venerdì 23 dicembre 2011

SUL SILENZIO E SULLE PAROLE. Splendori e miserie del canone occidentale da Gérard Genette a Harold Bloom



Splendori e miserie del canone occidentale da Gérard Genette a Harold Bloom (in fieri)

[Pierre Klossowski] (18 dicembre 2008)

[Il romanzo sperimentale] (in Poesia italiana, 19 ottobre 2009)

Thomas Bernhard, I miei premi (in Poesia italiana, 2 gennaio 2010)

[Virgilio] (31 gennaio 2011)

[Giovanni Pascoli] (in http://www.lascuolachefunziona.it 8 febbraio 2011)

Luigi Settembrini, I Neoplatonici (in http://sandrodefazi.blogspot.com 18 marzo 2011)

Franz Krauspenhaar, 1975. Nonostante Pasolini, e purché Buzzanca non lo sappia, al liceale piacciono le donne (in Poesia italiana, 20 aprile 2011)

Luca Canali, Gli ultimi giorni di Giulio Cesare (in http://www.filosofiprecari.it 8 luglio 2011)

Mario Praz, La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica (inhttp://www.filosofiprecari.it 21 luglio 2011)

[Critica del testo] (17 settembre 2011)

[Giacomo Leopardi] (in http://sandrodefazi.blogspot.com 2 ottobre 2011)

[Alessandro Manzoni] (in http://sandrodefazi.blogspot.com 2 ottobre 2011)

Leonardo Sciascia, L'affaire Moro (in http://sandrodefazi.blogspot.com 30 ottobre 2011)

Fulvio Abbate, Pier Paolo Pasolini raccontato ai ragazzi (per il Il Futurista, col titolo Da Gennariello al Cavaliere, 18 novembre 2011)

Lord Alfred Douglas, Oscar Wilde and Myself /1 (in http://sandrodefazi.blogspot.com 17 dicembre 2011)

[L'imprevedibile Hitch] (in http://sandrodefazi.blogspot.com 18 dicembre 2011)

[Antiromanzo] (8 gennaio 2012)


Hermann Broch, La morte di Virgilio (14 gennaio 2012)


Dacia Maraini, La grande festa (per l'Estroverso, in www.lestroverso.it, marzo-aprile 2012)

                                                                                   
                                                                       

domenica 18 dicembre 2011

L'imprevedibile Hitch




18 dicembre 2011. La Domenica del Sole 24 Ore: un articolo di Christian Rocca su Christopher Hitchens detto Hitch (mai Chris), che è venuto a mancare il 15 scorso. 
Intimo di Susan Sontag, implicato con Martin Amis in un'amicizia ai limiti del coinvolgimento omoerotico, al punto che, dice Rocca, quando "ha avuto una storia con la sorella di Martin, tutti sapevano che la povera ragazza non era l'Amis che Hitch voleva veramente", considerato da Gore Vidal suo pupillo, Hitchens era un intellettuale imprevedibile a destra come a sinistra, dietro le apparenze - per formazione, per frequentazioni - di un comunista anomalo. 
Una voce alta. Influente. Che dall'11 settembre si era levata contro l'errore della sinistra quando sottovaluta il fondamentalismo islamico pur di fare la guerra all'Occidente. Soprattutto era un colto critico letterario. Ci dispiace molto per Hitch.

martedì 13 dicembre 2011

Nuages 2 (Variante)



