venerdì 18 marzo 2011

"I Neoplatonici per Aristeo di Megara. Traduzione dal greco" di Luigi Settembrini


Luigi Settembrini, incarcerato nell’isola di Santo Stefano, mentre traduceva Luciano di Samosata, scrisse il racconto pederotico I Neoplatonici, fingendo che fosse una sua versione da un testo di Aristeo di Megara. Non tutti i detenuti sono filologi e perfino uno dei suoi non pochi detrattori, ad esempio il crociano Raffaele Cantarella, da questa opera venuta alla luce solamente nel 1977, non è stato in grado di escludere il potenziale liberatorio. Un altro detrattore, il professor Emidio Piermarini, già sapeva dell’esistenza dell’autografo, stando a quel che ne scrisse al collega Cantarella in una lettera datata 6 ottobre 1953, e citata da Francesco Gnerre già nell’edizione del 1981 nel suo L’eroe negato:
L’autografo sboccato ed ellenisticheggiante del Settembrini, come sapete, io lo lessi tanti anni fa, poco dopo che l’avevate letto voi: e fummo d’accordo che non era da pubblicare. L’opera è vivace, a tratti vivacissima, di fresca grazia, da fare onore ad un artista di alta classe come fu il Settembrini; ed ha tratti delicati e gentili nel parlare di bellezza corporea e di gioventù, e di vita lieta e coraggiosa nel vivere degli antichi Greci. […] Tuttavia il lavoretto d’abilità magistrale che il Settembrini dové fare per gareggiare con antichi artisti della parola, più che compiacersi del lubrico e malsano argomento, ci parve (ben ricordo) da serbare inedito. Infatti io l’inventariai e catalogai; ma non ebbi altro desiderio; e solo per una mia curiosità di letterato e moralista volli parlarne al Croce e al Torraca, il quale era stato studente del professor Settembrini. Il Croce, ch’era solo nel suo studio, mi guardò con un largo sorriso; e con un gesto d’indulgenza disse soltanto: “Essendo stato così a lungo col greco Luciano…”. Ed avendolo io riguardato, prima che io aggiungessi altro, fece un altro gesto tranquillo, per dire che altro, almeno per il momento, non aveva da aggiungere. Il Torraca, in una di quelle visite che gli facevo nel suo studio, parve sorpreso della mia notizia: onde in breve gli dissi il contenuto e le mie impressioni. Non se ne rallegrò; direi anzi che gli dispiacesse alquanto quell’errore letterario del venerato Maestro, martire patriottico dei Borboni; pur consolandosi che fosse opera ingegnosa e viva: e mi espresse l’opinione che avevo ragione a pensare che doveva lasciarsi nell’ombra di un armadio di biblioteca, accessibile a qualche rarissimo studioso. Ma adesso si dà il premio Nobel ad un Andrea Gide
Andrea Gide!
Cantarella, esperto di papirologia ercolanese, aveva scoperto il manoscritto alla Biblioteca Nazionale di Napoli nel 1937. Era un fascicoletto intitolato appunto: I Neoplatonici per Aristeo di Megara. Traduzione dal greco. Settembrini lo aveva precedentemente, prima che finisse nell’insigne Biblioteca chissà per quali raggiri della sorte, inviato alla moglie Luigia Faucitano contrabbandandolo appunto come una propria traduzione dal greco. Fu un gesto sintomatico e simbolico. Giudicando compromettente il breve manoscritto, non voleva Settembrini evidentemente tenerlo con sé in prigione. Coinvolgere la moglie nella sua attività letteraria significava un momento di ibridazione della propria (omo)sessualità. Quasi una copertura.
Le scrisse:
Mi dirai tu: “E come ti viene in capo di tradurre scritture dove è qualche oscenità?” Ecco qui, Gigia mia: le opere greche sono piene di queste oscenità, quale più, quale meno: ma era il tempo, era la gente voluttuosa: e le più belle opere ne sono piene. Anche noi altri italiani patiamo questo. Le opere del Boccaccio e del Firenzuola sono bellissime, eppure son lorde della medesima pece. Anche il rigido Machiavelli nelle sue commedie ne è infetto. Scrivendo io da me, mi guarderei bene da queste sozzure.
