Escludendo
che sia una forma fisica, per Benedetto Croce l’arte è, desanctisianamente,
pura forma. Tanto il mondo fisico è irreale quanto l’arte è reale. L’estetica
fu il nucleo originario da cui si sviluppò a più riprese, con ampliamenti,
chiarimenti, nuove distinzioni e riaperture il pensiero successivo, a
cominciare proprio dall’Estetica come
scienza dell’espressione e linguistica generale (1902). Vent’anni dopo,
nell’avvertenza a Poesia e non poesia,
Croce ostentava indifferenza nei confronti di coloro che lo accusavano, o
avrebbero accusato di lì a poco, di fare critica della critica anziché critica
della poesia. Con le reiterazioni verbali che caratterizzano i passaggi
dialettici della sua scrittura, concludeva accettando la provocazione e
rilanciandola, ribadendo che «gl’inintelligenti non sanno che la critica della
poesia non può non formare tutt’uno con la critica della critica della poesia».
A dispetto delle estetiche edonistiche e
concettualistiche, per lui l’arte è intuizione lirica e non è legata a scopi
utilitaristici in quanto «i nostri interessi pratici, coi correlativi piaceri e
dolori, si mescolano, si confondono talvolta, lo perturbano, ma non si fondono
mai col nostro interesse estetico» (Breviario
di estetica. Quattro lezioni, Laterza, Bari 1958, p. 15). La critica della
critica viene ritenuta in tutto e soltanto negativa, Croce è stato visto, talvolta
in un’ottica conformistica o secondo la nietzscheana morale del gregge, come un
ripetitore di Hegel e primo responsabile della scissione tra filosofia e
scienza - concetto e pseudoconcetto – a discapito dell’unità del sapere. Si sa
che il bello è difficile, e qui non si vuole certo negare legittimità ad altri
metodi di ricerca, a cominciare dalla praxis
dei sistemi, o antisistemi, di comprensione (della storia) quale propedeutica
all’azione, dove però cessa ogni atto di pensiero o quantomeno la praxis costringe alla rettificazione
della teoria. La salvaguardia del carattere formale dell’arte sottrae il bello
alle filologie e mitografie pratiche e funzionali, per non parlare della
subordinazione dell’artista al committente e addirittura dell’impossibilità
metafisica che è l’estetica industriale. L’artista sa che il bello non fa la
rivoluzione ma la rivolta è insita nella trasformazione che impone col suo
stile al reale: «La civiltà ormai necessaria non potrà scindere, sia nelle
classi che nell’individuo, lavoratore e creatore; non più di quanto la
creazione artistica pensi a scindere forma e contenuto, spirito e storia»
(Albert Camus, L’uomo in rivolta,
trad. it. di Liliana Magrini, Milano, Bompiani, 2009⁶,
p. 299).
Croce esteta e non filosofo, Croce anacronistico:
il pregiudizio verso lo storicismo assoluto, quando si è anche dimenticata la lezione
estetico-storica di Vico dell'ideale fantastico, ha sempre attecchito in Italia,
prima che diventasse interamente crociana e dopo aver dimenticato di esserlo
stata per decenni. Queste etichette gli sono state affibbiate in quanto il “settore”
filosofico in questione è stato giudicato estraneo da parte di altre segmentazioni
del pensiero accademico o mode conformistiche e acriticamente gregarie, extra o
anti-filosofiche. Si è percepito insomma come settoriale quanto era andato svolgendosi
idealisticamente e si è rifiutata in blocco la sua proposta insieme, più in
generale, al problematicismo che è preferibile esercitare in luogo di una
visione unilaterale e dogmatica. Perciò al suo pensiero oggi si guarda ancora in
parte come a una serie inutilizzabile di strumenti di lettura della realtà e
quasi con imbarazzo e sconcerto. Nonostante lo sforzo di distinguere e mettere
ordine nel caos, con una prosa dall’armonia impareggiata più attinente a un
grande letterato che a un filosofo, attraverso una serie di antitesi che ogni
volta danno luogo ad altri opposti, Croce finirebbe per non cogliere la
molteplicità e contraddittorietà del reale escludendo per esempio la natura, il
morboso e il torbido, le lusinghe e l’energia propulsiva del sesso e
dell’irrazionale dalla sua visione antiquata. Eppure, in quanto atto teoretico
- ma senza avere carattere di conoscenza concettuale, benché sia suggestivo
considerarla sogno (non sonno) della vita noetica - l’intuizione è distinta da
qualsiasi ragion pratica e non è né morale né immorale. Il rapporto che viene a
stabilirsi non è tra il bello e l’idea ma tra il bello e il sentimento
indipendentemente dalla ripartizione di genere o dalle formule giornalistiche o
di scuola: «un’aspirazione chiusa nel giro di una rappresentazione, ecco
l’arte; e in essa l’aspirazione sta solo per la rappresentazione e la
rappresentazione solo per l’aspirazione. Epica e lirica, o dramma e lirica,
sono scolastiche divisioni dell’indivisibile: l’arte è sempre lirica, o, se si
vuole, epica e drammatica del sentimento» (Breviario
di estetica, p. 33).
