I Pringsheim
erano stati buoni conoscitori di Mahler e Thomas lo aveva incontrato alcuni
anni prima, a un tè dato in suo onore alla Franz Joseph Strasse. L’estate
precedente Mahler era tornato a Monaco per dirigervi la sua Ottava Sinfonia.
Mahler non era affatto popolare nell’ambiente musicale, e quando mandò a
chiedere al direttore artistico certi piccoli strumenti poco comuni, di cui
aveva bisogno per la sinfonia, questi gli restituì la missiva comunicandogli
che purtroppo quella sera aveva bisogno lui stesso di quegli strumenti.
«Porti
i miei rispettosi saluti al direttore artistico», aveva replicato Mahler, «e
gli dica che in un modo o nell’altro eseguirò lo stesso la mia sinfonia». Quanto
a Thomas, non aveva il minimo dubbio sul genio di Mahler. A Katja confessò che
per la prima volta aveva avuto l’impressione di incontrare un uomo veramente
grande - «intenso in modo divorante» - come lo definì più tardi.
Il
gruppetto dei Mann partì per Venezia la terza settimana del maggio 1911. Era la
prima volta che vi giungevano dalla parte del mare – abitualmente vi si
recavano in treno – e a bordo c’era una vecchia «checca» orrendamente imbellettata
e circondata da un vivace stuolo di allegri giovanotti. Al molo cercarono
qualcuno che li portasse al Lido. Immediatamente si presentò un gondoliere; ma
erano appena arrivati al Lido quando qualcuno li avvisò che quel gondoliere non
aveva la licenza per il tratto Venezia-Lido. Era una fortuna che non fosse
successo niente, aggiunse.
Era
uno strano inizio. Un facchino portò i loro bagagli all’Hotel des Bains e a
tavola, il primo giorno, notarono un’interessante famiglia polacca – le ragazzine
vestite in modo piuttosto austero, e accanto a loro un ragazzo tredicenne di straordinaria
bellezza, vestito di blu, alla marinara. Il ragazzo affascinò Thomas – quella sua
serenità, la testa greca, i movimenti misurati e sciolti, la grazia delicata. Sulla
spiaggia Thomas si trovò a studiare il ragazzo, il modo in cui giocava con gli
amici, l’inconsapevolezza assoluta con cui portava la sua bellezza – pur essendo
allo stesso tempo conscio!
Ma Heinrich,
forse perché si annoiava sulla spiaggia, o perché sentiva il disagio del caldo
afoso, ben presto implorò che si trasferissero in montagna dove avrebbe fatto
più fresco e avrebbero potuto fare lunghe passeggiate. E così, a malincuore,
Thomas e Katja acconsentirono.
Ma a
Bolzano la villa che volevano loro era occupata da una coppia di inglesi, e l’hotel
non aveva comodità moderne. Trionfanti tornarono quindi a Venezia e al Lido. La
famiglia polacca, con grande soddisfazione di Thomas, c’era ancora; e sulla
carta intestata dell’Hotel des Bains egli cominciò a scrivere un articolo sulla
rappresentazione del 1909 del Parsifal,
che aveva promesso al giornale viennese «Merkur». Disputa con Wagner (Auseinandersetzung mit Wagner) era il titolo. In
proposito egli disse a Ernst Bertram: «Edificare templi al proprio lavoro,
pensavo amaramente, è qualcosa che solo una natura barbarica e semi-cieca può
fare».
Intanto,
sulla spiaggia e nei lussuosi saloni dell’Hotel des Bains, era l’immagine del
bellissimo tredicenne polacco che continuava a esercitare uno strano fascino su
Thomas. Lo riportava indietro a stati d’animo e amori della sua giovinezza, a Tonio Kröger, a Lubecca e Travemünde,
con l’orchestrina sulla spiaggia. L’intero edificio dell’opera romantica
tedesca cominciava a cedere. «Credo di poter dire», scrisse nel suo articolo «che
la stella di Wagner nel firmamento della cultura tedesca stia per tramontare».
Ma se
questo era vero, «Tadzio», il ragazzo polacco, pareva non accorgersene. La sua
stella splendeva sul Lido, sull’Hotel e la spiaggia privata, sulle sedie a
sdraio e le cabine, sul lieve sciaquio del mare. Sulla sabbia correva a piedi
nudi con il suo costume da bagno a righe, nel salone presiedeva i pasti con la
sua bellezza prepotente e gli occhi azzurri come l’acqua.
Una
sera apparve nel recinto dell’albergo un «osceno» cantante napoletano dal volto
subdolo e giallastro. La gente cominciò ad abbandonare l’albergo e si sentì
dire che in città c’era il colera. Dopo che «Tadzio» fu partito, anche Thomas e
Katja andarono a fare le prenotazioni per il ritorno in vagone letto, ma l’impiegato
dell’agenzia Cook diede loro il consiglio di non trattenersi per un’altra
settimana come avevano intenzione di fare, e, dato che si era verificato un
numero impressionante di casi di colera, tenuto segreto dalle autorità, di
partire l’indomani.
Senza
«Tadzio» non c’era un motivo per restare. Fecero le valigie: era l’ultima volta
che avrebbero visto Venezia prima della guerra; eppure il volto della città –
il calore afoso dello scirocco, la bellezza di uno stato marinaro un tempo
potente, ridotto a nascondere la malattia che avrebbe potuto rovinare la
stagione turistica, il fasto e il sentore di morte – non fu dimenticato. Terminato
il saggio su Wagner, Thomas cominciò a lavorare a quella cosa «immaginata come
improvvisazione da sbrigare in fretta e da inserire nel lavoro del romanzo di
Krull, come una storia che per soggetto e mole doveva essere adatta al ‹Simplicissimus›».
