da Virgilio,
(Aeneis)
Libro I
Io, quell’io che già
ritmai sull’agreste leggero mio flauto
versi e, uscendo dai
boschi, ridussi i poderi vicini
a essere agli ordini
degli ancorché insaziati coloni,
opera accetta a loro;
di Marte, pur ora, tremende[1]
canto
le armi eroiche, l’uomo che primo da Troia
esule per un decreto
del fato raggiunse l’Italia
e le spiagge lavinie,
sbattuto per terre e per mare
dalle potenze supreme e
l’ira inflessibile della
dura Giunone assai
sopportando, anche in guerra, finché
edificò una città, riponendovi
il culto esoterico[2]
dal quale il genus del Lazio, Alba e, eccelse, le mura
di Roma.
Musa, ricordami tu i
motivi per cui la regina
degli dèi tutti si
offese nel numen o di che ella
dolendosi
sì travolgeva di casi
quell’uomo famoso per pietas,
così tenendolo in pena.
Queste ire nei cuori celesti?
Era un’antica città (da
coloni la tennero i Tirii)
posta di fronte
all’Italia, Cartagine, lungi dal Tevere,
ricca opulenta fiera
nei suoi guerreschi furori.
Sola, si dice, fra
tutte le terre era cara a Giunone,
a Samo stessa da lei
preferita: qui pose le armi,
quivi il suo carro la
diva, del mondo ché fosse lo scettro
universale, volendolo
i fati; fin d’ora lo auspica.
Libro IV
Ma la
regina, invasa da tempo da quella sua pena
grave, alimenta nel
sangue occulto e violento un incendio.
Tornano nella sua
mente la virtus di Enea e il grande
onore
del di lui popolo,
fermi ne ha in seno il bel volto e i discorsi,
né la sua pena maligna
dà quiete notturna alle membra.
Giunta era mo’
nuovamente col limpido faro d’Apollo,
tolta ogni ombra dal
cielo, Aurora a scrutare la terra,
da Giovanni Pascoli
(Poemata Christiana),
Fanum Apollinis
Il tempio di Apollo
Imputridito
invecchiava un tempio su un lido deserto.
trìglifi a terra e
mattoni coperti all’intorno dal muschio,
molta propaggine e il
rovo gremiva il boschetto già sacro.
Lui stesso vecchio,
benché diroccate, adesso, un custode
prossimo a morte
sorregge le vecchie macerie del tempio.
Nella cappella, però,
disdegnando il silenzio degli evi,
sta, qui, contiguo al
bel tronco d’un albero, il pubere Apollo.
Dal santuario, da
tempo mancarono i suoi primordiali
dèmoni forse – errando, sospinti da venti e da nuvole:
ché abbandonarono i
Lari le strade e i crocicchi: qua e là
ché dolci pianti le
fonti rivolgono ancora alle Ninfe.
[1] Cfr. Anthony Camps, Lettura del primo libro dell’Eneide, in Lecturae Vergilianae, a cura di Marcello Gigante, vol. III, L’Eneide, Napoli 1983, p. 15: “I
problemi di interpretazione sono pochi, a meno che non ci si voglia preoccupare
(e io penso che non sia necessario) di quei quattro versi che in alcuni testi
precedono il fondamentale arma virumque,
e che sono intrinsecamente dei bei versi".
[2] Il testo latino recita inferretque deos Latio (v. 6) ma
“i Penati troiani erano statuine di marmo, legno o terracotta. In verità,
non tutti gli antichi autori sono d’accordo sull’attribuzione: alcuni vogliono
che si tratti di grandi divinità, ossia di Apollo e di Nettuno; altri di grandi
dèi di Samotracia, oggetto di un culto esoterico” (Pierre Grimal, Virgilio, trad. it. a cura di Anna
Silva, Milano 1986, p. 210).
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