![]() |
Vincenzo Camuccini, Virgilio legge l'Eneide ad Augusto |
1
Lo
svenimento di Ottavia
Hic vir, hic est, tibi quem promitti saepius audis,
Augustus Caesar, Divi genus, aurea condet
saecula qui rursus Latio regnata per arva
Saturno quondam; super et Garamantas et Indos
proferet
imperium: iacet extra sidera tellus,
extra anni
solisque vias, ubi caelifer Atlas
axem umero
torquet stellis ardentibus aptum.
Verg., Aeneis VI 791-797
Il dramma dell’ultimo Virgilio
Mi ha sempre dato da pensare questa
domanda: per quale vera, profonda, inammissibile ragione Virgilio intendeva
bruciare l’Eneide, la grande
Incompiuta? E per quale autentico motivo la considerava incompiuta? Per
completare poche decine di puntelli non gli occorreva molto tempo. È vero che
il tempo stringeva, e di ritorno dal viaggio in Grecia, a Brindisi, capì che non
ce n’era più. Allora, che cosa non andava davvero bene in ciò che aveva
composto fino a quel momento, al punto di volerne rigettare la paternità e
considerarla un’opera da dare alle fiamme?
Era
soltanto spinto da ragioni di perfezionismo formale? Da una sorta di
consapevolezza narcisistica, un po’ vanitosa e un po’ artata, provocatoria,
come accade agli scrittori di ogni epoca, cioè dal fatto che a lui l’Eneide sembrava imperfetta ma che gli
altri - a cominciare dallo stesso princeps
- l’avrebbero trovata magistrale mettendola sullo stesso piano dell’Iliade e dell’Odissea? Una specie di falsa modestia, un “No, grazie!” pronunciato
in extremis?
Spiegazioni
per ritenerla imperfetta ce ne sono, intendiamoci, anche per noi. L’Eneide fu
scritta prout liberet quidque et nihil in ordinem arripiens, cioè come
veniva veniva, svogliatamente, come per compiacere un desiderio esterno.
L’autore buttò giù prima tutto in prosa, nihil in ordinem arripiens, senz’ordine
alcuno, successivamente passò agli esametri che Huysmans trovava meccanici. Ma
non fece in tempo a correggere le correzioni né a eliminare i puntelli né le
ricorrenti contraddizioni: Turno uccide due volte Fegeo (IX, 765: addit Halym comitem et confixa Phegea parma
e XII 371: Non tulit instantem Phaegeus
animisque frementem, dove è dato ancora per vivo); Remulo è fatto fuori
prima da Ascanio (IX, 633: perque caput
Remuli venit et cava tempora ferro, cfr. non tulit Ascanius del v. 622) e poi da Orsiloco (XI, 636-637: Orsilochus Remuli, quando ipsum horrebat adire,
/ hastam intorsit equo ferrumque sub aure
reliquit); le navi sono trasformate in ninfe da Venere(X, 83: et potes in totidem classem convertere
nymphas nel lamento di Giunone) e prima invece si diceva che c’era stato un
intervento di Cibele (IX, 77-78: Quis
deus, o Musae, tam saeva incendia Teucris / avertit? tantos ratibus quis
depulit ignis?); a Enea è profetizzata nella maledizione di Didone una
morte in giovane età (IV, 620: sed cadat
ante diem mediaque inhumatus harena) e, allo stesso tempo, da parte di Anchise
una lunghissima vita (VI, 764: quem tibi
longaevo serum Lavinia coniunx). Le triremi della flotta troiana non erano
ancora state inventate, stando al giudizio di Tucidide; Enea e Didone cacciano
cervi, animali che non esistevano in Africa; alla fine dell’esperienza cartaginese,
il vir viene spinto verso l’Italia da
Aquilone, che però è un vento del nord. Quando, com’era consuetudine, il poeta
lesse il VI libro all’imperatore, a Ottavia e a Livia, rispettivamente sorella
e moglie di Augusto, si tramanda lo svenimento di Ottavia quando si arrivò ai
versi che parlavano del di lei figlio Marcello, erede al trono, morto
giovanissimo da poco tempo: le sembrò di rivederlo. Leopardi malignamente
insinua che Ottavia non svenne per questo motivo, bensì perché non ne poteva
più di ascoltare la lunga lettura di Virgilio, che era anche balbuziente (Pensieri, XX: “Fino gli scritti più
belli e di maggior prezzo, recitandoli il proprio autore, diventano di qualità
di uccidere annoiando: al qual proposito notava un filologo mio amico, che se è
vero che Ottavia, udendo Virgilio leggere il sesto dell’Eneide fosse presa da
uno svenimento, è credibile che le accadesse ciò non tanto per la memoria, come
dicono, del figliuolo Marcello, quanto per la noia del sentir leggere.”)