Ma l’improvvisazione
non doveva essere terminata tanto rapidamente. «Io sono al lavoro», scrisse
Thomas a Philipp Witkop il 18 luglio del 1911. «Una cosa parecchio singolare,
che mi sono portata da Venezia, una novella, di tono puro e severo, che tratta
di un caso di pederastia in un artista senescente».
Era
in verità una storia sconcertante e depravata, per l’uomo che recentemente
aveva criticato il dott. Lessing per la sua dissolutezza. La verità, come
rifletteva Thomas più avanti, era che:
In
verità ogni lavoro è un’attuazione frammentaria bensì, ma in sé conchiusa del
nostro essere; e questa attuazione è l’unica faticosa via per fare esperienze
di questo essere…
Anche
nella Morte a Venezia non vi è nulla
di inventato: il viaggiatore nel cimitero di Monaco, la tetra nave polesana, il
vecchio bellimbusto, il gondoliere sospetto, Tadzio e i suoi, la partenza
fallita per lo scambio dei bagagli, il colera, l’onesto impiegato dell’ufficio
viaggi, il maligno saltimbanco, o che so io, tutto era vero e bastava metterlo
a posto perché rivelasse in modo stupefacente la facoltà interpretativa della
composizione…
Ma
questa volta sentiva di aver trovato il filone giusto:
Durante
il lavoro (lento come al solito) avevo in certi momenti la visione di una via
tracciata, di un aiuto sovrano che non avevo mai provato.
Nella
figura del protagonista, Gustav von Aschenbach, egli trasfuse il profilo, le
caratteristiche fisiche di Mahler; ma suoi erano l’anima, la coscienza, lo
spirito.
Gli
ci volle quasi un anno per completarlo. Katja non stava bene, e in settembre
andò con i bambini a Sils Maria. Thomas restò a Balz Tölz, e alla sera leggeva
agli amici – e a Heinrich quando veniva a trovarlo – brani del racconto che si
andava sviluppando.
Per
«i lettori tedeschi che in fondo prestano attenzione soltanto alle cose serie e
gravi e non alle leggere» scrisse Thomas dopo la pubblicazione, «La morte a Venezia, nonostante la
materia piuttosto sospetta, provocò una certa riabilitazione morale dell’autore
di Altezza reale».
L’elemento
omosessuale dimostrò di non essere un ostacolo; non fece che arricchire lo
strano e potente simbolismo della favola. In un’Europa che aveva raggiunto il
culmine della civiltà e della cultura, il tema della fatale attrazione che un
uomo celebre e che sta invecchiando prova per un ragazzo ebbe grande risonanza
nel mondo letterario:
Verrà
un giorno in cui un maestro, un cultore della bella forma, esempio per la
gioventù e voce del suo popolo, siederà annientato sul bordo di un pozzo
coperto di vegetazione nel centro di quel campiello in rovina di Venezia
inondato dal tiepido efflusso della cartolina nella città appestata, a
mormorare con labbra imbellettate belle parole corrotte al ragazzo che
desidera.
Quell’uomo
ha sprecato ciò che più di tutto gli appariva desiderabile: una vecchiaia
fruttuosa, la ricerca dell’arte nel periodo finale della vita, in saggezza e perfezione.
Mai più egli scriverà; non sarà sulla torre di guardia della tarda età da cui è
dato all’uomo abbracciare per la prima volta veramente il proprio lavoro e la
propria vita, - e in cui si raggiunge la freddezza. I suoi anni saranno
diminuiti, le sue ultime ore sconvolte e rese magiche dall’urgere inconsulto dei
sentimenti. E così quelle ore diverranno finalmente umane, lo libereranno
ancora una volta insperatamente, tramite l’amore, un amore muto, inappagabile,
dalla sua austera solitudine e gli ultimi battiti del suo cuore lo faranno
palpitare come se fossero i primi. Dovrebbe pentirsene? Non se lo chiede
nemmeno. Intorno a lui la città è infetta, e da quella cortigiana che è, lo
dissimula per avidità di denaro. Essa è bellezza, una bellezza che ammalia e
uccide. Da lontano, con visioni di sogno ed enigmatici messaggeri in vaghe
maschere di morte, essa ha attirato a sé un essere che era maturo per morire
nel suo seno. L’afa dolce e sospetta dell’aria, i colori radiosi della sua
decomposizione, la sua depravazione sensuale: questa è identità, destino
fraterno. L’anima di un uomo confonde i suoi ultimi, vividi istanti con quelli
del mondo che lo circonda; e dal gioco congiunto di desiderio e timore sorgono
eventi di grande profondità e significato, di silenzi riempiti tuttavia da
mille voci: le voci delle procellarie, della peste, voci di calda umanità e
voci di grandezza e di rovina. Esse echeggiano attraverso una città e il cuore
di un uomo: echeggiano e si spengono nella Morte a Venezia.
Heinrich
era stato presente, era stato testimone di quello strano sentimento, conosceva
la bellezza corrotta della città un tempo potente, aveva osservato i primi
brancolamenti di Thomas verso la forma e la favola sinistra, ne aveva visto –
forse anche meglio di lui, in quanto si trovava al difuori – il significato
storico. Fu nel primo numero del 1913 della rivista «März» che uscì questa sua
recensione, forse la più toccante che il racconto abbia mai avuto.
Intanto
le voci che correvano in Germania non parlavano di epidemia, ma del
riconoscimento più ambito del mondo letterario: il Premio Nobel per la
letteratura.
Nigel Hamilton, I
fratelli Mann, trad. it. di Elena Grechi, Garzanti 1983, pp. 198-202.
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