A un sedicente scrittore viene in mente presuntuosamente di apparire in una pubblicazione insieme a una scrittrice che però letterariamente è molto più stimata di lui. Lei è in imbarazzo, non sa come comportarsi; un suo amico, un critico di nome, molto influente, la scoraggia dal dar luogo all'iniziativa, pur non avendo nulla contro un'ulteriore frequentazione del tizio; anzi, si incazza al punto che è la scrittrice, paradossalmente, a prendere le parti del sedicente scrittore. Accade però che nel frattempo i rapporti tra il sedicente scrittore e la scrittrice si tendono, fino a compromettere definitivamente la proposta di contratto, che lei decide di annullare. Intanto il sedicente scrittore continua ad avere rapporti, per tornaconto personale, col critico mentre il critico e la scrittrice hanno rotto clamorosamente per motivi extraletterari ma sui quali ha gravato la presa di posizione del sedicente scrittore. Chi ha ragione?
domenica 13 maggio 2012
venerdì 11 maggio 2012
Il problema del tempo in Agostino: αἰῶν e χρόνος
Per quanto riguarda il problema del tempo, nelle
Confessioni di Agostino esiste la relazione tempo-pensiero come
interiorizzazione ed estensione dell’anima. “Una fondamentale innovazione nella
problematica del tempo è introdotta – nel pensiero occidentale – dal
Cristianesimo, e rappresentata dalla concezione agostiniana che si incentra
essenzialmente sul sentimento della durata. La sua totale interiorizzazione e
riduzione a ‘estensione dell’anima’, a successione di stati psichici, situano
nell’autocoscienza della dinamica interiore il futuro, il presente, il passato
(dove del futuro l’anima ha l’aspettazione, del presente l’intuizione, del
passato la memoria). Il tempo è il solo modo interiore di esprimere se stessi
come creature di Dio, perciò Agostino può definirlo specificamente come una
tensione dell’anima verso il futuro; ciò non di meno questo futuro è
teologicamente al di là delle storie empiriche, perché Agostino formula regole
permanenti per una natura apparentemente extratemporale.”[1]
L’anima umana sente il tempo e misura il
tempo; nel sentirlo è la sua interiorizzazione, nel misurarlo la sua
estensione: “Vediamo un po’ ora, o anima umana, se possa essere lungo il tempo
presente; hai ricevuto infatti il potere di sentire e di misurare la durata.
Che cosa mi risponderai? Cento anni presenti son forse un tempo lungo? Esamina
prima se possano essere presenti cento anni. Se sta passando il primo di essi,
questo è presente, ma gli altri novantanove sono futuri, dunque non esistono
ancora; se si tratta dell’anno numero due, uno è passato, il secondo è
presente, tutti gli altri futuri. Così è per tutti gli anni intermedi;
qualunque tu prenda, da una parte stanno quelli passati, dall’altra i futuri.
Dunque cento anni non possono essere considerati presenti” (XI, 15). Nemmeno
l’anno in corso è considerabile presente, perché l’anno è fatto di vari mesi, i
mesi di giorni, i giorni di ore, ecc. E altrove: “O Tu che regni su tutta la
tua creazione, per quali vie fai conoscere alle anime gli avvenimenti futuri?”
(XI, 19).
È l’anima che conosce, attraverso la propria
estensione e l’interiorizzazione del rapporto con Dio. La misura e la durata
del tempo sono nell’anima:
“L’animo attende, presta attenzione, ricorda:
in modo che quello che attende, attraverso il suo sviluppo nel presente, passi
nel ricordo. Chi potrebbe negare che il futuro non esiste ancora? Ma nell’animo
vive l’attesa del futuro. Chi potrebbe negare che il passato non esiste più? Ma
nell’animo vive la memoria del passato. E chi negherà che il tempo presente
manca di estensione perché non è che un punto transeunte? Ma dura l’attenzione attraverso
la quale il futuro tende al passato. Non si può avere dunque un futuro lungo –
non esiste ancora -, ma il lungo futuro è la lunga attesa del futuro; non si
può avere un passato lungo – non esiste più -, ma il lungo passato è il lungo
ricordo del passato” (XI, 28).
In Agostino il tempo è inteso inoltre come
condizione mondana della storia, come dissipazione peccaminosa, come
smembramento e tumulto delle vicende, mentre l’eternità non ha storia, né
conosce tempo:
“Poiché più cara che la vita è la tua grazia,
e la mia vita è dissipazione e la tua mano mi ha raccolto nel mio Signore, il
Figliuol dell’uomo, mediatore fra Te, l’Unico, e noi, la moltitudine, mediatore
dei molti attraverso molte vie, affinché per Lui, a Colui mi stringa che in Lui
mi ha stretto a sé, e, liberato dai giorni antichi, mi raccolga nel seguito
dell’Unico, dimentico del passato, non più rivolto alle cose future e
transitorie, ma proteso verso ciò che mi sta davanti, non in dissipazione ma in
tensione di spirito – io Lo seguo a cogliere la palma della celeste chiamata,
là dove ascolterò il canto delle lodi, contemplerò il tuo gaudio che non ha
futuro né passato” (XI, 29).