Piuttosto che marcire in prigione, l’autore delle Ricordanze della mia vita preferì dedicarsi con Luciano alla satira antiscolastica ripensandola nel raffronto con la propria esperienza diretta di cattedratico, nonché a questo incompreso esperimento di rivisitazione della pederastia antica. Giorgio Manganelli acutamente parlò di “uno spiraglio su una tragedia”, all’uscita del libro. La repressione, esterna e interna, pesava sull’eroe antiborbonico e lui preferì non dichiararsi autore di I Neoplatonici. Un Aristeo di Megara non è mai esistito. Benedetto Croce, limitandosi a esclamare in modo ambiguo: “Essendo stato così a lungo col greco Luciano…”, da una parte significava la sua riprovazione, dall’altra insieme esprimeva una qualche generica indulgenza, come se la traduzione di Luciano avesse naturalmente portato Settembrini verso questo “errore letterario”. Il suo carcere consisteva in una sola stanzaccia promiscua dove erano costretti a convivere anche dieci o dodici detenuti, d’inverno col freddo e d’estate col caldo, e quindi con tutte le conseguenze olfattive e igieniche del caso. Una situazione insopportabile per chiunque, figurarsi per chi è emotivamente disturbato! E chiunque scriva è sempre più o meno disturbato di nervi, non necessariamente in senso patologico. Fatto sta che l’unico suo conforto, insieme ai dialoghi greci di Luciano, fu l’amicizia più che cameratesca, omoerotica, con Silvio Spaventa, lo zio di Benedetto Croce: gli fece da padre dopo il famoso terremoto di Casamicciola. Il filosofo aveva pertanto ragioni di parentela e non solo moralistiche per non voler divulgare l’immagine di un Settembrini omosessuale, prigioniero insieme allo zio e a una dozzina di delinquenti comuni tra ladri e assassini. Ma come fu vissuta, questa amicizia esclusiva? Solo platonicamente? O nell’ambito di qualche partouze, o amor di gruppo, come fossimo in un romanzo di Gombrowicz? E perché bisogna per forza pensare al rapporto tra Settembrini e Spaventa anziché a esperienze personali dell’autore sia pure soltanto fantasticate per spiegare la genesi di I Neoplatonici? Eros è figlio di Caos, ci ricorda Plutarco. A dar retta a lui, lui stesso, a Settembrini, sì, fu un amore platonico, lui affermava di amare Spaventa con amore di fratello, mentre Silvio leggeva Hegel e Luigi Luciano. Certo Callicle e Doro, i due giovani protagonisti del romanzo, elementi imprescindibilmente duali di numero e maschili di genere, e il breve scritto di Settembrini è spiritualizzato molto meno dei dialoghi platonici, due ragazzi dunque, i due ragazzi Callicle e Doro, al pari di Armodio e di Aristogitone, «si stringevano forte e si avviticchiavano» di continuo, sempre a «suggere quella dolcezza», e poi l’uno «tentava di entrare fra le belle mele» dell’altro senza riuscirci. Questa è l’unica spiritualizzazione possibile, una sublimata penetrazione anale per impotentia coeundi. Ma ecco che, invocata Pallade Atena, arriva il sacro espediente suggerito dalla dea: l’olio! «di cui usano gli studiosi e gli amanti»! come non averci pensato prima! Achille in persona, dopo la morte dell’amico, si rivolgeva al fantasma di Patroclo ricordando con dolore immedicabile «la dolce usanza di star fra le tue cosce santamente», magari senza ungerlo. I greci furono superiori ai moderni proprio perché non si negarono i loro vizi e li rappresentarono nell’arte e nella filosofia e nella letteratura e nel mito e nel teatro, senza percepirli come vizi, per non parlare di Il cavallo di Troia di Christopher Morley, tradotto da Pavese, dove vengono omaggiati i piedi di Achille forse a beneficio di Ettore, figlio del nemico re Priamo. I moderni, pur non essendo meno viziosi, nella maggior parte dei casi nient’affatto santamente ma con ipocrisia borghese nascosero quelle bassezze, ed effettivamente la favola milesia attribuita all’inesistente Aristeo di Megara potrebbe ingannare l’occhio esperto di oggi in quanto traduzione da un manoscritto antico.
Sandrino df

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