Estasi per la bellezza
Difficilmente si potrebbe sostenere che tra Thomas Mann e
l’esperienza estetica del circolo di Stefan George corresse buon sangue, benché
Klaus Mann diventasse in futuro uno dei suoi simpatizzanti. Ma Klaus, a
differenza di Thomas, viveva apertamente la propria omosessualità senza
trincerarsi dietro la facciata della morale borghese presente nel libretto del
padre intitolato Sul matrimonio del 1925,
dove si schierava pubblicamente contro lo stile di vita libertino, lo stesso
che caratterizzò le scelte dei figli Klaus ed Erika. L’autore de La morte a Venezia stabiliva un
singolare binomio fatto di bellezza e morte; l’amore tra persone dello stesso sesso
veniva equiparato all’art pour l’art poiché
non è riproduttivo e dunque è fine a se stesso e non vitale. L’omosessualità
nel piccolo saggio è associata alla morte, non esiste benedizione in essa «se
non quella della bellezza che è benedizione di morte. Le mancano le benedizioni
della natura e della vita» (trad. it. di Italo A. Chiusano, Feltrinelli, 1993,
p. 38): argomenti fortemente obsoleti, risalenti a momenti storici molto
lontani da noi, fortunatamente non presenti negli stessi termini nell’opera
letteraria né tantomeno nei diari. Qui sta parlando Thomas Mann con la sua facies pubblica. Il cosiddetto amore
libero è per lui «amore infecondo, senza speranza, irresponsabile e incoerente.
Nulla nasce da esso, non è la base di nulla, non è che l’art pour l’art, forse un’assai libera e superba cosa dal punto di
vista estetico e però immorale, senza alcun dubbio» (ibidem). L’argomentazione, sostenuta dalla sua inconfondibile
prosa, ha un suo fascino ambiguo anche quando si richiama all’antichità, non
tenendo però conto del fatto che la pseudo-omosessualità greca – “pseudo-” in
quanto non vi era percezione etica nel mondo antico, pur tra rigorose
regolamentazioni, di una differenza, o “diversità” che il cristianesimo nella
sua più chiusa istituzionalizzazione pratica tenderà successivamente a
demonizzare – se non è produttiva di figli, lo è di sapere filosofico. Qui la
massima concessione è che l’omosessualità è l’arte e il matrimonio è la vita
morale.
Katja
Pringsheim fu contenta dell’omaggio ma era perfettamente al corrente
dell’attrazione provata dal marito per ragazzi e giovani uomini, dato che era
lui stesso a parlargliene, il che la dice lunga sull’apertura mentale di lei;
sappiamo della sua pazienza e comprensione nei momenti non infrequenti in cui Thomas
si mostrava fisicamente refrattario ad avere rapporti intimi. Perciò, se ci si
addentra nel perché e nel come del dissidio col George-Kreis, gruppo decisamente schierato a favore della mimesi
dionisiaca, querelle nella quale si
faceva a gara a darsi del borghese e antiborghese a vicenda, ora in difesa e
ora contro la Germania con tutto quel che, di lì a poco, avrebbe
drammaticamente significato, non se ne esce facilmente: «Mi ricordo bene con
quali parole, a quanto mi hanno riferito, Stefan George ha respinto i miei Buddenbrook: “No,” disse, “questa roba
non fa per me. È ancora musica e decadenza”. Ancora? Una tarda, anzi attardata
borghesia faceva dunque di me un confessore della decadenza» scrive nelle Considerazioni di un impolitico (a cura
di Marianello Marianelli e Marlis Ingenmey, Adelphi, 2005, p. 123), saggio di
proporzioni mastodontiche dove prende di mira, attaccando implicitamente il
fratello Heinrich, la pretesa dello Stato democratico di basarsi su premesse
illuministiche. E risponde a George per le rime. Il Thomas Mann che parla con
la sua facies pubblica in taluni casi
afferma esattamente il contrario di quanto ci si aspetterebbe da uno che ha
scritto i capolavori che conosciamo. Ma pure nell’opera ci sono nodi
concettuali difficili da sciogliere. Di qui però una delle ragioni della sua
attrattiva e della sua grandezza: la fedeltà al modello goethiano nel far
coincidere gli opposti.
