domenica 21 ottobre 2012

L’alta tragedìa

William-Adolphe Bouguereau, Dante e Virgilio nell'Inferno, 1850





In vita gli si tributarono onori in una misura sproporzionata alla ritrosia del suo carattere, che lo faceva riparare nella prima casa che trovasse disponibile per evitare quelli che per strada lo riconoscevano e pretendevano di congratularsi con lui. Se si recava a teatro, la folla acclamante si alzava in piedi al suo ingresso, nello stesso atto di omaggio solitamente destinato all’imperatore. La sua gloria crebbe dopo la morte tanto presso il pubblico dei raffinati quanto presso il popolo, al punto che si preferirono le sue opere negli ambienti intellettuali e nelle scuole per lo studio della grammatica, della retorica e della filosofia nel momento in cui, presso il popolino, era ritenuto nel Medioevo operatore di miracoli, indovino e taumaturgo. Fu giudicato più grande di Aristotele. Dante sceglierà come guida la poesia eroica, cioè i filosofemi e l’alta tragedìa (Inf., XX, 112-114: «Eurìpilo ebbe nome, e così ‘l canta / l’alta mia tragedìa in alcun loco: / ben lo sai tu che la sai tutta quanta») e non il linguaggio razionale di Aristotele, perché questi si era limitato a presentare la sua speculazione in una forma razionale nota a Virgilio ma superata da Virgilio.
Dante credeva alla profonda sapientia di Virgilio non solo riguardo all’ars poetica, realtà indiscutibile, ma anche nel campo della filosofia e di tutto lo scibile. Bernardo di Chartres cercava di mostrare che nell’Eneide fosse descritta in philosophicis la natura della vita umana e quel che facesse o soffrisse la mens provvisoriamente reclusa nel corpo. Nel XII secolo anche Giovanni di Salisbury affermava probabilisticamente che dietro l’apparenza dei miti nel poema era espressa la verità della filosofia. Dante educato in un ambiente del genere, impregnato di tali idee e nelle scuole dove, dopo l’imprescindibile tirocinio grammaticale, si insegnava a liberare il senso recondito e allegorico di un testo, seguendo Giovanni di Salisbury spiegò nel Convivio l’Eneide come romanzo allegorico.
Le sortes Vergilianae fin dall’età degli Antonini furono una pratica basata sull’esoterismo del testo e consisteva nell’aprire a caso l’Eneide traendone oracolo dal primo o dai primi versi che si leggessero. Era un procedimento analogo a quello dell’I King studiato da Jung. Hanno parlato di esoterismo espressivo anche i commentatori delle Bucoliche per via soprattutto della IV egloga, esempio insigne di sincretismo pagano-cristiano, intrisa di accenti cumani antecedenti al libro VI. Furono i padri della chiesa per primi a darle un’interpretazione in senso messianico, contribuendo non poco a far nascere il mito di un Virgilio profeta: basti rileggere i vv. 4-10 - dove la Virgo è la dea della giustizia, Astrèa, individuata nella costellazione della Vergine ma la suggestione è forte soprattutto laddove la “profezia”, satura di principi cosmogonici esiodei, annuncia la nascita di un bambino prodigioso per giunta “dall’alto del cielo”(v. 7: caelo alto) e apportatore di una nuova stirpe dell’oro dopo quella del ferro, sotto il consolato di Asinio Pollione cui è dedicata l’egloga - per farsene un’idea:

Ultima Cumaei venit iam carminis aetas,
magnus ab integro saeclorum nascitur ordo.
Iam redit et Virgo, redeunt Saturnia regna;
iam nova progenies caelo demittitur alto.
Tu modo nascenti puero, quo ferrea primum
desinet ac toto surget gens aurea mundo,
casta, fave, Lucina: tuus iam regnat Apollo.

Oppure il famoso, e dibattuto in sede filologica, explicit dei quattro esametri (vv. 60-63):

Incipe, parve puer, risu cognoscere matrem
(matri longa decem tulerunt fastidia menses);
incipe, parve puer: cui non risere parentes,
nec deus hunc mensa, dea nec dignata cubili est

che fece vedere a Auerbach come, nell’interpretazione tipologica medievale degli inni-elogio, l’espressione risum fecit mihi Dominus (mi sorrise il Signore) in Gen., 21, 6 «è la gioia causata dalla nascita del bambino miracoloso, lungamente atteso, che può anche ridere ed esser chiamato “noster risus”, il gaudium magnum” di Luca 2, 10. È mia opinione – scrive Auerbach - che la quarta Egloga di Virgilio abbia contribuito anch’essa a questa figura; l’interpretazione medievale del testo di Virgilio come profezia di Cristo è ben nota» (Erich Auerbach, Studi su Dante, trad it. a cura di Maria Luisa De Pieri Bonino e Dante Della Terza, Milano 2009, p. 290).
«“Incipe parve puer risu cognoscere matrem” [o pargolo incomincia a riconoscere la mamma col tuo sorriso]. La lettura – continua l’Auerbach alla nota 37 (ibidem) - delle parole “qui non risere parenti” [che non risero al genitore], (invece di “cui non risere parentes” [“a cui non risero i genitori”]) si fonda su un passo di Quintiliano (IX, III, 8) ed è stata sostenuta da E. Norden, Die Geburt des Kindes; Geschichte einer religiösen Idee (Leipsig 1924), p. 62.»
Abbiamo scelto per questo passo delle Bucoliche il testo stabilito da E. De Saint Denis, Virgile, Bucoliques (Les Belles Lettres, Parigi 1987). Per la verità, di Quintiliano e della IV Egloga, nonché di corruttela esclusa per la qualità del testimonio parla Paul Maas sia pur motivando la lezione del Norden con una congettura di Schrader (parentes > parentei > parenti):
«In Virgilio, Ecl. 4, 62, dove i manoscritti offrono la lezione

                                       cui non risere parentes,
nec deus hunc mensa, dea nec dignata cubili est.

Quintiliano (9, 3, 8) leggeva qui non risere e si meravigliava che a questa espressione seguisse hunc al singolare. Egli non avrebbe fatto ciò, se allora ci fosse stata una variante cui non risere. Di tale variante non è dunque da tener conto per la recensione. Ma dopo qui non ha senso parentes: plausibile congettura di J. Schrader parenti (= parentei L. Havet). Dipende probabilmente da contaminazione da tradizione corrotta di Virgilio il fatto che i manoscritti quintilianei scrivano egualmente cui e parentes. Perché Virgilio poi non abbia scritto hos, potremo sentire, se pensiamo al letto della Dea: la costruzione, irregolare in latino, è un grecismo (cfr. Euripide, Heracles 195 σοι χουσι…., ῥύεται), come l’intero motivo della chiusa vuole essere una reminiscenza di Teocrito IX (“colui che non è stato ammaliato da Circe, ha diviso con lei la mensa e il talamo”). Da ultimo e nel modo più deciso ha sostenuto questa lezione E. Norden, Geburt des Kindes (1924), 61 sgg.» (Paul Maas, Critica del testo, con lo «Sguardo retrospettivo 1956» e una nota di Luciano Canfora, trad. it. a cura di Nello Martinelli, Firenze 1990, p. 47).  

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