mercoledì 8 febbraio 2012

Auseinandersetzung mit Wagner




I Pringsheim erano stati buoni conoscitori di Mahler e Thomas lo aveva incontrato alcuni anni prima, a un tè dato in suo onore alla Franz Joseph Strasse. L’estate precedente Mahler era tornato a Monaco per dirigervi la sua Ottava Sinfonia. Mahler non era affatto popolare nell’ambiente musicale, e quando mandò a chiedere al direttore artistico certi piccoli strumenti poco comuni, di cui aveva bisogno per la sinfonia, questi gli restituì la missiva comunicandogli che purtroppo quella sera aveva bisogno lui stesso di quegli strumenti.
«Porti i miei rispettosi saluti al direttore artistico», aveva replicato Mahler, «e gli dica che in un modo o nell’altro eseguirò lo stesso la mia sinfonia». Quanto a Thomas, non aveva il minimo dubbio sul genio di Mahler. A Katja confessò che per la prima volta aveva avuto l’impressione di incontrare un uomo veramente grande - «intenso in modo divorante» - come lo definì più tardi.
Il gruppetto dei Mann partì per Venezia la terza settimana del maggio 1911. Era la prima volta che vi giungevano dalla parte del mare – abitualmente vi si recavano in treno – e a bordo c’era una vecchia «checca» orrendamente imbellettata e circondata da un vivace stuolo di allegri giovanotti. Al molo cercarono qualcuno che li portasse al Lido. Immediatamente si presentò un gondoliere; ma erano appena arrivati al Lido quando qualcuno li avvisò che quel gondoliere non aveva la licenza per il tratto Venezia-Lido. Era una fortuna che non fosse successo niente, aggiunse.
Era uno strano inizio. Un facchino portò i loro bagagli all’Hotel des Bains e a tavola, il primo giorno, notarono un’interessante famiglia polacca – le ragazzine vestite in modo piuttosto austero, e accanto a loro un ragazzo tredicenne di straordinaria bellezza, vestito di blu, alla marinara. Il ragazzo affascinò Thomas – quella sua serenità, la testa greca, i movimenti misurati e sciolti, la grazia delicata. Sulla spiaggia Thomas si trovò a studiare il ragazzo, il modo in cui giocava con gli amici, l’inconsapevolezza assoluta con cui portava la sua bellezza – pur essendo allo stesso tempo conscio!
Ma Heinrich, forse perché si annoiava sulla spiaggia, o perché sentiva il disagio del caldo afoso, ben presto implorò che si trasferissero in montagna dove avrebbe fatto più fresco e avrebbero potuto fare lunghe passeggiate. E così, a malincuore, Thomas e Katja acconsentirono.
Ma a Bolzano la villa che volevano loro era occupata da una coppia di inglesi, e l’hotel non aveva comodità moderne. Trionfanti tornarono quindi a Venezia e al Lido. La famiglia polacca, con grande soddisfazione di Thomas, c’era ancora; e sulla carta intestata dell’Hotel des Bains egli cominciò a scrivere un articolo sulla rappresentazione del 1909 del Parsifal, che aveva promesso al giornale viennese «Merkur». Disputa con Wagner (Auseinandersetzung mit Wagner) era il titolo. In proposito egli disse a Ernst Bertram: «Edificare templi al proprio lavoro, pensavo amaramente, è qualcosa che solo una natura barbarica e semi-cieca può fare».
Intanto, sulla spiaggia e nei lussuosi saloni dell’Hotel des Bains, era l’immagine del bellissimo tredicenne polacco che continuava a esercitare uno strano fascino su Thomas. Lo riportava indietro a stati d’animo e amori della sua giovinezza, a Tonio Kröger, a Lubecca e Travemünde, con l’orchestrina sulla spiaggia. L’intero edificio dell’opera romantica tedesca cominciava a cedere. «Credo di poter dire», scrisse nel suo articolo «che la stella di Wagner nel firmamento della cultura tedesca stia per tramontare».
Ma se questo era vero, «Tadzio», il ragazzo polacco, pareva non accorgersene. La sua stella splendeva sul Lido, sull’Hotel e la spiaggia privata, sulle sedie a sdraio e le cabine, sul lieve sciaquio del mare. Sulla sabbia correva a piedi nudi con il suo costume da bagno a righe, nel salone presiedeva i pasti con la sua bellezza prepotente e gli occhi azzurri come l’acqua.
Una sera apparve nel recinto dell’albergo un «osceno» cantante napoletano dal volto subdolo e giallastro. La gente cominciò ad abbandonare l’albergo e si sentì dire che in città c’era il colera. Dopo che «Tadzio» fu partito, anche Thomas e Katja andarono a fare le prenotazioni per il ritorno in vagone letto, ma l’impiegato dell’agenzia Cook diede loro il consiglio di non trattenersi per un’altra settimana come avevano intenzione di fare, e, dato che si era verificato un numero impressionante di casi di colera, tenuto segreto dalle autorità, di partire l’indomani.
Senza «Tadzio» non c’era un motivo per restare. Fecero le valigie: era l’ultima volta che avrebbero visto Venezia prima della guerra; eppure il volto della città – il calore afoso dello scirocco, la bellezza di uno stato marinaro un tempo potente, ridotto a nascondere la malattia che avrebbe potuto rovinare la stagione turistica, il fasto e il sentore di morte – non fu dimenticato. Terminato il saggio su Wagner, Thomas cominciò a lavorare a quella cosa «immaginata come improvvisazione da sbrigare in fretta e da inserire nel lavoro del romanzo di Krull, come una storia che per soggetto e mole doveva essere adatta al ‹Simplicissimus›».
Ma l’improvvisazione non doveva essere terminata tanto rapidamente. «Io sono al lavoro», scrisse Thomas a Philipp Witkop il 18 luglio del 1911. «Una cosa parecchio singolare, che mi sono portata da Venezia, una novella, di tono puro e severo, che tratta di un caso di pederastia in un artista senescente».
Era in verità una storia sconcertante e depravata, per l’uomo che recentemente aveva criticato il dott. Lessing per la sua dissolutezza. La verità, come rifletteva Thomas più avanti, era che:

