lunedì 17 settembre 2012

IL SERVO DI BYRON di Franco Buffoni. Una recensione





Lord Byron era famoso per le sue doti di conquistatore di donne, che peraltro riusciva anche a soddisfare grazie alla propria esuberanza, in realtà viveva di nascosto un’omosessualità compulsiva e frenetica. Lo scandalo pubblico che pesò su di lui aveva riguardato le voci di un rapporto incestuoso con la sorella, quando la moglie lo lasciò, nel 1816, a un anno dal matrimonio, ma ora definitivamente si mette fine a equivoci e montature, del resto in vita avallate dallo stesso poeta per ragioni comprensibili in un momento storico in cui l’Inghilterra era particolarmente efferata (lo sarà fino al caso Wilde, e oltre) contro i fuorilegge della sessualità. Il narratore del Servo di Byron di Franco Buffoni è William Fletcher, il suo paggio, e non si capisce il motivo di questo artificio se non per fare romanzo a tutti i costi, e non lo dico per riecheggiare un recente titolo di Alfonso Berardinelli, Non incoraggiate il romanzo. L’inverso parodico nasce direttamente col romanzo in contrapposizione al genere “misto”  fissato nell’antichità, per uscire di nuovo dal ghetto del pregiudizio con un’imprescindibile contaminazione dei generi, paradossalmente sono ormai i presupposti della ricezione che sembrano definire l’opera romanzesca o, secondo un’espressione di Jauss, il suo “orizzonte di attesa”. In questo caso il libro, sovrabbondante di dettagli minuziosi, è un dotto resoconto biografico sull’omosessualità del poeta-dandy, e questa è la novità che costituisce semmai la sua importanza civile insieme all’esaltazione di un aspetto di quella personalità da acquisire nell’ambito dell’ultraumanesimo maggiore per la forza, che Byron ebbe. di contrastare e ribaltare a proprio favore le deformazioni intellettuali e morali cui l’epoca voleva costringerlo. Fletcher ci riferisce gli innamoramenti del suo amante-padrone: è al corrente di ogni sua segreta avventura con un puntiglio che tanto valeva affidare alla documentazione saggistica: il personaggio rimane una cornice pretestuale e pretestuosa, troppo specularmente costruita per essere convincente, generando confusione tra i due possibili alter ego, quello di Byron e quello di Buffoni. Fletcher è un narratore eterodiegetico e onnisciente sotto mentite spoglie omodiegetiche, comincia a scrivere sei anni dopo la morte del padrone, avvenuta nel 1824: nel 1804 inizia a fargli da servo, essendo nati entrambi nel 1788 sono coetanei e lui ha già fatto in modo di farsi notare: «lo sapevo benissimo che mi spiava, per questo mi mettevo a torso nudo e poi pisciavo dove sapevo che mi avrebbe visto bene». Il primo amore fu John Edelston, il biondo studente di cui il poeta inglese si innamorò a Cambridge, senza più dimenticarlo anche se la relazione durò solo dall’ottobre 1805 all’aprile 1807: «Durò più di un anno, ma in pratica non finì mai: Byron cercò sempre Edelston. Il mio padrone morì invocando Edelston». Altro momento cruciale è il tentativo di sedurre Shelley, la cui proclamazione dei liberi costumi non prevedeva che nei rapporti uomo-uomo si passasse ai fatti: «le cose si fermavano lì: alla possibilità, alla potentia, come disse lui una sera con espressione latina». Linguisticamente non c’è nulla che connoti Fletcher, che potrebbe essere dunque Byron o l’autore stesso, come se non ci fosse differenza, per usare il linguaggio genettiano, tra le “istanze veggenti” e gli “oggetti della visione”.

Sandro De Fazi per l'Estroverso, Settembre-Ottobre 2012


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