Qualcuno ha detto che il mio blog è troppo letterario, che c’è troppa cultura, troppo pensiero. Che non passa la vita quotidiana, con la sua banalità ma anche con la sua vitalità, ripetitività, con persone e situazioni. Qualcun altro mi fa notare che sono fiabesco. Allora ho cambiato progetto e parlo delle nuvole. Ma un problema si pone, subito: il mio anti-blog non è un diario, quindi i nomi delle persone sono di fantasia. È vero che chi pensa troppo non corre alcun rischio, gli avvenimenti di tutti i giorni possono essere banali o ordinari o significativi, non gli succede niente di male, nemmeno a stare nella vita e postarla nel blog senza filtrarla. Viceversa, non è neppure vero che io penso troppo. Io non penso affatto. Al posto mio pensano i libri, i film, dentro di me c’è il vuoto.
Di che stiamo parlando? Della musica assoluta. Passo ore a fissare un libro senza capire che cosa stia dicendo, oppure me ne sto sdraiato su un letto a fissare il soffitto. Se parlo con qualcuno, non lo capisco, devo fare uno sforzo. Se ne vale la pena, lo faccio, altrimenti mi comporto a talento, secondo l’umore. Se scrivo, soltanto in un secondo momento, in un terzo, cerco di riordinare il discorso, di restituire un minimo di senso logico. Dunque, penso pochissimo. Tutt’al più ripenso, a una scenetta cui ho assistito stamattina, uscendo presto di casa. Pioveva. Tempo grigio, da lunedì mattina anche se è martedì e adesso c’è il sole, mentre mi avvicino alla macchina stentando a entrare, con la scusa di finire una Marlboro, due ragazze si accapigliano accanto a me per un libro di Baricco.
L’una: “Che lo leggi a fare?”
L’altra: “Fatti i fatti tuoi!”
Percepisco chiaramente queste parole che si scambiano tra loro, sono incuriosito, intervengo per dire:
“Perché no? Non è peggiore di tanti altri.”
Dove pensate di trovarmi, non ci sono. Hanno bussato alla porta, un uomo che non conosco mi guarda e mi parla dell’acqua, devo aprire il rubinetto dell’acqua per cinque minuti, ne uscirà pochissima. Lo faccio. Di acqua, ne esce un filo sottile, quasi nulla. La prospettiva mi rallegra, anche mi rasserena: per essere uno che non pensa, sono successe tante cose già da stamattina, e resta ancora una lunga giornata fino a notte fonda, con due piedi in una scarpa contemporaneamente. Una delle tante volte che sono andato in Sicilia, per esempio, sono ripartito dopo venti giorni di avventure per arrivare in Francia invece che a New York, in un'altra storia. Ora mi citofonano e mi avvisano che l’acqua posso chiuderla. Lo faccio. (“Una nuvola si mette d’accordo con l’altra”.) 

giovedì 8 dicembre 2011

Hergesell



Per strada, qui al Sud, è impossibile non parlare con nessuno.
Sotto casa è il caos. Come in città, anche se io abito a pochi passi dal Centro storico. Il disordine della vitalità.
Mi fermo a salutare Giovanni, il giovane fruttivendolo molto colto al quale ho regalato tempo fa una mia autobiografia per interposta persona, come l’ha definita Antonio Veneziani. Un pullulare di relazioni incrociate.
Vedo da lontano Hergesell.
Procede lentamente nella mia direzione.
Voglio parlargli.
Intanto Giovanni mi informa che con l’anno nuovo chiuderà bottega, la crisi economica conosce accenti da primo dopoguerra e lui non può più permettersi questa attività.
Lo assecondo nel suo allarmismo.
Gli preannuncio che, vedrà, tra poco le uova costeranno 6.000 euro e una birra 8.000, come ai tempi di Weimar, quando il cinquantenne dottor Cornelius, il Mago, padre di Klaus, se ne stava impassibile nel suo studio a occuparsi di storia.
Si intromette uno che non conosco, avrà a occhio e croce una sessantina d’anni, si presenta come il marito di una farmacista.
A quel che ne capisce, afferma, quello che è successo è stato tutto per colpa di Berlusconi, che ci ha illuso.
Hergesell mi è passato vicino, nel frattempo e mi ha salutato, lo vorrei fermare ma la discussione con i due mi impiccia, ormai sono lì. Bisognerebbe restare inflessibili e coriacei come Cornelius alla notizia del suicidio del figlio, ma come si fa? Forse lo sa Hergesell, o Giovanni stesso. Devo continuare a parlare, qualcosa mi trattiene. Tanto Hergesell è già andato oltre.
Giovanni non è mai stato di sinistra, essendo molto giovane, a ventotto anni non ne ha avuto il tempo, con la sua faccia gioviale, una barbetta rossiccia e gli occhi furbi, eppure è d’accordo con l’altro. Perché Hergesell e non Giovanni?
“Sì, ma ora che il suo governo non c’è più non s’indigna nessuno, come mai? Le cose non vanno meglio!” dico.
“Peggio! Vanno peggio!” fa lui.
Io penso alle illusioni leopardiane ma me ne sto zitto.
Lascio anche da parte il mio ateismo trascendentale e il fatto che sono stato definito un passatista di destra, perché non c’entra niente, la giornata è ancora lunga, non mi capirebbero.  
Giovanni lo sa.
(Hergesell è ancora nei paraggi, potrò raggiungerlo presto…)

