domenica 7 ottobre 2012

La notte di Tomi



Ah, c’era forse una legge che obbligava a occuparsi di un romano in disgrazia a Trachila?
Christoph Ransmayr, Il mondo estremo



Mecenate era morto nell’8 a.C., lo stesso anno di Orazio; venuto a mancare il filtro principale, il freno a una già significativa restrizione delle libertà intellettuali, la politica culturale governativa si era irrigidita ulteriormente.  Il severissimo e inappellabile provvedimento di relegatio contro Ovidio dell’8 d.C. fu eclatante quanto inaspettato, ingiustificato, o apparentemente ingiustificabile, e aprì agli eccessi sanguinosi dell’età dei Claudi. Si può dire che il periodo post-classico della letteratura latina, recepito nella fattispecie come depressione letteraria e benché collocato convenzionalmente a partire dal 14 d.C., anno della morte di Augusto, inizi effettivamente con i distici elegiaci dei Tristia (la cui pubblicazione termina del resto nel 12, sotto Tiberio) e delle Epistulae ex Ponto (pubblicate certamente non prima del 17, e postume) di Ovidio, che è a cavallo di tutt’e due le epoche, senz’altro autore classico in una fase storica indiscutibilmente al tramonto e post-classico insieme.




Ovidio era un poeta alla moda, di successo, ricevuto dall’aristocrazia, mondanamente nella stessa corte anche oltre la pallida fronda del circolo di Messalla Corvino e perciò, costretto all’esilio anzi alla relegatio (potendo conservare la cittadinanza romana e i beni materiali) per un irrevocabile bando in una terra lontanissima, desolatissima, popolata da selvaggi parlanti un dialetto ignobile, avrà cercato subito appoggi, per quanto il tempo stringesse, è assodato che tentò di mobilitare amicizie di prestigio e limitrofe al princeps ma non si mosse nessuno o, meglio, nessuno poté nulla, la collera imperiale fu inflessibile. Ora è ridotto a ubriacarsi nelle taverne di Tomi, sulle rive del mar Nero, a compilare lagne senza fine, incapace di scrivere un solo libro decente (già a Roma il suo talento aveva iniziato a sbiadirsi), non gli si rimprovera di aver fatto oggetto delle sue ultime cose la propria condizione insostenibile ma di non averne tratto opera che la trasfigurasse, che la metamorfosasse davvero con risultati estetici apprezzabili al di là di quegli ossessivi lamenti.
Ora Ovidio è l’ex poeta romano che grida nella notte di Tomi, l’esiliato che geme suppliche inascoltate. Benché spiaccia constatarlo, i Tristia e le Epistulae ex Ponto (gli esametri dell’Halieutica sono un passatempo fine a se stesso) non sono opere ma tutt’al più cahiers de doléances  toccanti quanto si vuole, prodotti da una sensibilità quanto si vuole eccezionale che ha ancora qualche effetto di poesia ma dettati da un io sostanzialmente anagrafico, autoreferenziale, avvilito e avvitato su se stesso, quasi il delirio di un pazzo che detta brutte suppliche. “Quello che infastidisce di più, in questa lunga successione di preghiere, sono i momenti in cui la fatuità del poeta riprende il sopravvento ed egli si attarda a carezzare gli antichi successi, snocciolando ingegnose variazioni sui poeti a lui cari: potrebbe essere una legittima e anche simpatica rievocazione del passato felice, un irresistibile e quindi ammirevole ritorno agl’ideali letterari che erano stati l’intima vita stessa del poeta; ma il tono agghindato e retorico guasta tutto“ (Ettore Paratore, La letteratura latina dell’età repubblicana e augustea, Milano 1993, pp. 497-498).



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