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William-Adolphe Bouguereau, Dante e Virgilio nell'Inferno, 1850 |
In vita gli si tributarono onori in una
misura sproporzionata alla ritrosia del suo carattere, che lo faceva riparare
nella prima casa che trovasse disponibile per evitare quelli che per strada lo
riconoscevano e pretendevano di congratularsi con lui. Se si recava a teatro,
la folla acclamante si alzava in piedi al suo ingresso, nello stesso atto di omaggio
solitamente destinato all’imperatore. La sua gloria crebbe dopo la morte tanto
presso il pubblico dei raffinati quanto presso il popolo, al punto che si
preferirono le sue opere negli ambienti intellettuali e nelle scuole per lo
studio della grammatica, della retorica e della filosofia nel momento in cui, presso
il popolino, era ritenuto nel Medioevo operatore di miracoli, indovino e
taumaturgo. Fu giudicato più grande di Aristotele. Dante sceglierà come guida
la poesia eroica, cioè i filosofemi e l’alta
tragedìa (Inf., XX, 112-114: «Eurìpilo
ebbe nome, e così ‘l canta / l’alta mia tragedìa in alcun loco: / ben lo sai tu
che la sai tutta quanta») e non il linguaggio razionale di Aristotele, perché
questi si era limitato a presentare la sua speculazione in una forma razionale
nota a Virgilio ma superata da Virgilio.
Dante
credeva alla profonda sapientia di
Virgilio non solo riguardo all’ars poetica, realtà indiscutibile, ma anche
nel campo della filosofia e di tutto lo scibile. Bernardo di Chartres cercava
di mostrare che nell’Eneide fosse
descritta in philosophicis la natura
della vita umana e quel che facesse o soffrisse la mens provvisoriamente reclusa nel corpo. Nel XII secolo anche
Giovanni di Salisbury affermava probabilisticamente che dietro l’apparenza dei
miti nel poema era espressa la verità della filosofia. Dante educato in un
ambiente del genere, impregnato di tali idee e nelle scuole dove, dopo
l’imprescindibile tirocinio grammaticale, si insegnava a liberare il senso
recondito e allegorico di un testo, seguendo Giovanni di Salisbury spiegò nel Convivio l’Eneide come romanzo allegorico.
Le sortes Vergilianae fin dall’età degli
Antonini furono una pratica basata sull’esoterismo del testo e consisteva
nell’aprire a caso l’Eneide traendone
oracolo dal primo o dai primi versi che si leggessero. Era un procedimento
analogo a quello dell’I King studiato
da Jung. Hanno parlato di esoterismo espressivo anche i commentatori delle Bucoliche per via soprattutto della IV
egloga, esempio insigne di sincretismo pagano-cristiano, intrisa di accenti cumani
antecedenti al libro VI. Furono i padri della chiesa per primi a darle
un’interpretazione in senso messianico, contribuendo non poco a far nascere il
mito di un Virgilio profeta: basti rileggere i vv. 4-10 - dove la Virgo è la dea della giustizia, Astrèa,
individuata nella costellazione della Vergine ma la suggestione è forte
soprattutto laddove la “profezia”, satura di principi cosmogonici esiodei,
annuncia la nascita di un bambino prodigioso per giunta “dall’alto del
cielo”(v. 7: caelo alto) e apportatore
di una nuova stirpe dell’oro dopo quella del ferro, sotto il consolato di
Asinio Pollione cui è dedicata l’egloga - per farsene un’idea:
Ultima Cumaei venit iam carminis aetas,
magnus ab integro saeclorum nascitur
ordo.
Iam redit et Virgo, redeunt Saturnia
regna;
iam nova progenies caelo demittitur
alto.
Tu modo nascenti puero, quo ferrea
primum
desinet ac toto
surget gens aurea mundo,
casta, fave, Lucina: tuus iam regnat
Apollo.
Oppure
il famoso, e dibattuto in sede filologica, explicit
dei quattro esametri (vv. 60-63):
Incipe, parve puer, risu cognoscere
matrem
(matri longa decem tulerunt fastidia
menses);
incipe, parve puer: cui non risere
parentes,
nec deus hunc mensa, dea nec dignata
cubili est
che
fece vedere a Auerbach come, nell’interpretazione tipologica medievale degli
inni-elogio, l’espressione risum fecit
mihi Dominus (mi sorrise il Signore) in Gen.,
21, 6 «è
la gioia causata dalla nascita del bambino miracoloso, lungamente atteso, che
può anche ridere ed esser chiamato “noster risus”, il gaudium magnum” di Luca 2, 10. È mia opinione – scrive
Auerbach - che la quarta Egloga di Virgilio abbia contribuito anch’essa a
questa figura; l’interpretazione medievale del testo di Virgilio come profezia
di Cristo è ben nota» (Erich Auerbach, Studi su Dante, trad it. a cura di Maria Luisa De Pieri Bonino e Dante
Della Terza, Milano 2009, p. 290).
«“Incipe
parve puer risu cognoscere matrem” [o pargolo incomincia a riconoscere la mamma
col tuo sorriso]. La lettura – continua l’Auerbach alla nota 37 (ibidem) - delle parole “qui non risere
parenti” [che non risero al genitore], (invece di “cui non risere parentes” [“a
cui non risero i genitori”]) si fonda su un passo di Quintiliano (IX, III, 8)
ed è stata sostenuta da E. Norden, Die
Geburt des Kindes; Geschichte einer religiösen Idee (Leipsig 1924), p. 62.»
Abbiamo
scelto per questo passo delle Bucoliche il
testo stabilito da E. De Saint Denis, Virgile,
Bucoliques (Les Belles Lettres, Parigi 1987). Per la verità, di Quintiliano
e della IV Egloga, nonché di corruttela esclusa per la qualità del testimonio
parla Paul Maas sia pur motivando la lezione del Norden con una congettura di
Schrader (parentes > parentei
> parenti):
«In
Virgilio, Ecl. 4, 62, dove i
manoscritti offrono la lezione
cui non
risere parentes,
nec deus hunc mensa, dea nec dignata
cubili est.
Quintiliano (9, 3, 8) leggeva qui non
risere e si meravigliava che a questa espressione seguisse hunc al singolare. Egli non avrebbe
fatto ciò, se allora ci fosse stata una variante cui non risere. Di tale variante non è dunque da tener conto per la
recensione. Ma dopo qui non ha senso parentes: plausibile congettura di J.
Schrader parenti (= parentei L. Havet). Dipende
probabilmente da contaminazione da tradizione corrotta di Virgilio il fatto che
i manoscritti quintilianei scrivano egualmente cui e parentes. Perché
Virgilio poi non abbia scritto hos,
potremo sentire, se pensiamo al letto della Dea: la costruzione, irregolare in
latino, è un grecismo (cfr. Euripide, Heracles
195 ὅσοι ἔχουσι…., ῥύεται), come l’intero motivo della chiusa vuole essere
una reminiscenza di Teocrito IX (“colui che non è stato ammaliato da Circe, ha
diviso con lei la mensa e il talamo”). Da ultimo e nel modo più deciso ha sostenuto
questa lezione E. Norden, Geburt des Kindes (1924), 61 sgg.» (Paul Maas, Critica del testo, con lo «Sguardo
retrospettivo 1956» e una nota di Luciano Canfora, trad.
it. a cura di Nello Martinelli, Firenze 1990, p. 47).
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