Una larga accettazione dell’utilità
culturale dei letterati e dell’epigonismo sottrae Schiller al consueto connubio
goethiano e rivede in primo luogo le formule della retorica classica:
«Considerate invece sotto l’esclusivo aspetto della storia della poesia, e
ragionando con quella semplicità di cuore che non disdica siffatta storia, si
verrebbe alla naturale conclusione che lo Schiller le appartiene solo nella
categoria dei poeti secondarî: dato che codesta categoria sia da ammettere, con
avviso diverso da quello di Orazio, che la faceva rifiutare dagli dèi, dagli
uomini e dalle colonne. E poeti secondarî saranno quegli ingegnosi ed esperti
letterati che si valgono delle forme artistiche già trovate, si aiutano con la
riflessione, la arricchiscono di osservazioni psicologiche e sociali e
naturali, per comporne opere elevate, istruttive o gradevoli. Sennati e
decorosi scrittori e non però poeti: la qual cosa non toglie che le loro opere
possano talvolta tornare assai accette, e, a modo loro, più “utili” di quelle
dei poeti veri» (Poesia e non poesia.
Note sulla letteratura europea del secolo decimonono, Bari, Laterza, 1946, p.
26).
Un motivo della distinzione tra poesia e
non poesia è nella procedura assolutamente non quantitativa partendo
dall’intuizione sintetica a priori
indipendentemente dal quot di
realizzazione materiale (per cui, però, l’effettualità esplicita
dell’intenzionalità letteraria non potrebbe non darsi) come nel caso di Ugo
Foscolo sul quale il giudizio è superlativo: «egli fu poeta, purissimo poeta,
autore di pochi versi ma perfetti ed eterni. L’animo poetico si sente nelle
stesse sue prose, nelle quali, specie nelle prime, quell’impeto non lascia che
la prosa si equilibrî e si adagi come prosa, sebbene le conferisca forza e
colori; o anche impaccia le disposizioni e le proposizioni logiche delle sue
trattazioni, come si vede nel discorso inaugurale sull’ufficio della
letteratura» (op. cit., p. 76).
Non così per Leopardi: su di lui la
famosa stroncatura, già lamentata da Siro Attilio Nulli («lo stesso Croce, partendo
dalla poesia del Leopardi, non ha potuto trascurare di dare un giudizio anche
sulla sua vita, definendola una vita
strozzata. Definizione che par contenere un po’ di disprezzo e che quasi implicitamente apre la via alla limitazione
del valore complessivo della lirica leopardiana, come lirica strozzata!»,
Giacomo Leopardi. La persona – Il
pensatore – L’artista, introduzione a Giacomo
Leopardi, Poesie e prose, Milano, Hoepli, 1973, p. XI), pesa come un
giudizio incomprensibile, e questo è stato uno degli elementi che ha rallentato
la ripresa nell’ambito accademico e della critica militante degli studi
crociani. Il filosofo peraltro scrisse testualmente: «Fu, per dirla con
un’immagine rozza ma efficace, una vita strozzata» (Poesia e non poesia, pp. 101-102); «C’è del malsano in quelle prose
e in quelle palinodie e paralipomeni, e lo stesso De Sanctis fu tratto a
parlare del “cattivo riso che vi si avverte, e delle “coltellate” che lo
scrittore tenta di dare “con la gioia di chi si vendica”, e di un’”inimicizia
per la stirpe umana, nella quale si sente il repulso» (op. cit., p.
106); «L’esposizione di una serie di pensieri, di un catechismo pessimistico, e
l’asserzione di una rassegnazione disperata, di una rinunzia o di un
rinnegamento, sono di là o di qua dalla poesia» (op. cit., pp. 107-108).
Detto questo, occorre puntualizzare che
deve pur esserci un modo per classificare ai fini del giudizio filosofico le
intuizioni artistiche. Questo necessario ordine di connessione è dato dalla
storia, dove «ciascuna opera d’arte prende il posto che le spetta, quello e non
altro: la ballatetta di Guido Cavalcanti e il sonetto di Cecco Angiolieri, che
sembrano il sospiro o il riso di un istante, e la Commedia di Dante, che pare compendiare in sé un millennio dello
spirito umano […], e il cinquecentesco rifacimento dell’Eneide di Annibal Caro, l’asciutta prosa del Sarpi e quella
gesuitico-frondosa di Daniello Bartoli» (Breviario
di estetica, p. 59). L’arte è
esclusa dalla dipendenza etica, politica e scientifica e dalla divulgazione e
volgarizzazione filosofica. Se vuol essere altra attività (morale, piacere o
filosofia) non è arte ma è morale o piacere o filosofia. Oziosa e inconcludente
è la tesi – contraddittoria, per giunta – secondo la quale l’attività estetica
sia sottoposta a una dignità superiore «e (come un tempo si diceva) faccia da
ancella all’etica, da ministra alla politica, e da turcimanna alla scienza» (op. cit., p. 62).
Un criterio di giudizio imprescindibile
è dunque la distinzione tra intuizione vera e intuizione falsa, tra poesia e
non poesia, l’immagine elaborata a fini organici (i soli validi sotto il
profilo estetico) e l’altra combinata per fini meccanici. L’arte è estranea ai
parametri quantitativi, non c’è differenza tra i pochi versi di un testo
poetico anche breve e un intero, lungo poema o tra gli schizzi di un pittore e
i suoi eventuali piccoli quadri. Una lettera vale quanto un romanzo, una
versione da una lingua antica o straniera equivale e a volte supera l’originale
che l’ha stimolata.
Sandro De Fazi per Eidoteca, 31 maggio 2013
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