sabato 9 luglio 2011

Gli ultimi giorni di Giulio Cesare di Luca Canali. Una recensione


Giulio Cesare soffriva di vertigini, oltreché, come è noto, di epilessia, oggi parleremmo di attacchi di panico che gli davano frequentemente l’impressione di vacillare, come se fosse atterrito dall’altezza cui era arrivato non soltanto come dittatore ma soprattutto come uomo in lotta con la mancanza di equilibrio per la sovrabbondanza di vitalità interiore non a caso riversatasi nello stile dei suoi scritti, tra i più affascinanti dell’età della letteratura latina che porta il suo nome. Questo tratto umano è la spia del destino eccezionale raccontato nel diario che Luca Canali fa scrivere a Cesare stesso nell’ultimo mese di vita a partire dal 6 febbraio nel romanzo intitolato Gli ultimi giorni di Giulio Cesare (Newton Compton), soffermandosi con rigore scientifico e allo stesso tempo con tensione narrativa fino all’epilogo sanguinoso delle Idi di marzo del 44 a. C. (anno 710 ab Urbe condita). Emerge da questo gioiello dell’insigne latinista il carattere letterario, teatrale, di quella tragedia sia personale sia politica: «Non credo nel destino, e tantomeno nel cosiddetto Fato. E disprezzo i filosofi – eccettuato l’atomista e razionalista Epicuro – i quali, di fronte ai misteri ultimi dell’esistenza, dello spazio infinito e del tempo eterno, al pari dei comuni mortali di animo semplice placano la loro inquietudine e rendono più risibile la loro impotenza affidandone la soluzione, o comunque la decifrazione, ai più disparati demiurghi divini comunque denominati.»
Sono qui ripercorse le amicizie coi poeti frequentati e le sue tre mogli, Cornelia, Pompea e l’attuale Calpurnia, insieme ai fatti salienti della tarda repubblica. Cesare di fatto era diventato un re ellenistico senza diadema, pater patriae ma sempre con la corona d’alloro mentre il conio portava la sua immagine incoronata d’oro. Aveva trionfato in Gallia, in Egitto, nel Ponto, in Africa. Nel 46 un senato apparentemente docile, in realtà già ostile, gli ha conferito la dittatura per dieci anni, e solo un mese prima della morte lui rifiuta la corona regale mentre un senatoconsulto lo proclama dittatore a vita. «Sono sulla vetta del potere. Ora comincerà la discesa, che qualcuno cercherà di rendere più veloce. Non è ossessione pessimistica: ricevo continuamente informazioni sul moltiplicarsi di conciliaboli di persone sospette.»
È insomma al vertice della gloria, è ricoperto di onori e padrone del mondo e si sta preparando per una campagna militare contro i Parti. E tuttavia, ed ecco il tranello della storia, almeno da un anno, i segnali dell’ostilità che va crescendo intorno a lui si fanno sempre più inequivocabili e pressanti: «l’infittirsi di questi assalti anonimi comincia a impensierirmi, considerando che la loro frequenza e diffusione territoriale possono avere effetti negativi sull’opinione pubblica finora a me favorevole. È quindi necessario che metta sull’avviso i servizi di vigilanza, capeggiati da Volusio». Ma, pur cogliendo le avvisaglie del pericolo, o per la stanchezza di affrontare le insidie dei nemici o perché comprende a poco a poco di non poterli più sostenere o per semplice disgusto della vita e del potere o per avventato esibizionismo e capriccio, sta di fatto che Cesare, con l’incalzare degli avvenimenti, non si cura più di difendersi e anzi, come per una sfida suprema e ostentando onnipotenza monarchica, congeda la guardia del corpo.
Secondo l’ipotesi riferita da Svetonio, che giustamente lo considera il vero fondatore del principato augusteo e il primo effettivo imperatore romano anche se non lo era nominalmente, – e il suo successore farà di tutto per dare l’impressione di “non” governare che una repubblica apparente piuttosto che un impero che ricopriva gran parte della terra allora conosciuta, – un mese prima dell’attentato del quale non può non essere a conoscenza, Cesare licenzia la guardia del corpo spagnola (etiam custiodias Hispaniorum se removisse) che abitualmente lo proteggeva con tanto di spade sfoderate (cum gladiis adinspectantium). Non si dimentichi che era un letterato atticista, un purista della lingua latina (lo sappiamo anche autore di un piccolo poema, l’Ibris e di una tragedia, l’Oedipus, che non ci sono pervenuti), e non per caso Canali immagina che da ultimo si affidi alla scrittura di questo giornale privato. La sua mente era capace di organizzazione strategico-militare e di ideazione fantasiosa: la fantasia poetica atta a dettare i commentari, l’una e l’altra dimensione riunite come in un doppio cervello, disponendo della geniale facoltà di far sussistere in un’unica personalità entrambi gli estremi opposti della situazione. Del resto è lo stesso Svetonio ad aggiungere letteratura alla storia, insinuando un importante indizio per la risoluzione del mistero che diventa l’atteggiamento del condottiero quando volle abbracciare la morte o, meglio, non si curò di evitarla: Cesare era malato (quoque valetudine minus prospera uteretur) e sapeva di dover morire presto, quindi tanto valeva accettare, con disprezzo per la vita, che la sorte decretata ormai seguisse il suo corso.
Qualunque sia il caso, non si lasciò sfuggire l’occasione per accelerare la fine e andarle stoicamente incontro. Una fine immediata e senza dolore (repentinum inopinatumque) era quella che preferiva, come aveva dichiarato cenando da Marco Lepido – l’8 marzo, secondo il diario di Canali, il giorno prima delle Idi, e cioè il 14, secondo Svetonio – agli amici che di nuovo lo stavano avvisando, con circospezione, della minaccia incombente. Probabile che fosse isolato al punto che non si sentisse più in grado di gestire politicamente la situazione. Per quanto si vogliano sottolineare i limiti del biografismo svetoniano che è di tipo peripatetico-alessandrino e mai opera storiografica in senso stretto, è dal riferimento del minuto dettaglio quotidiano che la testimonianza di Svetonio, priva di qualsiasi coinvolgimento personale e morale, diventa valida per la ricostruzione delle singole individualità tratteggiate in se stesse, avulse dalla vita dell’impero.
Il cesaricidio non risolveva affatto lo squilibrio causato dall’accentramento di un potere immenso nelle mani di uno solo, la guerra civile che ne deriva durerà ben tredici anni. La crisi della repubblica era ormai irreversibile. Ottaviano avrebbe trionfato facendo in modo che tutta la letteratura d’opposizione anticesariana non ci fosse tramandata.
Sandro De Fazi
pubblicato in http://www.filosofiprecari.it

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