Per Agostino esistono tre tempi, distinti,
appunto, dalla dimensione dell’eternità: passato, presente e futuro; il
filosofo si spinge a chiedersi dove materialmente esistano i tre tempi,
e in quale direzione scorrano, in quella che Emanuele Riverso chiama “mentalità
cosificante di Agostino, che gli aveva creato perfino difficoltà a concepire
Dio in modo incorporeo.”[2]
Addirittura Agostino giunge anche a rispondere a tale interrogativo: il tempo
procede, attraverso il presente, dal futuro in direzione del passato, “ossia:
da ciò che non è ancora, attraverso ciò che non ha spazio, in ciò che non
esiste più” (XI, 21).
Qui è abbandonato il concetto pagano della
ciclicità del tempo a vantaggio della direzione lineare-progressiva, anche se
Agostino non è in grado di definire che cosa sia il tempo; scrive Riverso:
“egli conosce gli usi linguistici dei termini temporali (avverbi, forme
verbali, ecc.), ma non è in grado di costruire un enunciato definitorio, che
possa linguisticamente equivalere alla parola ‘tempo’ intesa come termine
denotante ed essere sostituito ad essa, in tutti i casi in cui questa compare,
lasciando inalterato il senso dei discorsi.”[3]
In effetti, i risultati delle analisi agostiniane sul concetto di tempo sono insoddisfacenti,
anzi talora, come perfino grossolani, ma il problema è che le fonti
dell’elaborazione filosofica del vescovo di Ippona sono essenzialmente
aristoteliche e plotiniane, e le affermazioni in questione vanno criticate alla
luce di un inquadramento storico, per comprendere quali fossero i concreti
mezzi speculativi a disposizione del filosofo. Riverso chiarisce questo aspetto,
parlando del metodo analitico agostiniano: “Si tratta di un metodo analitico da
lui abbozzato in conformità con lo stile delle ricerche tipiche dei dialoghi
platonici, in cui si procede mediante successive proposte di congetture, che
vengono formulate, valutate, a volte respinte, a volte superate, a volte
ribadite. In queste proposte c’è lo sforzo costante di partire dalle
espressioni del linguaggio ordinario e dalle constatazioni di senso comune, per
passare a chiarificazioni filosofiche di queste attraverso l’introduzione di
usi linguistici nuovi, assunti come maggiormente rigorosi. “I limiti del
tentativo analitico agostiniano stanno nel fatto che egli non riuscì ad
utilizzare questo metodo con molta sottigliezza, abilità e avvedutezza, perché
a suo tempo la filosofia critica ed analitica non disponeva ancora di strumenti
molto raffinati, né di un’esperienza sufficientemente ricca.”[4]
È il caso dunque di accennare brevemente alle
due tappe salienti del pensiero antico che sono costituite dalle analisi
platonica ed aristotelica del concetto greco di tempo. Platone codificò due usi
linguistici della parola “tempo”, derivati dalla filosofia precedente e dalla
lingua comune: αἰῶν
e χρόνος, cioè un tempo eterno e un tempo legato
alle cose sensibili, coerentemente nell’ambito del sistema filosofico
platonico.
Platone “creando una netta distinzione ed un
preciso contrasto, ma anche una determinata somiglianza fra i significati di
queste due parole (‘aiôn’ e ‘chrónos’ ), caratterizzava,
attraverso questo contrasto e questa somiglianza, i concetti di eternità e
tempo. Si tratta di un contrasto che si aggancia al contrasto fra il
mondo degli éide e il mondo sensibile, ed una somiglianza che si
connette alla tesi che il mondo sensibile sia fatto ad imitazione del mondo
degli éide.”[5]
Ma che cosa è il tempo? Per dare una
risposta, toccava ad Aristotele ristrutturare la prassi linguistica comune;
egli risponde che il tempo è “’il numero del movimento secondo il prima e il
dopo’ (arithmòs kinêseos katà tò próteron kài hústeron) (Aristotele, Physica, IV, 11, 219b1 e
220a24-25).”[6]
Aristotele passa a esaminare i termini da lui usati: numero, movimento, prima,
dopo. Gli ultimi due vengono spiegati in posizione locale, quindi il movimento
determina il tempo trascorso per compiere quel determinato movimento, infine la
parola “numero” esprime una misura del tempo, ossia del movimento necessario al
compiersi di quel tempo.