Al
di là di queste pur numerose farfalle sotto l’arco di Tito, la risposta alle domande
precedenti va ricercata nei suoi rapporti personali con Augusto. Qual era dunque
questa ragione così inammissibile? Che cosa c’era di così inconfessabile?
È
indubbio che, a differenza di Orazio, Virgilio abbia raccolto elementi se non
di dissenso, quantomeno eterodossi rispetto alla propaganda imperiale. Che
Augusto non si sia accorto dell’esistenza di tali elementi, acquisendo
coartatamente il poema è da escludere, essendo per giunta ancora vivo Mecenate,
il fedelissimo ministro della cultura che gli faceva da filtro nei rapporti con
gli intellettuali. Semmai è probabile che l’imperatore li assunse strategicamente
nell’ideologia ufficiale, allo stesso modo in cui neutralizzò le spinte
restaurative del “pompeiano” Livio (di fatto funzionali al regime della
“repubblica apparente”) o smascherò gli omaggi formali (in quanto
extraletterari e non “impegnati”) di Ovidio che pure era ricevuto quale
cortigiano a corte. Anche Luca Canali è su questa linea: “Enea giustiziere
convince meno dell’umano coraggio di Turno. La valorizzazione della resistenza
italica agli invasori non era in contrasto con la politica di Augusto. Tuttavia
credo che l’ispirazione di Virgilio abbia qui valicato i confini della
ortodossia augustea.”(Storia della poesia
latina, Milano 1990, p. 91).
Io
mi spingerei più oltre. Motivi catoniano-arcaici sono presenti in Orazio e in
Virgilio, e non insinceri, in tutt’altra forma che di una mascherata; forse
Orazio è stato l’alibi del Virgilio anti-augusteo. Non c’è dubbio che Orazio
sia augusteo: ma decidere massicciamente sui caratteri profondamente e
autenticamente augustei di Virgilio è un dramma: il dramma dell’ultimo
Virgilio.
* * *
Il
fascino di questo capolavoro consiste, oltre che nella sua incompiutezza appena
percepibile, nell’essere ideologicamente ancipite, secondo una duplice
possibilità interpretativa che la critica ha reso ugualmente legittima.
La tesi tradizionale vede l’adesione totale
alla propaganda: mos maiorum, centralità di Roma dopo la battaglia
di Azio, centralità della persona di Augusto (da non adulare però in maniera
diretta: il suo nome è fatto un’unica volta, nel libro VI), religione di stato
come appartenenza civica. È la posizione di Richard Heinze e di
Eduard Norden. Più recentemente Pierre Grimal, pur se in modo problematico,
ha dato sostegno a questa interpretazione.
La
tesi più avanzata ritiene il punto di vista di Virgilio costruito, meccanico,
formalistico nelle parti encomiastiche dirette (poche, come secondo propaganda)
e indirette (la guerra). La visione della storia e quindi dell’imperialismo
romano è pessimistica. Il poema si può leggere in chiave di (latente)
opposizione al regime. Iniziatore di questo discorso fu negli anni ’50
Victor Pöschl, che senza mettere tuttavia molto in discussione il carattere
augusteo coglieva le contraddizioni attraverso la simbolizzazione interna alla
struttura etica dell’opera. Successivamente, con maggior decisione la
scuola di Harvard (Adam Parry, Wendell Clausen, Michael Putnam) portò avanti
negli anni ’60 la tesi anti-augustea.