Tutt’altra
impostazione in Stefan George, più esplicito e diretto alla sua maniera. Se
Mann accoglie nella sua opera la società borghese criticandola, George la
esclude del tutto, rigetta interamente la vita sociale della sua
contemporaneità, da lui percepita come perdizione. A Mann non sarebbe mai
venuto in mente di condividere da vicino il proprio culto per l’arte con una
ristretta cerchia di mistici adoratori della bellezza maschile, né tantomeno di
esprimersi in poesia anziché nella forma-romanzo e nel romanzo-saggio, sempre a
lui più congeniali, essendo la prosa narrativa, forse per la sua tendenza
mimetica, tradizionalmente molto frequentata dalla borghesia colta. La visione
aristocratica di George «non ammetteva fratellanze: in lui non c’è che il genio
creatore e la massa bruta, senza stati intermedi, senza mediazione, senza
comunità di sorta» (György Luckács, Breve
storia della letteratura tedesca, trad. it. di Cesare Cases, Einaudi, 1976,
pp. 149-150). Ciò è interessante in quanto George sceglie proprio la poesia,
già al tempo genere letterario d’élite,
come medium privilegiato per la sua
tenace opposizione alla società di massa. E questo ha anche del paradossale,
poiché appunto la massa non vuol arrivare direttamente alla poesia, mentre
l’unica comunità che George ammette è quella del suo gruppo.
Primato del sentimento
Il George-Kreis era
una comunità di amanti (poeti, scrittori, filosofi, intellettuali di varia
tipologia) stabilita su una rigorosa selezione naturale, si direbbe una
realizzazione aggiornata del Simposio
platonico, e viene fatto di pensare più a una tenace operazione di resistenza e
autocostruzione di sé che non a una cerchia fondata su intenti di propaganda
culturale e politica. Quanti vi aderivano dovevano per statuto essere tutti
uomini, tutti omosessuali e tutti belli; altro tratto peculiare era costituito
dall’elemento erotico. È facile prevedere come tutto questo sfociasse in un
vero e proprio misticismo, non impervio a implicazioni carnali. Col tempo
George, da primus inter pares che era
all’inizio, diventò il leader indiscusso
del gruppo, trattato come sacerdote secondo un cerimoniale ben preciso. Sia
chiaro che i sostenitori esterni, non necessariamente aderenti a tutte le
istanze del Kreis (ne fece parte per
qualche tempo pure Rilke), furono tanti e della più svariata estrazione,
affratellati dalla medesima motivazione antiborghese, categoria che oggi non ci
dice più molto ma all’epoca aveva ancora un significato. Marco Fraquelli ha ben
analizzato le caratteristiche del gruppo, inconfondibile soprattutto quando
emerse il giovanissimo poeta Maximilian Kronberger, lo studente di liceo del
quale George si innamorò e Maximin (così veniva chiamato) diventò fatalmente il
centro dell’attrazione generale, una sorta di musa ispiratrice, ma la
venerazione era condivisa dagli adepti fino a un certo punto. Maximin, scrive
Fraquelli, «appartiene esclusivamente a George, che gli dedica numerose poesie
d’amore» (Omosessuali di destra,
Rubbettino, 2007, p. 69). Maximin viene divinizzato già da vivo, il Kreis deve trattarlo religiosamente, e
questo sarà tristemente ancora più facile dopo la prematura morte del ragazzo,
appena diciottenne, avvenuta nel 1904.