mercoledì 7 dicembre 2011

Il caffè (s)elettivo



Alla vigilia di un lungo ponte (venerdì a parte, ma subito dopo sarà di nuovo sabato) passo il pomeriggio a casa di Silvana, che sta meglio dopo un’influenza ma non al punto di volersi ancora avventurare con me domani agli scavi di Pompei, come si era stabilito. Trovo da lei Teresa e Valerio, due personaggi degni di Balzac, li descriverei se avessi una vena realistica a rappresentare due tipici intellettualini provinciali, tutti chic; nell’hinterland napoletano invece la cultura è vissuta con un maggiore senso dell’umano che non in questa piccola e altezzosa città regia. Rassicuro Silvana dicendole di non preoccuparsi affatto, che andarsene in giro l’8 dicembre non era proprio il caso, meglio così e semmai rimandiamo a un’altra volta; nel frattempo mi chiama sul cellulare Gennaro, mi propone di pranzare insieme domani ma gli rispondo di no, Gennaro mi tempesta di telefonate e mi citofona per settimane, poi scompare per mesi e adesso non va a me di vederlo.
Beviamo tutt’e quattro un caffè in cucina. Silvana non guarda la tivù, non si connette a internet, non legge i giornali, solo libri. Qualche notizia del mondo gliela do io, filtrata dal mio giudizio però, lei ne diffida. Mi critica l’uso che faccio di Facebook, dal momento che la tengo aggiornata anche su quello che succede in rete. Secondo lei, tutto accade nella mia testa, senza riscontro plausibile con la realtà. Le faccio notare che il riscontro c’è, quando c’è, e che non ho mai avuto nessun interesse per i mondi paralleli:
“Probabilmente vuoi dire che non c’è quando non c’è, ah ah ah!”
Ride anche lei.
Aggiunge che io non sono affatto minimalista. Mah.
Teresa e Silvana vanno in camera da letto e io non so che cosa dire a Valerio che resta, non solo a Valerio che non mi è del tutto antipatico ma a nessuno, quello che ho da dire lo scrivo. Sto pensando, da giorni, che la vera ambientazione dei romanzi di Moravia è francese ma non glielo dico. Mi alzo e vado nel soggiorno, aspetto che le altre due finiscano di parlottare.
Valerio è rimasto da solo in cucina. Quando è in compagnia di una donna Silvana tira fuori il suo vetero-femminismo più aggressivo, esclusivo, manicheo, semplicistico, riduttivo, per lei il mondo è diviso in maschi e femmine e stronzi sarebbero soltanto gli uni, buone le altre, indiscriminatamente. Entrano Silvana e Teresa, hanno smesso di parlare, Valerio ci raggiunge e io vado in cucina. Sembriamo le affinità elettive che non vogliono accordarsi, reimpostarsi. Io, Teresa e Valerio non siamo affini per niente, infatti.
Bevo un’altra goccia di caffè che avevo lasciato nella tazzina, telefono a Gennaro:
“Ho cambiato idea, senti Gennaro. Ho un impegno a pranzo per domani ma se vuoi, nel pomeriggio passami a prendere.”


lunedì 5 dicembre 2011

Introduzione alla Geografia umana


1. Non esistono i “selvaggi”
L’oggetto principale della geografia umana è il rapporto tra paesaggio e l’intervento dell’uomo: i campi, i villaggi, le città, i paesaggi industriali, le strade, le ferrovie, i canali. È necessario quindi studiare le relazioni con l’uomo suggerite dal paesaggio.
L’uomo, creatore di paesaggi, appartiene a una determinata civiltà e quindi egli dispone di un insieme di tecniche di organizzazione dello spazio, che però variano secondo i luoghi e i tempi storici. Allora l’esistenza di un gruppo umano richiede una regolamentazione, esso è il risultato delle scelte operate nell’intervento sul paesaggio. Questo insieme di legami e di tecniche costituisce la civiltà: ogni gruppo umano si avvale di tecniche che fanno dei suoi membri altrettanti uomini civili. E non esistono i “selvaggi”. Ogni gruppo umano ha le sue regole, diverse le une dalle altre, ma non per questo alcuni hanno il diritto di considerarsi superiori ad altri: parliamo semplicemente, in senso antropologico, di culture differenti.
L’animale uomo ha bisogno, in quanto animale, di nutrimento ed è questo il solo bisogno veramente fondamentale. Il vestirsi e avere una casa sono assai più legati alla civiltà che alla necessità naturale, ma a questa esigenza animale l’essere umano risponde con una grande varietà di tecniche di produzione, di condizionamenti ambientali e di cucina, che sono tutti e integralmente il risultato dell’inventiva dell’uomo nell’ambito di ciascuna civiltà.

