La
stroncatura crociana del Pascoli latino equiparato alla poesia manierista in
latino del Seicento non coglie la portata della rivoluzione linguistica che, se
non si era attuata in pieno estendendosi ai risultati raggiunti in Francia da
Mallarmé, lo si doveva all’angustia in cui era sommersa la cultura italiana del
tempo.
Se
ha scritto con esiti parimenti eccellenti in due lingue, il suo è un bilinguismo e in quanto tale è un plurilinguismo (Contini), pur
tralasciando il fatto che Pascoli ha composto anche (poco) in greco, (meno) in francese
e (ancora meno) in inglese.
La differenza tra diglotta e bilingue è che
mentre il primo si limita a parlare due lingue, il secondo arriva a pensare,
non solo a parlare, nella lingua materna e nella lingua acquisita: Pascoli non
parlava in latino pur essendone in grado (e con chi avrebbe dovuto farlo?) ma
pensava in latino e ne abbiamo prove dal fatto che scriveva appunti per sé
nella lingua conclusa che lui non
esitava a chiamare morta. Non
esisteva ancora il disprezzo che ai giorni nostri accompagna tanto il sapere in generale quanto il latino, anzi è certo che i lettori (pochissimi) dell’epoca
non avevano difficoltà, disponendo di un’institutio
strutturata, a decifrare il latino a differenza dei lettori odierni (pochi),
categoria flessibile nella quale vanno inseriti molti scrittori italiani
(troppi, in verità) dagli esiti multiformi.
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