Se
il programma culturale vuole il trionfalismo della Romana gens,
prevale al contrario l’adesione profonda all’umiltà degli ambienti rurali e una
voce di sconforto accompagna senz’altro il canto interiore contrapposto alla
celebrazione esterna della res publica. Enea è più intenzionato a
guardare indietro verso la città perduta che non a costruire le premesse di un
futuro vittorioso, è più credibile come furens che come pius quando
combatte nel Lazio e uccide Turno che pure gli si era rivolto in atteggiamento
supplichevole.
La
morte di Virgilio di Hermann Broch
Il romanzo di Broch è piuttosto su questa
linea. La morte di Virgilio racconta
le sue ultime ore a Brindisi fino alla morte avvenuta undici giorni prima delle
Calende di ottobre, essendo consoli Gneo Senzio e Quinzio Lucrezio, esattamente
il 21 settembre del 19 a.C. Nonostante che già a Megara il morente avesse chiesto
a Lucio Vario di distruggere il manoscritto, contravvenendo al suo desiderio Augusto
in persona ordina a Plozio Tucca e allo stesso Vario di curarne l’edizione,
permettendo loro solo i ritocchi puramente indispensabili senza alterare il
testo con integrazioni.
Il
porto di Brindisi, brulicante di vita corrotta e di degradanti segni di
sfacelo, accoglie di sera il malandato poeta, stanco e agonizzante. La plebe
intorno a lui non lo riconosce, ne è incuriosita soltanto perché lui è al
seguito dell’imperatore e dev’essere un personaggio importante. Viene trasportato
lentissimamente in lettiga in mezzo alla folla urlante, scomposta – gli
lanciano invettive d’invidia, insulti, è paurosamente costretto a chiudersi gli
occhi con le mani per non vedere lo spettacolo offertogli della più nera
quotidianità miserabile – fino al palazzo imperiale piantonato dalla coorte
pretoriana.
Un
funzionario gli chiede chi sia per verificare se il suo nome è tra quelli degli
ospiti e il famoso scrittore, non senza risentirne nell’orgoglio, glielo dice:
«Sì,
Publio Virgilio Marone, questo è il mio nome».
Gli
si replica solo con un vago cenno affermativo del capo.
Per
l’intero tragitto dalla nave fin lì, aveva vagliato malinconico i cupi segni di thanatos devastanti in modo
inverosimile, aveva resistito interrogandosi se quello che stava vivendo fosse
un avvertimento del destino, una minaccia o l’irrevocabile inizio dell’ultima
conoscenza.
[...]
2
Centralità
del VI libro
![]() |
Cuma, Tempio di Apollo (sede più probabile della Sibilla) |
La climax ascendente del VI libro è ostinatamente cercata nel bilanciamento compositivo delle tre parti in cui è possibile suddividerlo: 1) 263 versi hanno per protagonista la Sibilla; 2) 371 successivi rappresentano l’oltretomba; 3) i restanti 264 (o 263, secondo qualcuno) costituiscono la chiusura del libro per un totale di 901 (o 900) esametri se si aggiungono i primi due dell’approdo a Cuma. Tutto questo in ossequio al preciso calcolo delle proporzioni per seguire un importante postulato dell’armonia classicistica. Di fatto, il VI è il canto più lungo, se si eccettuano i 908 del X, i 915 dell’XI e i 952 dell’ultimo: dodici libri, la metà di quelli del primo e del secondo Omero, per una somma totale di 9896 (o 9895) esametri di contro ai 15.696 dell’Iliade e 12.007 dell’Odissea. Per questi motivi strutturali anche in termini quantitativi, che si tratti di un libro centrale nessuno discute tranne Victor Pöschl (Die Dichtkunst Virgils, Darmstadt 1964, p. 150 passim), secondo il quale la precedenza in tal senso va data al IV per la tensione metaforica riguardante il dramma di Didone nei rapporti con Enea (Pöschl evidentemente non considera validi gli intenti programmatici, più espliciti e diretti nel VI, inesistenti o appena sottintesi nel IV, ai fini del risultato estetico).