Di un «anticarduccianesimo postumo», come lo chiama Croce, e persistente
ancora ai giorni nostri fu portabandiera di primo piano Guido Fortebracci: «Severissimo, poi, il giudizio complessivo: campeggiava in
esso una parola, che correva per le bocche di molti: il Carducci non era un
“poeta”, ma un “professore”. “La sua poesia, meno pochissime eccezioni, ha un
vizio d’origine: è la poesia d’un professore, che non giunge mai a dimenticare
la cattedra. Di rado un avvenimento, un paesaggio l’ispira per sé medesimo.
L’avvenimento gli richiama alla memoria altri ricordi storici: il paese gli
ricorda passaggi di poeti”» (Benedetto
Croce, Giosue Carducci. Studio critico,
Bari, Laterza, 1961, p. 9)
Ma
l’ispirazione del Carducci fu, al contrario, antifilosofica e in quanto tale
autenticamente estranea a vincoli concettuali extra-estetici e non-poetici. Il
falso della retorica – quest’ultima essendo a sua volta indispensabile per dare
rilievo al vero, che da solo apparirebbe pallida cosa e impossibile perché
risulterebbe fuorviante e non credibile – è l’abituale etichetta entro la quale
si ritiene solitamente di racchiudere le prese di posizione duramente anticarducciane,
mentre è proprio tale elemento che da Croce è esaltato in termini di poesia. Il
Carducci storico e critico della letteratura si tenne estraneo alla «ispida
erudizione filologica, nemica delle Muse» (op.
cit., p. 108). Carattere della poesia è dunque il falso, una sorta di
menzogna morantiana costituitasi in alternativa e a integrazione della realtà
del tempo. Il carattere fantastico e astorico della rappresentazione estetica è
presente nel Carducci critico con l’affermazione:
«Se
la poesia è e ha da essere arte, ciò che dicesi forma è e ha da essere della
poesia almeno tre quarti»
e,
di più, quando si lascia andare a dichiarare espressamente:
«Il
falso è la materia e la forma dell’arte. Che sugo a favoleggiare di quello che
tutto giorno facciamo e vediamo?».
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