrenda notte” di Recanati» (Rolando Damiani)
In questo ciclo è mostrato un quadrato amoroso. La giovane Fanny, interessata alla cultura, amava intrattenersi col poeta; ciò nonostante, lo illudeva perché in realtà era innamorata di Antonio Ranieri, che a sua volta amava un’altra donna, l’attrice Maddalena Pelzet, a sua volta sposata.
In queste opere sono presenti due temi principali: amore e morte. Questi ultimi sono uniti perché Leopardi sa che quando si ama ci si annulla completamente, presi dalle passioni. La morte è considerata la salvezza dal dolore della vita. «Tremendo, l’Amore ci spaesa, ci proibisce ogni “adattamento”, ci vieta la sicurezza dell’antica terra sotto i piedi, ci rende stranieri. E dunque, vale ripeterlo, non si tratta affatto di semplice nostalgia. Leopardi sa che un sogno “sei tu, dolce pensiero”; sa che, per quanto divina, la sua natura appartiene ai “leggiadri errori”». (Massimo Cacciari)

Operette morali
Sono dialoghi in prosa di carattere filosofico e morale, costruiti in base ai dialoghi di Platone.
Nelle Operette è presente un’ironia molto amara: Leopardi dà sfogo alla sua visione pessimistica del mondo. Tra le altre ricordiamo: Dialogo della moda e della morte, Dialogo della natura e di un’anima, Dialogo della natura e di un islandese, Il Parini ovvero della gloria, Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez, Dialogo di Plotino e di Porfirio.
Il Dialogo della natura e di un islandese è una prosa dove è messo in evidenza il pessimismo cosmico, e il dolore non è un fatto storico ma qualcosa di irrimediabile e naturale.
Il dialogo presenta un islandese infelice e sofferente che, resosi conto dell’impossibilità di trarre piacere morale e spirituale dalla convivenza con i propri simili, decide di isolarsi e di fuggire dall’Islanda alla ricerca di un luogo adatto a lui. Giunge nel cuore dell’Africa dove incontra la natura avente non a caso le sembianze di una donna, con cui l’uomo inizia a dialogare. L’islandese si lamenta della crudeltà delle catastrofi naturali e la natura severamente risponde che il suo intento è la salvaguardia del circuito di produzione e di distribuzione, e non  si pone come fine il destino dell’umanità.
L’operetta presenta due finali: l’islandese muore ucciso da due leoni affamati o ricoperto dalla sabbia, dopo essere caduto, mummificandosi.

L’epistolario
Raccoglie le novecentotrentuno lettere che sono utili per seguire il suo iter spirituale e artistico.
L’epistolario di Leopardi è costruito, come quello di Cicerone e di Petrarca. Tema ricorrente è quello della malattia, che sembrerebbe di natura psicosomatica. In esso l’autore raggiunge una certa teatralità in quanto, scrivendo lettere, esalta i propri contenuti esacerbandoli, affabulandoli, come se li ingigantisse per suscitare attenzione intorno a sé, per fare scalpore, rumore, provocatoriamente, come è esasperato e provocatorio il suo pensiero.

Lo Zibaldone
È uno scartafaccio molto voluminoso ed estremamente caotico e dinamico, che raccoglie i materiali più eterogenei.
In un primo momento lo aveva intitolato Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura, ma successivamente, insoddisfatto della mera referenzialità di quel titolo, compilando l’Indice si accorse che Zibaldone era invece più appropriato. Lo prese in prestito da Giuseppe Antonio Vogel, che frequentava casa Leopardi e che a sua volta, coi suoi Zibaldoni, ossia le lettere indirizzate al marchese Filippo Solari, riteneva di rifarsi addirittura alle Metamorfosi di Ovidio.
Tra il 1817 ed il 1832, annotò così le sue riflessioni sui più disparati argomenti (ricordi personali, osservazioni linguistiche, riflessioni filosofiche, confessioni personali, ecc.) in una sorta di diario intellettuale e morale: appunto, lo Zibaldone di pensieri, pubblicato per la prima volta da Giosue Carducci tra il 1898 e il 1900.
È fuor di dubbio il valore filosofico di questi scritti, sia pure attribuibili a un pensiero non sistematico ma che proprio da tale disorganicità e problematicità trae ragion d’essere e vigore speculativo. «Ci troviamo di fronte a un poeta che, facendo già in giovinezza poesia mediante il pensiero (un criterio che verrà sempre più maturandosi nel tempo come attestano decine di passi dello Zibaldone), tale pensiero tende continuamente ad arricchire e a problematizzare» (Ugo Dotti).
Lo Zibaldone è costituito da più di quattromilacinquecento pagine autografe e rappresenta uno strumento indispensabile, ancora in gran parte inesplorato, per comprendere le potenzialità ulteriormente umane e poetiche, filosofiche di Giacomo Leopardi.

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