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Che rapporto c’è tra l’epistolario di uno scrittore e la sua opera? Lo stesso che esiste tra quest’ultima e la sua vita, vale a dire nessuno. Colui che firma le lettere non è la stessa persona che scrive i libri, in entrambi i casi non è in gioco l’io anagrafico ma la soggettività inconscia immanente, un mascheramento sostanziale dell’io che lo rende finzione, raggiro, nel senso lacaniano che “il vero io non sono io”, e che va analizzato. Era costruita per contraddire quanto veniva proclamato nelle occasioni ufficiali la corrispondenza di Cicerone, con grave disappunto del Mommsen nel suo feroce anticiceronianesimo («dove lo scrittore è ridotto a se stesso, come nell’esilio, nella Cilicia e dopo la battaglia di Farsalo, essa è fiacca e vuota come l’anima di uno scrittore d’appendice»); quella di Petrarca e di Leopardi non è fatta solo per comunicare coi destinatari immediati ma nella teatralizzazione della loro personalità. La maschera attraversa le lettere e l’opera di Nietzsche come un enigma da decifrare, quasi sempre indecifrabile o frainteso; il carteggio tra Thomas Mann e Hermann Hesse è la documentazione di un’amicizia intellettuale durata quasi mezzo secolo; quello di Pavese è scritto per essere tramandato a noi, comprese le lettere a Fernanda Pivano ricopiate ogni volta con la carta carbone; quello di Pasolini – scritto verso la parte finale, negli anni del suo segretariato, da Dario Bellezza – testimonia la diplomatica rete di rapporti coi molti destinatari illustri all’inizio della sua carriera. Nel caso de L’amata. Lettere di e a Elsa Morante, a cura di Daniele Morante e con la collaborazione di Giuliana Zagra (Einaudi 2012) non esiste nessun carteggio vero e proprio, inteso cioè nel senso binario. Si tratta piuttosto di un anti-epistolario intorno alla “Non-amata” analogamente all’«inseparabile prossimità con se stesso ed assoluta differenza dagli altri» che Foucault ha visto nei dialoghi di Rousseau («credere ciò che dice la parola scritta, ma non crederla perché la si è letta»). Elsa è giudice della Morante ma tra i mittenti e la destinataria, tra la mittente e i destinatari insiste un dialogo interrotto dal monologo. Con delle eccezioni, la scrittrice o non risponde o lo fa per troncare i rapporti. È risaputo il suo anticonformismo assoluto, l’imperativo categorico di dire la verità – di pretenderla da sé e dagli altri – anche a rischio della sua famosa inimicizia. Amicus Plato sed magis amica veritas è la sua sincerità antiadattiva specialmente dopo il 1968, in questo la già sublime autrice diMenzogna e sortilegio e de L’isola di Arturo trova un precursore solo nell’ultimo Rousseau, per attenerci al moderno, in particolare in quello delle Passeggiate. Come se parlasse Amleto, non siamo qui davanti alla drammatizzazione cartesiana, l’autenticità di Montaigne portata a compimento da Rousseau prevale in modo irriducibile nel segno di una unicità irripetibile dalla forte valenza politica. Quanto Rousseau è implicato nella teorizzazione dell’individuo astratto isolato, tanto alla Morante non interessa che la solitudine, ricerca dell’altrove per arrivare al linguaggio dell’altro («por el analfabeto a quien escribo»). Ce n’è la riprova soprattutto nelle espressioni di solidarietà complice di lettori vari, relativamente all’uscita di La Storia e di Aracoeli che ne è il capovolgimento e l’abiura. «Ha qualcosa in contrario se, nel caso la traduzione riuscisse artisticamente soddisfacente, il poema sia pubblicato in una rivista di qui?» le chiede in tedesco da Budapest György Lukács a proposito de Il mondo salvato dai ragazzini. Dice a Bellezza nella minuta manoscritta, forse del 1969: «il fatto che tu, a differenza di quelli che mi sono amici, abbia scelto di me proprio questa immagine, dimostra che, se è vero che tu non mi sei simpatico, anch’io non ti sono simpatica. Anzi, credo (posso anche sbagliarmi) che in fondo la tua non simpatia per me abbia preceduto la mia, e magari l’abbia prodotta» (p. 538). E Dario ha ricevuto questo testo e lo ha trascritto pressoché letteralmente in Angelo (Garzanti 1979), il suo capolavoro in prosa, tutto ruotante intorno a lei, omettendo genialmente