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Louis Aragon |
Le Memorie
del primo amore costituiscono un frammento del romanzo che Leopardi voleva
scrivere, ma che non ha mai scritto, insieme alle Memorie della mia vita contenute nello Zibaldone e a varie altre prose sparse, soprattutto Storia di un’anima avente per
protagonista Giulio Rivalta.
La questione di un Leopardi romanziere è stata
affrontata per la prima volta da Manlio Torquato Dazzi, poi ripresa da Giuseppe
De Robertis (Saggio sul Leopardi,
Firenze, Vallecchi, 1973, pp. 137-140). Per la verità, Dazzi decideva alla fine
per un Leopardi non romanziere. E se per romanzo si intende qualsiasi testo
narrato, comprendendo con questa etichetta il genere dell’autobiografia o della
biografia o qualsiasi altro testo dove sia possibile riscontrare personaggi che
agiscano attraverso lo sviluppo di un’azione, questo romanzo leopardiano esiste
in nuce, in quanto ricostruibile, in
modo inevitabilmente arbitrario, se si assemblassero i frammenti di cui si è
detto. De Robertis, pur riconoscendo la suggestione del tentativo di Dazzi,
privilegia i Canti come reale
autobiografia sublime elaborata dal poeta. Ma l’intenzione di cimentarsi con
una narratività specifica nell’ambito del genere letterario è attestata da
Leopardi stesso nel lunghissimo elenco dei disegni letterari che ci ha
lasciato, dove è rintracciabile espressamente l’espressione:
“Eugenio, romanzo (Werther), frammenti”.
Si trattava dunque di un progetto di romanzo che
prendesse a modello Goethe e avesse carattere di frammentarietà. In
alternativa, abbiamo il titolo Storia di
un’anima. Fatto sta che questo romanzo non c’è come opera compiuta
dell’autore e, anche laddove si volesse considerare romanzo un testo narrato
(con personaggi) che si limitasse allo sviluppo di un presupposto teorico o
opera aperta, esso esiste solo implicitamente in quanto sottoposto all’arbitrio
tutto sommato illegittimo di un ipotetico curatore. L’esperimento effettuato da
Plinio Perilli e intitolato Storia di
un’anima (a nome di Giacomo Leopardi, Roma, Carlo Mancosu Editore, 1993)
potrebbe essere il romanzo leopardiano – utilizzando ampi stralci pure
dell’epistolario – ma con quali risultati estetici? Certo non convincenti, a
meno che non ricorriamo alla scivolosa categoria dell’antiromanzo e allora
sarebbe possibile acquisirlo nella discussione, ancora prematura all’epoca di
Leopardi (anche se il Fermo e Lucia
di Manzoni frattanto nel 1823 veniva a costituirsi quale laboratorio stimolante
e autoriflessione sul genere nascente quantomeno per la successiva redazione de
I promessi sposi) ma, daccapo, sempre
relativamente a un’opera che Leopardi non ha fatto.
Il che non vuol dire che non volesse comporla né
che l’antiromanzo non esista in nuce.
Sottotitolare con l’etichetta “romanzo” opere che non lo siano strutturalmente
sotto il profilo di una rigida canonizzazione - ormai non più necessaria, da
tempo – è diventata la risposta a un’esigenza di tipo commerciale, come fece
già Louis Aragon nel 1921 inserendo direttamente nel titolo l’etichetta: Anicet ou le panorama, roman.