mercoledì 31 agosto 2011

L'idea di progresso nell'antichità/2: la teoria storiografica


È nella civiltà greca che si crea la congerie di termini e di concetti che prepara alla critica storica, dal primo stabilirsi del problema della verità fino alla questione della tecnica affrontata da Heidegger. Un importante avvio al problema della verità fu dato proprio dall’opera di Heidegger Essere e tempo (1927), in cui il filosofo tedesco accoglieva l’interpretazione di Άλήθεια come non-occultezza, disvelatezza e vedendo in Άλήθεια il fenomeno originario della verità.
Una corretta definizione strumentale della tecnica la identifica come un mezzo in vista di un fine, ma questa sua strumentalità non dice che cosa sia l’essenza della tecnica, poiché la constatazione non svela necessariamente ciò che le sta davanti nella sua essenza. Sennonché τέχνη non è solo il fare manuale ma si eleva soprattutto verso la produzione e la ποίησις, per cui la tecnica dispiega il suo essere nell’ambito nel quale accade il disvelamento dell’λήθεια. Ma appunto la tecnica moderna, faceva notare Heidegger, a differenza della τέχνη, è una provocazione e l’essenza della tecnica è impositiva e non è più sufficiente una definizione strumentale della τέχνη. La tecnica non è il pericolo ma il pericolo è nell’essenza della tecnica. L’influenza di Heidegger fu notevole e la sua proposta fu seguita quasi da tutti, ma Detienne si pone in polemica con questo filone della ricerca affrontando il trapasso dal μθος al λόγος.
Detienne utilizza fonti molto disparate creando la sua equazione tra memoria e verità. La verità non è divinizzata, ma è un oggetto che compare in forma aggettivale e dopo un verbum dicendi per asserire il vero. La memoria è strettamente connessa alla dimenticanza ma non è il suo opposto (λήθεια/-λήθεια). La verità si contrappone all’inganno in una società e in una struttura di pensiero in cui λήθεια e la parola di lode si allineano.
Il passaggio dal mito greco alla ragione fu sentito molto meno di quanto si dica. Anche in Platone la frattura tra μθος e λόγος non è così determinata. Collegando memoria e verità, il poeta, l’indovino e il re di giustizia sono accomunati da una medesima funzione sacrale. Ma qual era il valore della memoria nel mondo antico?
La prima associazione era la Musa e la memoria (le Muse sono figlie di Μνημοσύνη). Nel mondo moderno la memoria è legata al tempo, mentre nell’antichità essa non corrisponde a una sistemazione nel tempo ma se ne pone al di fuori. Μνημοσύνη continua ad avere la sua funzione attraverso la genealogia. Apollo presiede alla funzione del vate, l’aedo e l’indovino hanno in comune il dono della veggenza, che non significa vedere materialmente: Calcante ed Omero sono ciechi (Il., I, 70; Teogonia, 32-38). L’indovino privilegia la previsione verso il futuro, mentre il poeta vede il tempo passato. Omero vede il tempo antico fissando la genealogia dell’età eroica laddove in Esiodo esiste la ricerca delle origini, che conferisce al linguaggio il carattere della sacralità. In genere le invocazioni alle Muse precedono i nomi nei cataloghi, che sono l’archivio di una società senza scrittura (il catalogo rappresenta la possibilità di andare verso il passato). Da un punto di vista etimologico, Άλήθεια indica l’oggetto che si fa chiaro, che si impone a chi lo vede. È la non-occultezza, la non-dimenticanza. In Omero, il termine segnala la precisione, la chiarezza, l’esattezza (una cosa è vera se è chiara). Nel framm. 21 Solone accusa di menzogna i poeti, come faranno i presocratici: il discorso di Omero sugli dèi è turpe, ma non per colpa degli dèi, bensì dei poeti menzogneri.
Pindaro porrà una sua critica ad alcuni miti non in se stessi ma esclusivamente per come sono stati trattati da altri autori a lui precedenti. In Olimpica, X, 4-5, Άλήθεια è detta figlia di Zeus (il termine λήθεια si trova anche in Parmenide):
« Мοσ᾿, λλά σύ καί θυγτηρ
Άλάθεια Διός, ρθ χερί
ρύκετον ψευδέων
νιπάν λιπόξενον»
«tu, o Musa, e tu anche verità figlia di Zeus, sollevate la mano, arrestate l’onta d’inganni che frodano l’ospite».
Pindaro in Nemea, IV, 23 aveva infatti detto che l’abilità del poeta (σοφία, che non è la saggezza ma la poesia) inganna (κλέπτει) seducendo con racconti fantastici, e ricorda poi il regno della fantasia che sfugge alla prova del tempo a cui deve sottoporsi la verità dei fatti. Pindaro distingue la verità storica dalla pseudo-verità, e anche i presocratici fanno questa distinzione. Ma mentre Esiodo aveva semplicemente affermato la presenza della sua poesia senza condannare l’epica, Pindaro condanna queste bugie simili a verità e afferma che l’errore della menzogna è sempre riconosciuto nel tempo. Sembra che Pindaro si ponga con maggiore veemenza critica rispetto a Esiodo, ma la sua non è ancora una critica storica. Una tradizione è da lui rifiutata rispetto ad un’altra semplicemente perché non sono gli dèi a essere protagonisti.