(sintesi da Pierre Gourou)

giovedì 17 novembre 2011

Da Gennariello al Cavaliere: Fulvio Abbate e Pasolini




Pasolini fu un grande inattuale in senso nietzscheano, come Anna Maria Ortese, come Proust, dotato di capacità anticipatrici a costo di una sfasatura irreversibile col proprio tempo, vera «pietra dello scandalo per la destra come per la sinistra», ha scritto Giacomo Marramao. La scrittura di Fulvio Abbate è scorrevole, e questo è un pregio per la forma del “trattatello” pedagogico à la Gennariello che lo insegue fin dal titolo di questo libro ideologico, anche se attraversato da momenti di lirismo, che è Pier Paolo Pasolini raccontato ai ragazzi, dove Berlusconi è ossessivamente presente dalle prime righe fino almeno a una buona metà e oltre, come se l’argomento annunciato fosse tutt’altro. Fortunatamente, Abbate ci dà anche tranches de vie del mondo letterario romano gravitante intorno a Moravia. Ci sono commosse pagine su Laura Betti, istantanee su Sergio Citti, appare all’improvviso una Elsa Morante descritta «con quel foulard sulla testa che le dava un’aria da vecchia cui hanno strappato la pensione appena ritirata», Dario Bellezza che pretendeva per i poeti uno stipendio, essendo un lavoro la sua vita – io lo interpreto così – e dunque al poeta va retribuito il vivere. Anche di Dario, però, viene ricostruita soltanto la prima interpretazione dettata sulla tragedia notturna di Ostia in Morte di Pasolini (1981), che non piacque a Nico Naldini; non c’è riferimento alla seconda e definitiva, contenuta ne Il poeta assassinato (1996) dove Bellezza rivedeva in extremis la sua posizione precedente. Giustamente, viene citata in proposito Franca Leosini quando nel suo programma intervistò Pino Pelosi, nel 2005, costruendo un intrigo romanzesco degno di Patricia Cornwell. Ma è quantomeno bizzarro far coincidere l’apocalisse col berlusconismo e l’antiberlusconismo tout court: nonostante la sua disorganicità strutturale, Pasolini in vita era attaccato più dalla destra che dalla sinistra di allora e una critica al presente deve segnare il passo della distanza dalla dicotomia che esisteva all’epoca di Passione e ideologia («principe del “politicamente scorretto”» lo definisce Nichi Vendola nella prefazione), e che lui già demoliva con la bipolarità del suo pensiero. Nessuno può sapere ciò che Pasolini avrebbe detto dell’Italia di oggi.

Sandro De Fazi per Il Futurista, 18 novembre 2011

domenica 30 ottobre 2011

L’espulsione dei dissidenti dal territorio sovietico



Moro aveva scritto: «Ritornando un momento indietro sul comportamento degli Stati, ricorderò gli scambi tra Brežnev e Pinochet, i molteplici scambi di spie, l’espulsione dei dissidenti dal territorio sovietico». Insinua Sciascia che “se Moro avesse scritto soltanto questa”, quel richiamarsi a sistemi politici autoritari nella prima lettera a Cossiga sarebbe stato l’equivalente di un incoraggiamento a non dar luogo alla trattativa, sia pur contraddetto da quanto scritto à la lettre. Dava e prendeva tempo, anche con frasi sibilline, illogiche, esoteriche come: «Penso che un preventivo passo della Santa Sede (o anche di altri? chi?) potrebbe essere utile». Mi ha sempre colpito l’ossessivo riferimento alle gravi difficoltà della famiglia, ricorrente nell'intero corpus epistolare. La famiglia Moro era tutt’altro che bisognosa; la parola “famiglia” usata con tale frequenza e drammaticità è un altro punto oscuro dell’affaire. Sciascia afferma che il vero messaggio da leggersi, almeno ed esclusivamente in quella prima lettera, è: «lo scambio, il sottostare al ricatto, è l’estrema linea da toccare; intanto prendete tempo, trattate in lungo – e trovatemi». Solo i socialisti osarono rompere il fronte statolatrico.