1. Lenta ginestra. Saggio sull’ontologia di Giacomo Leopardi
(Mimesis,
2015) di Antonio Negri è un libro corposo dalle molteplici possibilità
interpretative, dichiarate e non, che ha già dato l’abbrivio a una varietà di
letture e silenziamenti evidenziati dallo stesso autore nella prefazione alla
seconda edizione.
Di fondamentale importanza è il nesso che viene a
stabilirsi tra il pensiero leopardiano, a partire dalla canzone All’Italia, e la cultura europea.
L’Italia non vi aveva più partecipato dall’età rinascimentale, dopo le angustie
del seicento e l’opera esteticamente futile, sia pure storicamente basilare per
i poeti successivi, del Marino e soprattutto dopo le vicende violentemente censorie
e repressive toccate a Galileo e Bruno. Tuttavia Negri salta - e si capiscono i
suoi motivi - per arrivare a Leopardi tutta la grandiosa esperienza di Parini
(tutto sommato organico all’aristocrazia italiana e all’Austria, a mio avviso,
ma coi risultati estetici che conosciamo) e del neoclassicismo italiano,
compreso Foscolo (poeta civile di destra). Alla base del fare poetico c’è la
memoria. Ma si capisce presto che tanto quella di Leopardi quanto quella di
Negri è una rivendicazione dell’essere e insieme una riorganizzazione del piano
della storicità individuale e dunque comune e politica. La demistificazione è
il lavoro della critica, che ha un tessuto etico, perché l’etica «è la forza che
controlla, e comunque organizza, le dimensioni ontologiche del tempo: tempo
della demistificazione; tempo del lavoro critico, tempo della verità» (p. 42).
Ma come si definisce la categoria del tempo in Leopardi?
In primo luogo, il tempo leopardiano è il tempo
della filologia classica. Una volta che il tempo storico si è fatto dimensione
critica, il passaggio dalla filologia alla filosofia è stato inevitabile,
esattamente con la Storia
dell’astronomia dalla sua origine fino all’anno 1811 e
la Dissertazione sopra l’origine e i primi progressi
dell’astronomia (entrambe del 1814). Più difficile è
seguire Negri quando accosta, per identità di temi - problema tutto da porre,
per sua stessa ammissione, - l’illuminismo leopardiano agli esiti teorici di
Francoforte, però almeno con un’obiezione che l’autore stesso previene
affermando che «la critica dei francofortesi riguarda la
“sussunzione reale” della società del capitale, quella di Leopardi solo la “sussunzione
formale”» (p.
45, n. 27). In secondo luogo, il tempo interiore, strutturalmente assunto,
rifluisce nell’oggettività dell’essere. Non è operazione nostalgica di recupero
del mito antico tramite l’idealizzazione. Il suo classicismo è antiromantico e,
nella posizione che prende durante la querelle,
garanzia contro l’inevitabile fallimento del romanticismo che pure si sarebbe
riverberato successivamente nello sperimentalismo inquieto ma strutturato del
Carducci barbaro.
Per la verità, questa contrapposizione tra classico
e romantico è un’insensatezza. Tanto il classicismo quanto il romanticismo sono
astrazioni dal momento che tanto la storia e la fantasia quanto la natura e il
sentimento sono presenti nella strutturale complessità della letteratura.
Leopardi ha la geniale originalità di riformulare i termini del dibattito: «Il concreto del fare
poetico vive positivamente non di queste alternative ma del congiungersi delle
polarità. “La natura non si palesa ma si nasconde” e solo la fantasia della
naturalezza e le forme storiche della convivenza sapranno rivelarla al poeta» (p.
79). E infatti la ripresa del mito antico deve risiedere, introiettata nel
tempo interiore attraverso la memoria, in nessun altro luogo che nel quotidiano
senza alcun movente dialettico nei rapporti con la storia contemporanea.
2. Andando avanti
nella lettura ci accorgiamo di una sovrapposizione di cui avevamo
precedentemente avuto il sospetto:
stiamo parlando di Leopardi o di Negri? Non c’è dubbio che esista nel
testo una consonanza tra i due autori, in specie per quanto riguarda la
dialettica prigione/liberazione (Recanati/fuga, prigione di Negri/libertà),
essendo legittima l’identificazione che rimanda a una nuova interpretazione. E questo
di Negri è proprio un Leopardi antidialettico. Il suo è storicamente il tempo
della dialettica, o che tra poco avrebbe scoperto la dialettica (idealistica).
Ponendosi al di là di essa, Leopardi rompe col proprio tempo rivendicando
l’ultimo orizzonte (interrotto dalla siepe de L’infinito) dell’essere, ma dell’essere pretende
le infinite possibilità nella finitudine e non nelle dimensioni rarefatte e
platoniche, astoriche, del mito delle Grazie
foscoliane
(lasciate però, non a caso, incompiute - finite ma non terminate, come scriveva
– dal poeta ben consapevole dell’impossibilità della poesia antica in epoca
contemporanea).
Ecco paradigmaticamente l’ambivalenza
di Negri, non in conseguenza di una qualche ambiguità del dire (le cose vanno
dette sempre in modo chiaro ma non necessariamente univoco) bensì in ragione di
una valenza pluralistica insita nell’argomentazione: «Ne viene una terza complementare caratteristica del pensiero di Leopardi. [...] Non è un
pensiero progressista perché non è un pensiero storicista. Luporini, Binni e
altri autori hanno spesso dimenticato, nel condurre un’orgogliosa e giusta
battaglia antiformalista, la rigidità del nesso fra storicismo e progressismo. [...]
Aggiungiamo che il nesso materialismo-catastrofe non può in nessun modo essere
interpretato in forma reazionaria: non perché il concetto di reazione sia, al
pari di quello di progresso, privo di senso in riferimento alla lirica
leopardiana ed ai suoi contenuti parziali - ma perché il nesso catastrofico
scoperto e organizzato dal materialismo si oppone ad ogni pratica restaurativa,
alla ripetizione del tempo storico, alla stereotipa resistenza del passato. La
catastrofe è contro la reazione» (pp. 93-94).
Insomma è come se
Leopardi pretendesse di essere un poeta greco all’interno della finitezza
spazio-temporale, quasi fin dentro le angosce del carcere recanatese e dal
carcere non solo tenta la fuga e in seguito effettivamente uscirà, ma nel
carcere vive l’esperienza della liberazione o, meglio, della libertà del tempo
interiore senza la minima tensione illusoria di carattere metastorico o
idealistico.
È ormai così oltre la crisi: la sua vicenda ora è
inserita nel destino comune. Questa svolta è databile nella lettera al Giordani
del 19 novembre 1819. Giacomo ha ventun anni. La consapevolezza che il tutto è
nulla non esclude la seconda natura, data dalle illusioni. La prima natura le
concede a tutti e in qualsiasi circostanza, ed è qui che si fonda il reale.
Leopardi elabora una critica antikantiana della
ragione, lontana anche da Rousseau se è vero che Rousseau ha aperto
all’idealismo. La funzione critica dell’illusione, prodotta dalla prima natura,
è contraria alla ragione. In altri termini, la ragione e non la natura, in questa
fase, è corruttrice delle lettere italiane – Negri legge: del costume italiano,
essendo le lettere espresse dal costume.
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