Umile e ingrata fu,
all’inizio, l’attività pratica cui si dedicò Quinto Orazio Flacco, appena
arrivato a Roma. Più tardi si sarebbe rifiutato di fare il segretario del
principe, che scherzosamente lo soprannominava “membro purissimo”, purissimum penem, secondo quanto
racconta Svetonio, o tutt’al più “lepidissimo ometto”, homuncionem lepidissimum. Era un ometto ridicolo, piccolo e obeso.
Di modesta estrazione sociale, faceva lo scriba
quaestorius per sopravvivere. E nient’altro sembrava avere importanza attraverso
quell’impiego nell’amministrazione del fisco, ottenuto dietro l’interessamento di
Asinio Pollione: un lavoro come ogni altro, del resto, e lontano dalla
letteratura. Nemmeno aveva abbandonato quest’ultima, dopo essere stato ad
Atene, nonostante l’audax paupertas e,
si direbbe, proprio grazie a quella. Il futuro sarebbe stato illecito sapere - scire nefas! – e, proprio in questo
periodo, maturò la conversione definitiva all’epicureismo, rivissuto alla sua
maniera, del tutto personale, con influssi lucreziani (cfr. Sermones I, 3 ma anche I 2 e I 8).
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