Napoli,
settembre 1989.
[1] Ornella De
Sanctis, L’educazione e il moderno, Napoli, Liguori, 1989, p. 89.
[2] Emanuele
Riverso, Filosofia analitica del tempo, Roma, Armando, 1979, p. 37.
[3] op. cit., p. 36.
[4] op. cit., pp. 43-44.
[5] op. cit., p. 18.
martedì 1 maggio 2012
Romanzo-saggio
Contro
Sainte-Beuve di Marcel Proust – che intanto non è una pre-Recherche – è un saggio incorporato al romanzo o un romanzo
incorporato al saggio? I materiali utilizzati sono i più disparati, tanto
quelli narrativi preparatori alla Recherche
quanto quelli critici su Sainte-Beuve, Baudelaire, Balzac. Nella Recherche Sainte-Beuve è Madame de
Villeparisis o quantomeno a lei sono attribuiti quelli che l’autore considera
errori di Sainte-Beuve: 1) la questione dell’”io” dello scrittore che per
Proust non coincide con l’”io” anagrafico, o esistenziale, ma con un “io” più
profondo e diverso dall’altro; 2) la questione della qualità dell’opera per
Proust non riguarda la vita privata dell’”io” anagrafico: non esiste alcun
rapporto tra vita e opera in termini valoriali (questa problematica era già
stata presente nel Jean Santeuil).
Ma fino a che punto questi due “io” sono
diversi? La semantica psicanalitica è in grado di tentare alcune
risposte e Lacan, dichiarandosi neutrale nei confronti tanto di Sainte-Beuve
quanto di Proust, invitava ad applicare la psicanalisi non ai dati esistenziali
ma all'opera, perché è lì e non nella vita che si manifesta più
profondamente lo scrittore.
La Recherche
va tutta quanta in direzione sbagliata, programmaticamente, per volontà del suo
autore, questa è la sua grandezza e il suo fascino, la sua essenziale inutilità
di opera d’arte (lo stesso Narratore è a suo modo un analista freudiano del
proprio racconto). “Il più grande dolore della mia vita? La morte di Lucien de
Rubempré in Splendeurs et misères des
cortigianes!” disse Oscar Wilde nella prima parte della sua vita. Un’intuizione di Proust è stata quella di averci fatto
intravedere che i grandi scrittori di ogni epoca sono un unico genio che
attraverso le molte epoche, non senza contraddizioni, vive ripercorrendo la
storia dell’umanità. (cfr. Sainte-Beuve e
Balzac, in Contro Sainte-Beuve).
“Uno
scrittore che possiede del genio a intervalli, per poter condurre il resto del tempo una piacevole esistenza di
dilettantismo mondano e letterario, è una concezione altrettanto falsa e
ingenua di quella d’un santo il quale conduca la più elevata vita morale al
fine di poter godere in paradiso d’una vita di piaceri volgari” (op. cit., Einaudi 1991, p. 78). E
qualche riga dopo continua: “Spesso la signora di Guermantes, quando andavo a
trovarla, se si accorgeva che i suoi visitatori si annoiavano, mi diceva: -
Volete salire a trovare Henri? Dice che non c’è, ma voi, sarà felice di
vedervi!” – E siamo già ai toni narrativi della Recherche.
“Per uno scrittore, infatti, quando legge un libro, l’esattezza
dell’osservazione sociale, il partito preso del pessimismo, o dell’ottimismo,
sono dati di fatto che egli non discute, di cui non si accorge neppure. Ma per
i lettori ‘intelligenti’ il fatto che il racconto sia ‘falso’ o ‘triste’ è come
un difetto personale dello scrittore, difetto che essi sono stupiti e
abbastanza estasiati di ritrovare, anche esagerato, in tutti i suoi libri, come
se non avesse saputo emendarsene, e che finisce per conferirgli ai loro occhi
il carattere antipatico di una persona senza criterio o che induce al malumore
e che è meglio non frequentare, così che ogni volta che il libraio presenta
loro un libro di Balzac o di George Eliot, rispondono rifiutandolo: “Oh, no!
sono sempre falsi, o tetri, l’ultimo ancor più di tutti gli altri, non ne
voglio più” (ibidem, pp. 84-85).
Su Balzac neppure
Sainte-Beuve aveva tutti i torti, infine:
“In quel salotto
Madame de Sérizy non era ricevuta, benché fosse nata Ronquerolles” (Balzac, Splendeurs et misères des cortigianes,
XV).
“Ma, siccome qui si
scorge la mano di Balzac, si crede un po’ meno all’esistenza di quei Grandlieu
che non ricevevano la signora de Sérizy” (Proust, op. cit., p. 90).
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