Ah, c’era forse
una legge che obbligava a occuparsi di un romano in disgrazia a Trachila?
Christoph
Ransmayr, Il mondo estremo
Mecenate era morto nell’8 a.C., lo stesso
anno di Orazio; venuto a mancare il filtro principale, il freno a una già significativa
restrizione delle libertà intellettuali, la politica culturale governativa si era
irrigidita ulteriormente. Il severissimo
e inappellabile provvedimento di relegatio
contro Ovidio dell’8 d.C. fu eclatante quanto inaspettato, ingiustificato, o apparentemente
ingiustificabile, e aprì agli eccessi sanguinosi dell’età dei Claudi. Si può
dire che il periodo post-classico della letteratura latina, recepito nella
fattispecie come depressione letteraria e benché collocato convenzionalmente a partire
dal 14 d.C., anno della morte di Augusto, inizi effettivamente con i distici
elegiaci dei Tristia (la cui pubblicazione
termina del resto nel 12, sotto Tiberio) e delle Epistulae ex Ponto (pubblicate certamente non prima del 17, e postume)
di Ovidio, che è a cavallo di tutt’e due le epoche, senz’altro autore classico in
una fase storica indiscutibilmente al tramonto e post-classico insieme.
Ovidio
era un poeta alla moda, di successo, ricevuto dall’aristocrazia, mondanamente nella
stessa corte anche oltre la pallida fronda del circolo di Messalla Corvino e perciò,
costretto all’esilio anzi alla relegatio (potendo
conservare la cittadinanza romana e i beni materiali) per un irrevocabile bando
in una terra lontanissima, desolatissima, popolata da selvaggi parlanti un dialetto ignobile, avrà cercato subito appoggi,
per quanto il tempo stringesse, è assodato che tentò di mobilitare amicizie di
prestigio e limitrofe al princeps ma non
si mosse nessuno o, meglio, nessuno poté nulla, la collera imperiale fu inflessibile.
Ora è ridotto a ubriacarsi nelle taverne di Tomi, sulle rive del mar Nero, a compilare
lagne senza fine, incapace di scrivere un solo libro decente (già a Roma il suo
talento aveva iniziato a sbiadirsi), non gli si rimprovera di aver fatto oggetto
delle sue ultime cose la propria condizione insostenibile ma di non averne tratto
opera che la trasfigurasse, che la metamorfosasse davvero con risultati estetici
apprezzabili al di là di quegli ossessivi lamenti.
Ora Ovidio
è l’ex poeta romano che grida nella notte di Tomi, l’esiliato che geme suppliche
inascoltate. Benché spiaccia constatarlo, i Tristia
e le Epistulae ex Ponto (gli esametri
dell’Halieutica sono un passatempo
fine a se stesso) non sono opere ma tutt’al più cahiers de doléances toccanti
quanto si vuole, prodotti da una sensibilità quanto si vuole eccezionale che ha
ancora qualche effetto di poesia ma dettati da un io sostanzialmente anagrafico,
autoreferenziale, avvilito e avvitato su se stesso, quasi il delirio di un pazzo
che detta brutte suppliche. “Quello che infastidisce di più, in questa lunga successione
di preghiere, sono i momenti in cui la fatuità del poeta riprende il sopravvento
ed egli si attarda a carezzare gli antichi successi, snocciolando ingegnose
variazioni sui poeti a lui cari: potrebbe essere una legittima e anche simpatica
rievocazione del passato felice, un irresistibile e quindi ammirevole ritorno
agl’ideali letterari che erano stati l’intima vita stessa del poeta; ma il tono
agghindato e retorico guasta tutto“ (Ettore Paratore, La letteratura latina dell’età repubblicana e augustea, Milano
1993, pp. 497-498).
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