Il passato si forma dall’esclusione
di innumerevoli futuri, da una continua determinazione dell’indeterminato:
Orazio fu poeta e sarebbe potuto essere soldato. […]
Spesso viene ritenuto calmo chi
domina la sua ira; continente, se non casto, colui che non vive nei bordelli o
non fa la corte alle signore sposate, accontentandosi delle ragazze squillo
(che c’erano anche a Roma) o degli schiavetti e delle serve di casa. Orazio è
calmo e casto a questo modo; più che tenersi nel mezzo, oscilla dentro i limiti
di una zona permissiva che misura con larghezza a se stesso. Anche la sua
libertà interiore resiste come può alle offese del paternalismo. Mecenate a
volte, lo invita a cena all’ultimo minuto; e lui corre lo stesso. Lo ostenta nella
sua scuderia di intellettuali e di poeti augustei e lui non si può tirare
indietro, dicendo che è di un’altra parrocchia. Poi tocca lodare e ringraziare,
non solo in pubblico ma per iscritto: l’obbligo della gratitudine non finisce
mai.
[..]
È a questo modo che, attorno ai
quarant’anni, capita a Orazio una grossa grana: Augusto lo vuole come
segretario privato. La difficoltà consiste, per il poeta, nel dire di no graziosamente, in modo che l’altro non si arrabbi. Ad accettare, non ci pensa
assolutamente. Capisce che, se entra a palazzo, la sua libertà, già così
precaria, sarà seriamente minacciata. E inoltre gli secca che il padrone voglia
utilizzarlo per scrivere lettere agli amici, biglietti di ringraziamento,
complimenti e non dispacci ufficiali, non quei messaggi che mettono in moto le
cose. Gli piacerebbe, se mai, essere ammesso ai segreti di stato, per curiosità
o per dire a se stesso: «sono arrivato anche a questo». E invece,
da quel lato, nessuno lo prende sul serio.
[…]
La
restaurazione augustea aveva l’aria di essere davvero l’inizio di un nuovo saeculum: sarebbe durata a lungo. Orazio aveva ceduto a poco a
poco, ma forse non vedeva lo scopo di resistere ancora. Lodare ciò che di buono
aveva fatto il principe non ripugnava troppo al continuo compromesso che la
vita con i grandi gli imponeva. E, del resto, a Roma non c’era un partito di
opposizione.
Orazio insomma si rendeva benissimo
conto di essere entrato a lavorare nell’organizzazione del consenso, ma gli era
anche facile trattenersi nell’equivoco e considerare la sua etichetta di poeta
di stato come una specie di premio letterario invece che come una resa al
potere.
[…]
Si sa che non aveva molta salute, che
era malato di congiuntivite, che spesso si sentiva stanco, che si considerava
già un uomo finito a trentacinque anni: il fatto che cedesse sempre meno alle
sue rabbie, improvvise e convulse, era un cattivo sintomo. Un altro era il
rattrappirsi, non del desiderio forse, ma delle follie per l’amore delle
ragazze e dei ragazzi. Non aveva, pare,
successo con le donne, perché era piccolo e grasso, ma avrà avuto anche lui le
sue avventure di scapolo, finite bene perché probabilmente non mirava troppo in
alto.
[…]
L’energia a volte persino aggressiva,
che lo ha sostenuto nei cari affanni della vita e dell’arte, lo va
abbandonando. Sperimenta la noia, l’inquietudine senza scopo, ma non la
disperazione. Chiede agli dei la salute e quel tanto che basti per vivere,
perché alla pace dell’animo sa pensarci da solo: il suo commiato dalla vita
attiva si colora di sdegnosa autarchia. Orazio non si ritira come il convitato
che è sazio (Sat., I, 1): resta a
tavola, assorto, deciso a nutrirsi di quel poco necessario che aveva insegnato
ad apprezzare. Non si è mai illuso di poter raggiungere qualche cosa di
assoluto, e ciò lo aiuta a dar valore ai piaceri poveri, alle pause di
tranquillità, all’amicizia finale con se stesso.
(Renato Ghiotto)
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