Ma chi era esattamente Maximilian
Kronberger, specialmente in rapporto all’opera e alla vicenda biografica di
George? Era un ragazzo normale, sopravvalutato dal grande poeta tedesco ma ciò
è vero soltanto se ci atteniamo a un esclusivo quanto ingiusto dato oggettivo
di relativa importanza. Probabilmente il ragazzo presente nelle poesie è quello
vero e l’invenzione è data dall’innamoramento del poeta: l’amante reinventa
sempre il suo oggetto, lo crea cogliendone aspetti più veri del vero e
rivelandolo a lui stesso. Sappiamo da Margherita Versari che la frequentazione
tra i due fu sporadica, ma ciò è irrilevante dal punto di vista dell’analisi
semiotica; lui era un adolescente come potevano essercene tanti quando si
conobbero, per strada, nel 1901; fu George a scoprire il suo talento, anche se
Maximin era «probabilmente inadeguato a tanto investimento emotivo e
intellettuale del Maestro» (La poesia di
Stefan George. Strategie del discorso amoroso, Carocci, 2004, p. 83) e allo
stesso tempo tale circostanza nulla toglie all’autenticità del Maximin
immortalato nei versi.
Fu un amore
grande e breve. Ma se dal punto di vista letterario è lecito trasfigurare la
situazione amorosa, è pur vero che la presa di distanza dall’oggettività,
l’idealizzazione esasperata di George verrà contestata da Max Horkheimer e
Theodor Adorno nella loro Dialettica
dell’illuminismo, proprio per il mito della «bestia bionda» (trad. it. di
Renato Solmi, Einaudi, 2010, p. 250) derivante dalla paideía greca, ma assunto di lì a poco dal nazismo. Si tratta
insomma di una proiezione gheorghiana dell’idea del bello su Platone e
sull’educazione dell’uomo greco, nel senso che, non c’è dubbio, «la bellezza
legata a un singolo individuo» cioè Maximin «viene poi proiettata sull’idea
pura del bello» (Versari 2004, p.93). Siamo oltre lo stesso Winckelmann: il
bello assoluto coincide non più con l’arte greca e romana ma con Maximilian
Kronberger! Però Horkheimer e Adorno, muovendo
una critica radicale anche al concetto classico di kalokagathía (il bello, buono e valoroso), lo connotano in senso
classista, laddove la kalokagathía non
era legata all’utile, bensì al kalón,
inteso proprio nel senso di opus, di
intelligenza produttiva.
Il nome del poeta tedesco ricorre varie
volte nei diari di Klaus Mann, redatti negli anni più che tragici dell’ascesa
di Hitler. A ripercorrerli non si capisce molto dei suoi rapporti con le
tantissime persone che frequenta, degli innumerevoli fatti, letture, flirts, amori, scritture che elenca, al
netto di scrittori, poeti, nomi illustri intorno ai quali o è noto o è
intuibile dal contesto il suo pensiero. Un turbinio di avvenimenti senza capo
né coda, ma proprio questo è il fascino della sua operazione. Solo fatti e non
interpretazioni, si direbbe, ma l’interpretazione sono in questo caso proprio i
fatti che annota. Stefan George è da lui letteralmente idolatrato e sempre
difeso mentre la propaganda di regime va impossessandosi degli aspetti più
tenacemente aristocratici della sua opera. È di particolare rilievo constatare
che Klaus parla di George come di un «dittatore
spirituale», a proposito del «primato del sentimento: niente verità “oggettiva”», ma come distorsione e non
come elementi appartenenti a George: li considera «menzogne della stampa
nazista» (30 settembre 1932, in La peste
bruna. Diari 1931-1935, trad. it. di Matilde de Pasquale, Editori Riuniti,
1998, p. 73). E Klaus difende il padre dall’accusa mossagli da Rudolf Thiel,
autore di un saggio contro il Mago: secondo Thiel, Thomas avrebbe copiato da
Nietzsche ma Klaus annota: «che ne saprebbe un Thiel di Nietzsche senza Th.
Mann?» (25 settembre 1932, p. 71). È
improprio ritenere George un precursore del nazismo, una guida spirituale
dall’anima hitleriana, benché non avulsa da forti pulsioni soggettivistiche. Il
nuovo regno da lui vagheggiato e, nell’ambito del Kreis, organizzato in maniera gerarchica, non era il Terzo Reich.
Emigrare e morire in Svizzera sarà il suo modo di opporsi.
Sandro De Fazi
per Amedit
– amici del mediterraneo, n. 41 /autunno 2019-‘20