Che cosa c'è dietro il complesso di superiorità? Quello di
inferiorità evidentemente, così negli individui come nei gruppi, quando si
scelgono vie insane per riaffermare il proprio io umiliato, reagire alla
profonda disistima di sé, a una così scarsa consapevolezza del proprio
potenziale energetico, a una così plateale mancanza di fiducia in se stessi. D'altra
parte uno dei paradossi del nostro tempo è proprio la crisi dell'individuo di
fronte a realtà che lo trascendono, dopo un'epoca
che raccomandava le sue prerogative, cioè di un individuo di cui tuttora in
Occidente non si fa che parlare forse proprio per la problematica che
sintomaticamente lo coinvolge in relazione alle masse. Soprattutto in Italia,
si coglie un popolo costituito da "individui" impervi alla minima
espressione della vitalità sociale e dell'organizzazione collettiva della partecipazione
democratica. Io non mi sono mai sognato di sostenere alcun eurocentrismo, e se
l'ho fatto dev'essere stato un incubo, né che una cultura sia superiore a
un'altra ma, con buona pace di Lévi-Strauss, alla luce di quanto sta accadendo
in Francia, bisogna aggiornare almeno sul piano culturale, ma non solo, i
termini del rapporto con una "civiltà" che si dichiara superiore a
un'altra, fosse pure alla nostra.
9 gennaio
2015
*
Lo studioso, il lettore e il critico sono tre diverse persone
ma identificabili perlopiù in una stessa persona.
17 gennaio
*
«De' morti alle
Termopile gloriosa è la fortuna, bello è il fine, altare la tomba, lode la
sventura.»
(Pietro Giordani, versione in prosa da Simonide/ Diodoro Siculo XI 11, 6)
21 gennaio
*
«Francesco De Sanctis scrisse
quasi tutti i suoi libri che non era più giovane: toccava i cinquant'anni, e
aveva, come tutti sanno, tenuta in Napoli per oltre un decennio, fino al 1848,
una fioritissima scuola di letteratura, e, uscito dal carcere e andato in
esilio, aveva insegnato a Torino e a Zurigo»
(BC, Francesco De Sanctis, in I critici. Per la storia della filologia e
della critica moderna in Italia, Milano, Marzorati, vol. I, p. 179)
22 gennnaio
*
Umile e ingrata fu, all’inizio, l’attività pratica cui si
dedicò Quinto Orazio Flacco, appena arrivato a Roma. Più tardi si sarebbe
rifiutato di fare il segretario del principe, che scherzosamente lo soprannominava
“membro purissimo”, purissimum penem,
secondo quanto racconta Svetonio, o tutt’al più “lepidissimo ometto”, homuncionem lepidissimum. Era un ometto
ridicolo, piccolo e obeso. Di modesta estrazione sociale, faceva lo scriba quaestorius per sopravvivere. E
nient’altro sembrava avere importanza attraverso
quell’impiego nell’amministrazione del fisco, ottenuto dietro l’interessamento
di Asinio Pollione: un lavoro come ogni altro, del resto, lontano dalla
letteratura. Nemmeno l’aveva abbandonata, dopo essere stato ad Atene,
nonostante l’audax paupertas e, si direbbe, proprio grazie
a quella. Il futuro sarebbe stato illecito sapere - scire nefas! - e proprio in questo periodo maturò la conversione
definitiva all’epicureismo, rivissuto alla sua maniera, del tutto personale,
con influssi lucreziani (cfr. Sermones
I, 3 ma anche I 2 e I 8). #HoratiusPapers
23 gennaio
Odi profanum volgus et arceo:
favete linguis; carmina non prius
audita Musarum sacerdos
virginibus puerisque canto.
favete linguis; carmina non prius
audita Musarum sacerdos
virginibus puerisque canto.
(Hor., Carm. III 1, 1-4)
Aborro il volgo empio
e lo evito.
Silenzio! Carmi che mai s’udirono,
devoto servo delle Muse,
per le fanciulle e i fanciulli io canto.
Silenzio! Carmi che mai s’udirono,
devoto servo delle Muse,
per le fanciulle e i fanciulli io canto.
(Versione di Mario Scaffidi Abbate)
23 gennaio
*
«La
perdita della figlia Tullia e le gravi disillusioni della vita privata avevano
aggiunto un colorito romantico al suo isolamento, alla sua attitudine a cercar
rifugio nelle lettere e nel colloquio con gli spiriti grandi: questo rimpianto
di un passato irripetibile, unito all’incertezza di un presente in cui ogni
giorno che passa vede diminuire le speranze, costituisce un po’ lo sfondo su
cui si svolgono le opere di questo periodo. […]
Dopo
la morte di Tullia (febbr. 45), Cicerone venne a Roma, dove passò tre settimane
chiuso nella casa di Attico. Poi partì per la sua villa di Astura, dove arrivò
il 7 marzo; e incominciò un lavoro febbrile che non avrebbe conosciuto
interruzioni per oltre un anno. […] Terminato a metà aprile l’Hortensius, in due mesi e mezzo
all’incirca sono scritti, e successivamente rifusi in quattro libri, i due
degli Academica, e poi i cinque del De finibus, ultimati alla fine di
giugno.
È
a questi giorni che risale il primo progetto delle Tusculane. Il 29 maggio Cicerone chiede ad Attico il περὶ ψυχῆς di
Dicearco, e questo proverebbe che già da allora egli aveva in mente il tema del
primo libro. Tuttavia, anche se Cicerone raccoglieva materiale fin da quella
data, è difficile pensare che le Tusculane
siano state iniziate prima della fine di giugno: la redazione del De finibus e la rifusione in quattro
libri degli Academica dovevano
prendere già abbastanza tempo da non permettergli di occuparsi d’altro.
[…]
La prima menzione dell’opera è fatta in una lettera ad Attico, del 18 maggio 44
(quod prima disputatio Tusculana te
confirmat sane gaudeo): ma questo non significa necessariamente che Attico
aveva ricevuto da poco le Tusculane:
può darsi benissimo che egli scrivesse a Cicerone, in quei giorni burrascosi,
per rassicurarlo sul proprio stato d’animo e per dirgli che non temeva nulla,
perché aveva imparato dal primo libro delle Tusculane
a disprezzare la morte.»
(Adolfo
Di Virginio, introduzione alle Tusculanae
disputationes, Mondadori 1996, pp. V-VIII)
24 gennaio
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