La filosofia di Parmenide essendo la filosofia dell’essere in quanto è, ci orienta verso l’equazione del filosofo uguale al vate, al mago (lo sciamanesimo greco), nella fase orale della Grecia arcaica (è la tesi di Giorgio Colli). La preistoria dell’λήθεια filosofica ci porta verso l’indovino, e la poesia ha lo stesso oggetto (riguardo alle cose che furono, che sono e che saranno). Si stabilisce così anche un’equazione col re di giustizia, ispirato dal potere divino. La poesia in quanto ispirata dagli dèi è vera.
Detienne in I maestri di verità nella Grecia arcaica (1977) ha presente lo strutturalismo nel collegamento tra memoria e verità, la lingua che noi parliamo è per lui strutturata sul concetto logico della contraddizione (bugia è il contrario di verità, amore è il contrario di odio, ecc.), di origine logico-formale aristotelica. Il mondo mitico è, viceversa, pre-logico, ambiguo (i contrari, l’amore e l’odio sono strettamente connessi).
La continuità e l’elaborazione culturale dell’asserto senofaneo è poi riscontrabile nella “Querelle des anciens et des modernes”, che interessò il V sec. a.C., quando si determinò una prima “querelle” simile alla famosa sviluppatasi nel XVII sec., nel quale per la prima volta venne precisata la categoria storiografica di progresso a opera di Fontenelle in Digressione sugli antichi e sui moderni (1688).
Quest’ultima non fu la prima nella storia, perché già gli antichi proclamarono una propria “modernità”, sia pure non nella direzione di un rigetto totale dell’“antichità.”
Essi “intesero solo dire (per usare le parole di Molière) che ‘gli antichi sono antichi, e gli uomini d’oggi siamo noi’.”[1]
Il contributo maggiore alla discriminazione fra antico e moderno, vecchio e nuovo non viene, in ogni modo, da parte presocratica né specificamente sofistica, ma dalla storiografia, nonostante le riserve di Vernant sopra riportata. Le riserve di Vernant ci servono, però, ancora una volta, per ridimensionare la portata trionfalistica dell’analisi di Edelstein. Vernant ci avverte che, insomma, il tempo degli storici non è il nostro tempo e il loro progresso non è il nostro visto che, per parlare di progresso in termini moderni, ci occorre l’ausilio della sociologia e delle scienze politiche. Resta che, in particolare, furono i sofisti gli annunciatori della stessa, parzialmente ma potenzialmente significativa, idea di progresso risalente a Senofane, e con fervore ben diverso da quello dello del filosofo di Colofone.
È considerevole il fatto che, anche se Senofane ne fu il precursore, nei limiti che abbiamo testé posto, la vera svolta decisiva per l’idea di progresso verso il futuro si deve, tuttavia, agli storici dell’età attica, in particolare a Tucidide. La lezione ippocratica, e non solo quella, ovvia, di Erodoto, svolge in lui una funzione metodologica nello stesso modo in cui il sintomo patologico veniva assunto a oggetto di studio per la terapia. Sta di fatto che si fa un notevole passo avanti con Tucidide, che esclude scientificamente l’intervento divino nella storia, a differenza di Omero e dello stesso Erodoto, mentre il sintomo è analizzato nel campo politico per la storia e la teoria storiografica. Egli è in grado, nel suo bello stile attico (densus et brevis et semper instans sibi è il giudizio di Quintiliano su di lui) di confidare nell’accumulo di esperienza che viene dalla conoscenza storica, ritiene che le generazioni future, traendone ammaestramento, saranno libere dagli errori commessi, o quantomeno non li ripeteranno tutti allo stesso modo anche se incombe sulla natura umana e sulle azioni e previsioni dell’uomo la decisione imponderabile e fatalistica della τύχη.
Tucidide pone un parallelo fra lo sviluppo inventivo delle arti e il progresso politico. “Nelle arti e mestieri si era scoperto che il nuovo era superiore al vecchio”,[2] e siccome anche la politica era un’arte, dunque anche nella politica il nuovo sarebbe stato favorito da un adeguato sviluppo dell’arte politica. Da questa presa di coscienza si determina la continuità senofanea, dove in filosofia si era creata un’impasse, in una problematica solo retrospettiva e non rivolta al futuro.
Per Anassagora e Protagora, infatti, lo sviluppo inventivo dell’uomo è dovuto al superamento da parte dell’uomo della primitiva condizione animale. Tale superamento ha reso attuabile il progresso dai primordi all’oggi, negando la prospettiva empedoclea dell’età dell’oro iniziale. Ma quello del progresso dopo l’oggi, in aspettativa del futuro, è perlopiù problema irrisolto dai presocratici.
Edelstein sintetizza i risultati di questa fase della storia del pensiero: “il pensiero presocratico fa quindi dipendere il possibile dal dato e considera quanto può succedere come determinato da ciò che è.”[3]
E, meglio: “si potrebbe quindi dire che sia i Presocratici, sia i Sofisti furono nello stesso tempo progressisti ed antiprogressisti.”[4]
Ne risulta che gli assertori dell’idea di progresso, nell’eredità senofanea, furono gli storici, per il loro impegno nei riguardi del nuovo e del futuro, realizzabili grazie alla τέχνη, al superamento del passato.

[1] L. Edelstein, L’idea di progresso nell’antichità classica, Bologna, Il Mulino, 1987,, p. 93.
[2] op. cit., p. 85.
[3] op. cit., p. 81.
[4] op. cit., p. 83.

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