l’inciso «posso anche sbagliarmi». Ha l’«allergia per la corrispondenza», confessa a Eduardo De Filippo. Eppure è allegra e premurosa con Wilcock, innamorata di Luchino Visconti, talora chiamato Luca, affettuosa con Leonor Fini, Carmelo Bene e Ninetto Davoli. Rifulgono le due lettere di Anna Maria Ortese, datate a Rapallo rispettivamente il 16-5-75 e il 17-4-83. Esilarante il carteggio con Tonino Ricchezza. Densa di forza profetica è la postfazione del nipote Daniele. Certo, come rilevò a suo tempo Cesare Garboli, sia Rousseau sia Elsa Morante hanno pagato un prezzo altissimo, ponendosi come grandi maestri. Molte lettere de L’amata non hanno avuto dunque risposta pur essendo assunte come carteggio sia pure unilaterale o in primo luogo, pregiudizialmente, espunte da questa raccolta composta da stratificazioni significative molteplici. Si è parlato di criterio sentimentale di selezione e davvero non si capisce il motivo per non avvalorare «senza eccezioni tutta quella corrispondenza che non avesse significanza in sé, ma solo in quanto testimonianza di presenza, in quanto attestante che “io c’ero” o “c’ero anch’io”» (p. XIX). Una scelta cursoria da una parte si imponeva, ma esorbita alquanto anche quando i curatori ricorrono direttamente ai mittenti/destinatari che avessero conservato documentazione utile al repertorio delle fonti epistolografiche, che filologicamente è il problema fondamentale di questo libro. Non ne sapremo forse mai di più, perché il criterio è anche quantitativo e contraddittorio al punto che sono riportate nel quarto capitolo lettere di lettori ignoti, e per l’esclusione di tutta la corrispondenza degli amici come di chiunque altro avesse avuto «una comunicazione altra che epistolare (o, quand’anche epistolare, non “storicamente” significativa» (ibidem). Impossibile fermarsi a una sola prima lettura, nel suo carattere d’eccezione questo libro in cui la scrittrice è percepita in absentia, dà resoconto della molteplicità di voci e situazioni in termini di ricerca veritativa ribaltabile in amica veritas sed magis amica Elsa.
Che rapporto c’è tra l’epistolario di uno scrittore e la sua opera? Lo stesso che esiste tra quest’ultima e la sua vita, vale a dire nessuno. Colui che firma le lettere non è la stessa persona che scrive i libri, in entrambi i casi non è in gioco l’io anagrafico ma la soggettività inconscia immanente, un mascheramento sostanziale dell’io che lo rende finzione, raggiro, nel senso lacaniano che “il vero io non sono io”, e che va analizzato. Era costruita per contraddire quanto veniva proclamato nelle occasioni ufficiali la corrispondenza di Cicerone, con grave disappunto del Mommsen nel suo feroce anticiceronianesimo («dove lo scrittore è ridotto a se stesso, come nell’esilio, nella Cilicia e dopo la battaglia di Farsalo, essa è fiacca e vuota come l’anima di uno scrittore d’appendice»); quella di Petrarca e di Leopardi non è fatta solo per comunicare coi destinatari immediati ma nella teatralizzazione della loro personalità. La maschera attraversa le lettere e l’opera di Nietzsche come un enigma da decifrare, quasi sempre indecifrabile o frainteso; il carteggio tra Thomas Mann e Hermann Hesse è la documentazione di un’amicizia intellettuale durata quasi mezzo secolo; quello di Pavese è scritto per essere tramandato a noi, comprese le lettere a Fernanda Pivano ricopiate ogni volta con la carta carbone; quello di Pasolini – scritto verso la parte finale, negli anni del suo segretariato, da Dario Bellezza – testimonia la diplomatica rete di rapporti coi molti destinatari illustri all’inizio della sua carriera. Nel caso de L’amata. Lettere di e a Elsa Morante, a cura di Daniele Morante e con la collaborazione di Giuliana Zagra (Einaudi 2012) non esiste nessun carteggio vero e proprio, inteso cioè nel senso binario. Si tratta piuttosto di un anti-epistolario intorno alla “Non-amata” analogamente all’«inseparabile prossimità con se stesso ed assoluta differenza dagli altri» che Foucault ha visto nei dialoghi di Rousseau («credere ciò che dice la parola scritta, ma non crederla perché la si è letta»). Elsa è giudice della Morante ma tra i mittenti e la destinataria, tra la mittente e i destinatari insiste un dialogo