In verità ogni lavoro è un’attuazione frammentaria bensì, ma in sé conchiusa del nostro essere; e questa attuazione è l’unica faticosa via per fare esperienze di questo essere…
Anche nella Morte a Venezia non vi è nulla di inventato: il viaggiatore nel cimitero di Monaco, la tetra nave polesana, il vecchio bellimbusto, il gondoliere sospetto, Tadzio e i suoi, la partenza fallita per lo scambio dei bagagli, il colera, l’onesto impiegato dell’ufficio viaggi, il maligno saltimbanco, o che so io, tutto era vero e bastava metterlo a posto perché rivelasse in modo stupefacente la facoltà interpretativa della composizione…

Ma questa volta sentiva di aver trovato il filone giusto:

Durante il lavoro (lento come al solito) avevo in certi momenti la visione di una via tracciata, di un aiuto sovrano che non avevo mai provato.

Nella figura del protagonista, Gustav von Aschenbach, egli trasfuse il profilo, le caratteristiche fisiche di Mahler; ma suoi erano l’anima, la coscienza, lo spirito.
Gli ci volle quasi un anno per completarlo. Katja non stava bene, e in settembre andò con i bambini a Sils Maria. Thomas restò a Balz Tölz, e alla sera leggeva agli amici – e a Heinrich quando veniva a trovarlo – brani del racconto che si andava sviluppando.
Per «i lettori tedeschi che in fondo prestano attenzione soltanto alle cose serie e gravi e non alle leggere» scrisse Thomas dopo la pubblicazione, «La morte a Venezia, nonostante la materia piuttosto sospetta, provocò una certa riabilitazione morale dell’autore di Altezza reale».
L’elemento omosessuale dimostrò di non essere un ostacolo; non fece che arricchire lo strano e potente simbolismo della favola. In un’Europa che aveva raggiunto il culmine della civiltà e della cultura, il tema della fatale attrazione che un uomo celebre e che sta invecchiando prova per un ragazzo ebbe grande risonanza nel mondo letterario:

Verrà un giorno in cui un maestro, un cultore della bella forma, esempio per la gioventù e voce del suo popolo, siederà annientato sul bordo di un pozzo coperto di vegetazione nel centro di quel campiello in rovina di Venezia inondato dal tiepido efflusso della cartolina nella città appestata, a mormorare con labbra imbellettate belle parole corrotte al ragazzo che desidera.
Quell’uomo ha sprecato ciò che più di tutto gli appariva desiderabile: una vecchiaia fruttuosa, la ricerca dell’arte nel periodo finale della vita, in saggezza e perfezione. Mai più egli scriverà; non sarà sulla torre di guardia della tarda età da cui è dato all’uomo abbracciare per la prima volta veramente il proprio lavoro e la propria vita, - e in cui si raggiunge la freddezza. I suoi anni saranno diminuiti, le sue ultime ore sconvolte e rese magiche dall’urgere inconsulto dei sentimenti. E così quelle ore diverranno finalmente umane, lo libereranno ancora una volta insperatamente, tramite l’amore, un amore muto, inappagabile, dalla sua austera solitudine e gli ultimi battiti del suo cuore lo faranno palpitare come se fossero i primi. Dovrebbe pentirsene? Non se lo chiede nemmeno. Intorno a lui la città è infetta, e da quella cortigiana che è, lo dissimula per avidità di denaro. Essa è bellezza, una bellezza che ammalia e uccide. Da lontano, con visioni di sogno ed enigmatici messaggeri in vaghe maschere di morte, essa ha attirato a sé un essere che era maturo per morire nel suo seno. L’afa dolce e sospetta dell’aria, i colori radiosi della sua decomposizione, la sua depravazione sensuale: questa è identità, destino fraterno. L’anima di un uomo confonde i suoi ultimi, vividi istanti con quelli del mondo che lo circonda; e dal gioco congiunto di desiderio e timore sorgono eventi di grande profondità e significato, di silenzi riempiti tuttavia da mille voci: le voci delle procellarie, della peste, voci di calda umanità e voci di grandezza e di rovina. Esse echeggiano attraverso una città e il cuore di un uomo: echeggiano e si spengono nella Morte a Venezia.

Heinrich era stato presente, era stato testimone di quello strano sentimento, conosceva la bellezza corrotta della città un tempo potente, aveva osservato i primi brancolamenti di Thomas verso la forma e la favola sinistra, ne aveva visto – forse anche meglio di lui, in quanto si trovava al difuori – il significato storico. Fu nel primo numero del 1913 della rivista «März» che uscì questa sua recensione, forse la più toccante che il racconto abbia mai avuto.
Intanto le voci che correvano in Germania non parlavano di epidemia, ma del riconoscimento più ambito del mondo letterario: il Premio Nobel per la letteratura.

Nigel Hamilton, I fratelli Mann, trad. it. di Elena Grechi, Garzanti 1983, pp. 198-202.





Nessun commento: