Anche l’eros si fa materia e luce: i suoi moti si caricano di intensità, e la passione si manifesta come se la scrittura potesse trattenere l’invisibile e renderlo tangibile.
Parerga e paralipomena
Questa estate mi trovo spesso in una piscina pubblica, luogo apparentemente ordinario ma sorprendentemente fertile per pensieri e osservazioni. Lì il tempo non è quello canonico della “vacanza” massiva: non si tratta di aggregazioni uniformi, di folle che si spostano come flussi indistinti, di consumi replicati e di gesti stereotipati. Al contrario, l’esperienza acquatica si svolge in un ritmo proprio, sospeso, dove l’osservazione e la concentrazione diventano un piccolo atto di libertà.
Ogni gesto – una nuotata, una chiacchiera silenziosa, un'osservazione fugace – assume peso e significato. La piscina diventa così un laboratorio di vita quotidiana, un microcosmo in cui l’individuo può confrontarsi col tempo, con lo spazio e con le altre presenze senza cedere alla logica del consumo di vacanza. In questo senso, ogni giorno trascorso lì è una piccola resistenza alla standardizzazione del piacere.
Più avanti, ho in programma di raggiungere quel di Orvieto, ma anche questo viaggio non è concepito come evasione dai giorni ordinari: lo vedo come occasione per incontrare luoghi e atmosfere in modo riflessivo, lento, intenzionale. Un percorso che non cede alla superficialità della vacanza massiva, ma che coltiva la percezione, l’esperienza e l’attenzione.
In questa estate, dunque, tra
acqua, libri, spunti vitaliastici e luoghi da scoprire, continuo a coltivare la
mia forma di osservatorio: un tempo personale, non consumistico, dove anche le
piccole routine quotidiane diventano materia di riflessione e di scrittura.
Dopo anni di parole sparse tra libri, riviste e antologie, grazie a ChatGPT ho
finalmente messo ordine nella mia bibliografia. Qui trovate tutta la mia
produzione finora, organizzata cronologicamente e per genere, una mappa dei
miei pensieri, delle mie storie e delle mie poesie.
Questa bibliografia
non è soltanto un elenco: è uno specchio della mia attività creativa e
riflessiva, e può essere letta come un piccolo laboratorio di sociologia della
letteratura. Attraverso la poesia, la narrativa e la saggistica, emerge un
dialogo costante con il contesto culturale e sociale in cui le opere sono nate,
un’interazione tra il singolo autore e le strutture più ampie del discorso
letterario italiano e internazionale.
Le categorie non
sono mai rigide: ogni opera dialoga con più registri e orizzonti, oscillando
tra il soggettivo e l’universale, tra l’intimo e il collettivo.
📜
POESIA
La poesia raccoglie
frammenti di esperienza e intuizione, riflettendo sui modelli culturali e sui
percorsi interiori.
→ “Vacuo cielo” –
Gabrieli editore, 1986
→ Poesie, in Poeti e Poesia, rivista internazionale, direttore Elio Pecora –
Pagine, 2008
→ “Chiesi al vento di Tivoli”, prefazione di Marco Cappadonia Mastrolorenzi –
Controluna, 2019
📖
NARRATIVA
La narrativa
esplora vite e vicende che, pur individuali, contengono tensioni storiche,
sociali e psicologiche più ampie, e raccontano l’interazione tra persona e
società.
→ “Una storia così
vana” – s.i.p., 2021
→ “Eugenio” – Supernova, 2021
→ “Intrigo” – Il Seme Bianco, 2023
→ “Gli angeli assurdi” – Il Seme Bianco, 2025
📝 SAGGISTICA
La saggistica
testimonia un impegno critico verso la filosofia, la letteratura e la storia
delle idee, dialogando con contesti culturali ampi e multidisciplinari.
→ “Il tempo come
progresso: tra παιδεία e moderno” – pubblicato su Academia.edu, 1990
→ “Ti scrivo brevemente per chiederti scusa dei miei silenzi. Vita di Gaetano
Dimatteo”, prefazione di Elio Pecora – Edizioni Libreria Croce, 2009
→ “Il circolo vizioso” – pubblicato su Academia.edu, 2007
→ “Il dramma dell’ultimo Virgilio” – Edizioni Saecula, 2017
→ “Defending Bosie”, prefazione di Paolo Crimaldi – Telemaco Edizioni, 2018
→ “La vita di Beatrice” – s.i.p., 2023
📚
CONTRIBUTI IN ANTOLOGIE, ANNUARI E RIVISTE
Questi contributi
mostrano la mia partecipazione a reti culturali più ampie, dialogando con altri
autori e con lettori diversi, e contribuendo a plasmare spazi collettivi di
riflessione.
→ “Ma ampio,
amplissimo”, in Arianna – Book Editore, 1991
→ “Intuisti”, in Dimensione Poesia – Edizioni Il Calamaio, 1996
→ “Filastrocca – Tu sei la vita – In macchina, procedendo in mezzo al traffico”,
in Noi, nuovi poeti – Gabrieli editore, 1998
→ “Più romano che greco”, in Off-side 3 – Edizioni Libreria Croce, 2000
→ “Scheda personale”, in Grande Annuario 2007 – Gabrieli editore, 2007
— — Mancano miei
contributi a riviste cartacee e online (recensioni di libri, articoli ecc.), ma
per quelli consultare questo mio blog: sandrodefazi.blogspot.com
“Tutto si è capovolto. Ciò che era improbabile si è fatto scontato. Non credo nel sistema, la vita è aforisma, è ossimoro. Tutto è da improvvisare. Avventura.
Un baraccone.
Il memoriale di un pazzo.
Un saggio filosofico asistematico.
Un romanzo destrutturato.
Un'autobiografia immaginaria.
Un dialogo con sordi
Una tragedia burlesca.
Una commedia surreale.
Un documento inattendibile.
Un fumetto insulso.
Una chiave magica.
Un testamento.
Una poesia.
Uno zibaldone.”
Gli angeli assurdi, pp. 64-65.
Ci sono libri che non si leggono soltanto.
Si attraversano.
Gli angeli assurdi di Sandro De Fazi è uno di questi.
È un libro che resta sulla soglia, come certe persone che ci hanno sfiorato
senza mai entrare davvero. È fatto di sospiri trattenuti, di gesti mai
compiuti, di desideri custoditi nel silenzio.
Di contrasto è intriso anche di pura razionalità.
Sandro De Fazi scrive con la precisione di un filosofo e la fragilità di
chi sente troppo. Ogni frase è un frammento di ciò che avrebbe potuto essere:
incontri che accadono solo nella mente, dialoghi immaginati, carezze mai date,
ma intensissime nella loro mancanza.
L’ho letto con attenzione profonda, come se ogni pagina mi parlasse anche
delle mie attese, dei miei non detti.
C’è qualcosa di raro in questa scrittura: il coraggio di restare fermi, di
non trasformare il desiderio in conquista, ma in parola.
E forse proprio lì, nella rinuncia, nella ritrosia, nasce la sua forza.
Perché Sandro riesce a rendere eterno ciò che per la maggior parte di noi
sarebbe passato senza lasciare traccia.
Benvenuti in questo romanzo-diario segreto.
Leggetelo attentamente: vi parlerà più con quello che non dice, che con
quello che racconta.
(25 giugno 2025)
GIÀ IN PRE-ORDER SUI PRINCIPALI STORES E DAL 10 APRILE IN LIBRERIA
Che l’estetica abbia carattere filosofico e speculativo a differenza delle
poetiche che invece sono storiche (e mutevoli: romanticismo, naturalismo,
verismo) e prescrittive è un’ormai classica distinzione posta da Luigi Pareyson
nella sua teoria della performatività. L’importante è che l’artista operi,
perciò sul piano estetico le poetiche sono tutte ugualmente legittime. Ma se le
poetiche sono storiche e mutevoli, l’estetica si basa su un’altra storicità: quella
dell’unità fondamentale del pensiero filosofico. Siamo convinti che questo
discorso riguarda le belle lettere non meno delle belle arti, se solo si pensa
che il neoclassicismo nacque da Winckelmann per estendersi alla letteratura europea,
senza escludere le arti sviluppatesi da circa un paio di secoli a questa parte
o negli ultimi decenni. Tutto il
saggio intitolato I piedi del mondo
che ha come sottotitolo Come le scarpe
Nike hanno rivoluzionato l’immaginario globale (Luiss University Press,
2024) di Tommaso Ariemma parte dal seguente presupposto: il riferimento ellenico
a Atena Nike (leggendo il nome grecamente) come fondamento cui alludono le sneakers di marca Nike (leggendolo
all’americana) costituisce un momento se non di vittoria almeno di resistenza,
di vitalità, di libertà non senza qualcosa di furtivo, in termini di
sottrazione al destino dell’Occidente minacciato in primo luogo da sé, come la
cronaca di questi mesi e giorni ci insinua con inquietante insistenza.
Ariemma ha dato molti contributi alla pop filosofia e di estetica si occupa anche come docente. Questo, si potrebbe azzardare estremizzando, è in fondo un libro sulla morte o, meglio, sul senso di perdita del passato cui paradossalmente le nuove tecnologie ci spingono quando sembrano immortalare le nostre memorie e le nostre esperienze di vita, in quanto nessuna epoca ha mai avuto a disposizione tanti dati come la nostra, nessuna si rivela così effimera. Per Ariemma, se il mondo greco era unitario, quello attuale è contraddistinto da una dinamicità che pur vuol assurgere a unità, perciò ne vengono molteplici spunti iniziando da Martin Heidegger che analizzava le scarpe dipinte da van Gogh dando così dignità di analisi filosofica all’oggetto destinato a diventare iperoggetto, a Marshall McLuhan secondo il quale ciò che indossiamo è il medium più antico nel rapporto col mondo, sicché – scrive Ariemma - «non c’è, a rigore, un oggetto più “sintetico” di una scarpa, capace di riunire in sé ogni aspetto fondamentale del reale, operando così la più sorprendente delle sintesi tra piedi e mondo» (p. 27). Ancora il compianto Gianni Vattimo è convocato per le sue analisi della postmodernità, Werner Jaeger per la sua monumentale e imprescindibile Paideia. Di grande suggestione è il resoconto che l’autore ci fa del viaggio di Heidegger in Grecia nel 1962, lo stesso anno in cui vi si recò il ventiquattrenne Phil Knight, futuro fondatore del marchio (p. 48 e sgg). Quest’ultimo rimase molto colpito nel vedere, al museo dell’Acropoli, la statua di Atena Nike intenta a sistemarsi un sandalo, Heidegger da parte sua rimane affascinato dall’assenza nel Partenone della dea fuggita. Tale assenza finisce per essere se non una presenza quantomeno una traccia, heideggerianamente una traccia della traccia lasciata dalla dea che, insieme agli altri dèi, è fuggita. In quella circostanza a Knight venne in mente il nome Nike da dare alla sua azienda.
Non dubitiamo che l’outfit sia espressione di scelte culturali proprio nel rapporto col mondo, la moda appartiene a tale vicenda come nella famosa operetta morale leopardiana dove essa dialoga con la morte, sempre nell’avvicendarsi contestuale di éros e thánatos. Ma le parafilie studiate da Krafft-Ebing e da Wilhelm Stekel, in testi ormai peraltro datati, però non c’entrano molto, nemmeno l’esilarante Piedi. Pensieri per un feticista di Laura De Luca. Ci è capitato in passato di occuparci de Le regole del mio stile di Lapo Elkann, che è un vero manuale di antropologia della moda, e cogliamo una singolare coincidenza dal momento che I piedi del mondo si conclude citando l’ottusa polemica della quale fu fatto oggetto tempo fa un articolo dello scrittore Alain Elkann, accusato di classismo laddove in treno stava giustamente cogliendo un preciso mutamento antropologico in un gruppo di ragazzotti. Si tratta di una rivoluzione, secondo ciò che è evocato dal sottotitolo del libro di Tommaso Ariemma, in atto da tempo, dal famigerato edonismo reaganiano degli anni Ottanta per proseguire con l’affermarsi sempre più radicale della digitalizzazione, dal VHS ormai diventato obsoleto al DVD che neppure gode ottima salute, al personal computer, allo smart, al tablet e quant’altro. Ma il nostro giudizio sulla rete è infine positivo, essa fornisce risorse e possibilità un tempo impensabili, sempre però attuandone un corretto utilizzo: troppe incongruenze nella comunicazione e troppi narcisismi autoreferenziali imperversano. Le Nike (ma perché no, per estensione, le Gems o le Reebock?) assurgono così a simbologia alternativa di un movimento pur sempre dentro il mondo.
Sandro De
Fazi
Marzo 2025
Estasi per la bellezza
Difficilmente si potrebbe sostenere che tra Thomas Mann e
l’esperienza estetica del circolo di Stefan George corresse buon sangue, benché
Klaus Mann diventasse in futuro uno dei suoi simpatizzanti. Ma Klaus, a
differenza di Thomas, viveva apertamente la propria omosessualità senza
trincerarsi dietro la facciata della morale borghese presente nel libretto del
padre intitolato Sul matrimonio del 1925,
dove si schierava pubblicamente contro lo stile di vita libertino, lo stesso
che caratterizzò le scelte dei figli Klaus ed Erika. L’autore de La morte a Venezia stabiliva un
singolare binomio fatto di bellezza e morte; l’amore tra persone dello stesso sesso
veniva equiparato all’art pour l’art poiché
non è riproduttivo e dunque è fine a se stesso e non vitale. L’omosessualità
nel piccolo saggio è associata alla morte, non esiste benedizione in essa «se
non quella della bellezza che è benedizione di morte. Le mancano le benedizioni
della natura e della vita» (trad. it. di Italo A. Chiusano, Feltrinelli, 1993,
p. 38): argomenti fortemente obsoleti, risalenti a momenti storici molto
lontani da noi, fortunatamente non presenti negli stessi termini nell’opera
letteraria né tantomeno nei diari. Qui sta parlando Thomas Mann con la sua facies pubblica. Il cosiddetto amore
libero è per lui «amore infecondo, senza speranza, irresponsabile e incoerente.
Nulla nasce da esso, non è la base di nulla, non è che l’art pour l’art, forse un’assai libera e superba cosa dal punto di
vista estetico e però immorale, senza alcun dubbio» (ibidem). L’argomentazione, sostenuta dalla sua inconfondibile
prosa, ha un suo fascino ambiguo anche quando si richiama all’antichità, non
tenendo però conto del fatto che la pseudo-omosessualità greca – “pseudo-” in
quanto non vi era percezione etica nel mondo antico, pur tra rigorose
regolamentazioni, di una differenza, o “diversità” che il cristianesimo nella
sua più chiusa istituzionalizzazione pratica tenderà successivamente a
demonizzare – se non è produttiva di figli, lo è di sapere filosofico. Qui la
massima concessione è che l’omosessualità è l’arte e il matrimonio è la vita
morale.
Katja
Pringsheim fu contenta dell’omaggio ma era perfettamente al corrente
dell’attrazione provata dal marito per ragazzi e giovani uomini, dato che era
lui stesso a parlargliene, il che la dice lunga sull’apertura mentale di lei;
sappiamo della sua pazienza e comprensione nei momenti non infrequenti in cui Thomas
si mostrava fisicamente refrattario ad avere rapporti intimi. Perciò, se ci si
addentra nel perché e nel come del dissidio col George-Kreis, gruppo decisamente schierato a favore della mimesi
dionisiaca, querelle nella quale si
faceva a gara a darsi del borghese e antiborghese a vicenda, ora in difesa e
ora contro la Germania con tutto quel che, di lì a poco, avrebbe
drammaticamente significato, non se ne esce facilmente: «Mi ricordo bene con
quali parole, a quanto mi hanno riferito, Stefan George ha respinto i miei Buddenbrook: “No,” disse, “questa roba
non fa per me. È ancora musica e decadenza”. Ancora? Una tarda, anzi attardata
borghesia faceva dunque di me un confessore della decadenza» scrive nelle Considerazioni di un impolitico (a cura
di Marianello Marianelli e Marlis Ingenmey, Adelphi, 2005, p. 123), saggio di
proporzioni mastodontiche dove prende di mira, attaccando implicitamente il
fratello Heinrich, la pretesa dello Stato democratico di basarsi su premesse
illuministiche. E risponde a George per le rime. Il Thomas Mann che parla con
la sua facies pubblica in taluni casi
afferma esattamente il contrario di quanto ci si aspetterebbe da uno che ha
scritto i capolavori che conosciamo. Ma pure nell’opera ci sono nodi
concettuali difficili da sciogliere. Di qui però una delle ragioni della sua
attrattiva e della sua grandezza: la fedeltà al modello goethiano nel far
coincidere gli opposti.
Tutt’altra
impostazione in Stefan George, più esplicito e diretto alla sua maniera. Se
Mann accoglie nella sua opera la società borghese criticandola, George la
esclude del tutto, rigetta interamente la vita sociale della sua
contemporaneità, da lui percepita come perdizione. A Mann non sarebbe mai
venuto in mente di condividere da vicino il proprio culto per l’arte con una
ristretta cerchia di mistici adoratori della bellezza maschile, né tantomeno di
esprimersi in poesia anziché nella forma-romanzo e nel romanzo-saggio, sempre a
lui più congeniali, essendo la prosa narrativa, forse per la sua tendenza
mimetica, tradizionalmente molto frequentata dalla borghesia colta. La visione
aristocratica di George «non ammetteva fratellanze: in lui non c’è che il genio
creatore e la massa bruta, senza stati intermedi, senza mediazione, senza
comunità di sorta» (György Luckács, Breve
storia della letteratura tedesca, trad. it. di Cesare Cases, Einaudi, 1976,
pp. 149-150). Ciò è interessante in quanto George sceglie proprio la poesia,
già al tempo genere letterario d’élite,
come medium privilegiato per la sua
tenace opposizione alla società di massa. E questo ha anche del paradossale,
poiché appunto la massa non vuol arrivare direttamente alla poesia, mentre
l’unica comunità che George ammette è quella del suo gruppo.
Primato del sentimento
Il George-Kreis era
una comunità di amanti (poeti, scrittori, filosofi, intellettuali di varia
tipologia) stabilita su una rigorosa selezione naturale, si direbbe una
realizzazione aggiornata del Simposio
platonico, e viene fatto di pensare più a una tenace operazione di resistenza e
autocostruzione di sé che non a una cerchia fondata su intenti di propaganda
culturale e politica. Quanti vi aderivano dovevano per statuto essere tutti
uomini, tutti omosessuali e tutti belli; altro tratto peculiare era costituito
dall’elemento erotico. È facile prevedere come tutto questo sfociasse in un
vero e proprio misticismo, non impervio a implicazioni carnali. Col tempo
George, da primus inter pares che era
all’inizio, diventò il leader indiscusso
del gruppo, trattato come sacerdote secondo un cerimoniale ben preciso. Sia
chiaro che i sostenitori esterni, non necessariamente aderenti a tutte le
istanze del Kreis (ne fece parte per
qualche tempo pure Rilke), furono tanti e della più svariata estrazione,
affratellati dalla medesima motivazione antiborghese, categoria che oggi non ci
dice più molto ma all’epoca aveva ancora un significato. Marco Fraquelli ha ben
analizzato le caratteristiche del gruppo, inconfondibile soprattutto quando
emerse il giovanissimo poeta Maximilian Kronberger, lo studente di liceo del
quale George si innamorò e Maximin (così veniva chiamato) diventò fatalmente il
centro dell’attrazione generale, una sorta di musa ispiratrice, ma la
venerazione era condivisa dagli adepti fino a un certo punto. Maximin, scrive
Fraquelli, «appartiene esclusivamente a George, che gli dedica numerose poesie
d’amore» (Omosessuali di destra,
Rubbettino, 2007, p. 69). Maximin viene divinizzato già da vivo, il Kreis deve trattarlo religiosamente, e
questo sarà tristemente ancora più facile dopo la prematura morte del ragazzo,
appena diciottenne, avvenuta nel 1904.
Ma chi era esattamente Maximilian
Kronberger, specialmente in rapporto all’opera e alla vicenda biografica di
George? Era un ragazzo normale, sopravvalutato dal grande poeta tedesco ma ciò
è vero soltanto se ci atteniamo a un esclusivo quanto ingiusto dato oggettivo
di relativa importanza. Probabilmente il ragazzo presente nelle poesie è quello
vero e l’invenzione è data dall’innamoramento del poeta: l’amante reinventa
sempre il suo oggetto, lo crea cogliendone aspetti più veri del vero e
rivelandolo a lui stesso. Sappiamo da Margherita Versari che la frequentazione
tra i due fu sporadica, ma ciò è irrilevante dal punto di vista dell’analisi
semiotica; lui era un adolescente come potevano essercene tanti quando si
conobbero, per strada, nel 1901; fu George a scoprire il suo talento, anche se
Maximin era «probabilmente inadeguato a tanto investimento emotivo e
intellettuale del Maestro» (La poesia di
Stefan George. Strategie del discorso amoroso, Carocci, 2004, p. 83) e allo
stesso tempo tale circostanza nulla toglie all’autenticità del Maximin
immortalato nei versi.
Fu un amore
grande e breve. Ma se dal punto di vista letterario è lecito trasfigurare la
situazione amorosa, è pur vero che la presa di distanza dall’oggettività,
l’idealizzazione esasperata di George verrà contestata da Max Horkheimer e
Theodor Adorno nella loro Dialettica
dell’illuminismo, proprio per il mito della «bestia bionda» (trad. it. di
Renato Solmi, Einaudi, 2010, p. 250) derivante dalla paideía greca, ma assunto di lì a poco dal nazismo. Si tratta
insomma di una proiezione gheorghiana dell’idea del bello su Platone e
sull’educazione dell’uomo greco, nel senso che, non c’è dubbio, «la bellezza
legata a un singolo individuo» cioè Maximin «viene poi proiettata sull’idea
pura del bello» (Versari 2004, p.93). Siamo oltre lo stesso Winckelmann: il
bello assoluto coincide non più con l’arte greca e romana ma con Maximilian
Kronberger! Però Horkheimer e Adorno, muovendo
una critica radicale anche al concetto classico di kalokagathía (il bello, buono e valoroso), lo connotano in senso
classista, laddove la kalokagathía non
era legata all’utile, bensì al kalón,
inteso proprio nel senso di opus, di
intelligenza produttiva.
Il nome del poeta tedesco ricorre varie
volte nei diari di Klaus Mann, redatti negli anni più che tragici dell’ascesa
di Hitler. A ripercorrerli non si capisce molto dei suoi rapporti con le
tantissime persone che frequenta, degli innumerevoli fatti, letture, flirts, amori, scritture che elenca, al
netto di scrittori, poeti, nomi illustri intorno ai quali o è noto o è
intuibile dal contesto il suo pensiero. Un turbinio di avvenimenti senza capo
né coda, ma proprio questo è il fascino della sua operazione. Solo fatti e non
interpretazioni, si direbbe, ma l’interpretazione sono in questo caso proprio i
fatti che annota. Stefan George è da lui letteralmente idolatrato e sempre
difeso mentre la propaganda di regime va impossessandosi degli aspetti più
tenacemente aristocratici della sua opera. È di particolare rilievo constatare
che Klaus parla di George come di un «dittatore
spirituale», a proposito del «primato del sentimento: niente verità “oggettiva”», ma come distorsione e non
come elementi appartenenti a George: li considera «menzogne della stampa
nazista» (30 settembre 1932, in La peste
bruna. Diari 1931-1935, trad. it. di Matilde de Pasquale, Editori Riuniti,
1998, p. 73). E Klaus difende il padre dall’accusa mossagli da Rudolf Thiel,
autore di un saggio contro il Mago: secondo Thiel, Thomas avrebbe copiato da
Nietzsche ma Klaus annota: «che ne saprebbe un Thiel di Nietzsche senza Th.
Mann?» (25 settembre 1932, p. 71). È
improprio ritenere George un precursore del nazismo, una guida spirituale
dall’anima hitleriana, benché non avulsa da forti pulsioni soggettivistiche. Il
nuovo regno da lui vagheggiato e, nell’ambito del Kreis, organizzato in maniera gerarchica, non era il Terzo Reich.
Emigrare e morire in Svizzera sarà il suo modo di opporsi.
Sandro De Fazi
per Amedit
– amici del mediterraneo, n. 41 /autunno 2019-‘20