interrotto dal monologo. Con delle eccezioni, la scrittrice o non risponde o lo fa per troncare i rapporti. È risaputo il suo anticonformismo assoluto, l’imperativo categorico di dire la verità – di pretenderla da sé e dagli altri – anche a rischio della sua famosa inimicizia. Amicus Plato sed magis amica veritas è la sua sincerità antiadattiva specialmente dopo il 1968, in questo la già sublime autrice diMenzogna e sortilegio e de L’isola di Arturo trova un precursore solo nell’ultimo Rousseau, per attenerci al moderno, in particolare in quello delle Passeggiate. Come se parlasse Amleto, non siamo qui davanti alla drammatizzazione cartesiana, l’autenticità di Montaigne portata a compimento da Rousseau prevale in modo irriducibile nel segno di una unicità irripetibile dalla forte valenza politica. Quanto Rousseau è implicato nella teorizzazione dell’individuo astratto isolato, tanto alla Morante non interessa che la solitudine, ricerca dell’altrove per arrivare al linguaggio dell’altro («por el analfabeto a quien escribo»). Ce n’è la riprova soprattutto nelle espressioni di solidarietà complice di lettori vari, relativamente all’uscita di La Storia e di Aracoeli che ne è il capovolgimento e l’abiura. «Ha qualcosa in contrario se, nel caso la traduzione riuscisse artisticamente soddisfacente, il poema sia pubblicato in una rivista di qui?» le chiede in tedesco da Budapest György Lukács a proposito de Il mondo salvato dai ragazzini. Dice a Bellezza nella minuta manoscritta, forse del 1969: «il fatto che tu, a differenza di quelli che mi sono amici, abbia scelto di me proprio questa immagine, dimostra che, se è vero che tu non mi sei simpatico, anch’io non ti sono simpatica. Anzi, credo (posso anche sbagliarmi) che in fondo la tua non simpatia per me abbia preceduto la mia, e magari l’abbia prodotta» (p. 538). E Dario ha ricevuto questo testo e lo ha trascritto pressoché letteralmente in Angelo (Garzanti 1979), il suo capolavoro in prosa, tutto ruotante intorno a lei, omettendo genialmente l’inciso «posso anche sbagliarmi». Ha l’«allergia per la corrispondenza», confessa a Eduardo De Filippo. Eppure è allegra e premurosa con Wilcock, innamorata di Luchino Visconti, talora chiamato Luca, affettuosa con Leonor Fini, Carmelo Bene e Ninetto Davoli. Rifulgono le due lettere di Anna Maria Ortese, datate a Rapallo rispettivamente il 16-5-75 e il 17-4-83. Esilarante il carteggio con Tonino Ricchezza. Densa di forza profetica è la postfazione del nipote Daniele. Certo, come rilevò a suo tempo Cesare Garboli, sia Rousseau sia Elsa Morante hanno pagato un prezzo altissimo, ponendosi come grandi maestri. Molte lettere de L’amata non hanno avuto dunque risposta pur essendo assunte come carteggio sia pure unilaterale o in primo luogo, pregiudizialmente, espunte da questa raccolta composta da stratificazioni significative molteplici. Si è parlato di criterio sentimentale di selezione e davvero non si capisce il motivo per non avvalorare «senza eccezioni tutta quella corrispondenza che non avesse significanza in sé, ma solo in quanto testimonianza di presenza, in quanto attestante che “io c’ero” o “c’ero anch’io”» (p. XIX). Una scelta cursoria da una parte si imponeva, ma esorbita alquanto anche quando i curatori ricorrono direttamente ai mittenti/destinatari che avessero conservato documentazione utile al repertorio delle fonti epistolografiche, che filologicamente è il problema fondamentale di questo libro. Non ne sapremo forse mai di più, perché il criterio è anche quantitativo e contraddittorio al punto che sono riportate nel quarto capitolo lettere di lettori ignoti, e per l’esclusione di tutta la corrispondenza degli amici come di chiunque altro avesse avuto «una comunicazione altra che epistolare (o, quand’anche epistolare, non “storicamente” significativa» (ibidem). Impossibile fermarsi a una sola prima lettura, nel suo carattere d’eccezione questo libro in cui la scrittrice è percepita in absentia, dà resoconto della molteplicità di voci e situazioni in termini di ricerca veritativa ribaltabile in amica veritas sed magis amica Elsa.
Sandro De Fazi per l'Estroverso 2013, Anno VII - Numero 1, Gennaio - Marzo
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