Jean-Paul Sartre rifiutò il Nobel nel 1964 perché altrimenti
avrebbe perso popolarità presso i giovani: «il premio non era mai stato attribuito a un comunista - è Simone de
Beauvoir ad affermarlo. - Se Sartre lo fosse stato, avrebbe potuto accettarlo,
poiché l’accademia svedese, con la sua decisione, avrebbe dato prova
d’imparzialità; ma non lo era, e dandogli il premio, non significava affatto
che si ammettevano le sue posizioni politiche, ma che le consideravano
trascurabili» (A conti fatti, Einaudi
1973, p. 43). Spiega che lei stessa incoraggiava il filosofo in tal senso,
mentre secondo la stampa Sartre aveva rinunciato al premio «perché Camus
l’aveva avuto prima di lui; oppure perché io ne sarei stata invidiosa» (p. 44).
Sorvolando il gossip e decenni di Nobel per la letteratura conferiti ora a
ragione ora a torto, quest’anno è toccato al cinese Mo Yan, autore del quale
non si è mai sentito parlare molto in Italia. Quasi per caso mi sono trovato
tra le mani questo suo piccolo libro: Cambiamenti
(nottetempo 2011, trad. it. di Patrizia Liberati), il più recente
pubblicato in italiano, un ritratto autobiografico dell’artista da giovane. Da
noi la civiltà cinese è conosciuta soprattutto dagli specialisti, per il resto
si può tutt’al più arrivare alle vicende della rivoluzione culturale maoista, -
che provocatoriamente Alberto Moravia (mai vincitore del Nobel, che andò invece
a Gide ma non a Sandro Penna) consigliava al movimento studentesco, - oppure a Cara Cina di Goffredo Parise (che se per
questo era tutt’altro che peggiore di Fo).
Diciamo subito che l’autore non è più giovanissimo, essendo
nato nel 1956, questa circostanza anagrafica giustifica il ritratto ma senza il
genio né il linguaggio di Joyce. Il protagonista è dapprima un bambino povero e
infelice, in seguito sarà un adolescente disadattato come da manuale. Ha due
aiutanti nel suo percorso di emancipazione: He Zhiwu, un anarchico ribelle che
straccia i libri di testo e scappa, o si fa cacciare, dalla scuola, e Li Wenli,
una simpatica figura di ragazza perdente. È interessante una certa critica che
di tanto in tanto tra le righe si evince nei confronti del regime: «Gli
elementi di destra che ci avevano mandato erano tutti intellettuali di alto livello»
(p. 23, a proposito dei figli dei membri dell’Azienda agricola di Jiaohe). Provando
poi a usare una categoria junghiana nel processo di individuazione che
attraversa questo racconto, c’è qualcosa che non torna. Non crediamo alle
autobiografie, esse sono per natura false, a meno che la propria esperienza non
venga calata in una struttura narrativa complessa che sia di per sé luogo istituito
dell’affabulazione. Appunto quella di Simone de Beauvoir, in quattro grossi volumi
einaudiani che vanno dal 1958 al 1971 (mi riferisco agli anni delle
pubblicazioni, ma come non includervi anche La
cerimonia degli addii del 1982, dedicata al resoconto della morte di Sartre?)
va oltre il genere.
Qual è allora l’arte di Mo Yan, che contribuisce al
benessere dell’umanità al punto di motivare il prestigioso riconoscimento
negato a tanti altri e ricusato da Sartre ma accettato da Camus? Da universitario
il giovane io narrante nutre ambizioni letterarie: «Mi abbonai alle riviste Letteratura del popolo e Arte e letteratura dell’Esercito Popolare di
liberazione e, a partire dal settembre del 1979, iniziai a studiare
Creazione letteraria. Scrissi Mamma,
un racconto breve, poi un’opera teatrale in sei atti intitolata Divorzio» (p. 62). Tenta dunque un riscatto attraverso la
letteratura. Ci riesce? Editorialmente non ancora: la rivista Arte e
letteratura gli restituisce Divorzio,
lui brucia i suoi manoscritti nella caldaia e così via, attraverso pagine abbastanza
confezionate e poco avvincenti. Ma come si fa a ignorare scrivendo i risultati
di Joyce? Va bene il processo di liberazione, da “uomo senza qualità” alle
“ambizioni sbagliate” moraviane, ma Joyce e Musil dove li ha messi l’accademia
svedese?
Sandro De Fazi per l’Estroverso, dicembre 2012
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