Il blog di Sandrino De Fazi
Parerga e paralipomena
mercoledì 12 marzo 2025
I PIEDI DEL MONDO. COME LE SCARPE NIKE HANNO RIVOLUZIONATO L’IMMAGINARIO GLOBALE di Tommaso Ariemma. Una recensione
Che l’estetica abbia carattere filosofico e speculativo a differenza delle
poetiche che invece sono storiche (e mutevoli: romanticismo, naturalismo,
verismo) e prescrittive è un’ormai classica distinzione posta da Luigi Pareyson
nella sua teoria della performatività. L’importante è che l’artista operi,
perciò sul piano estetico le poetiche sono tutte ugualmente legittime. Ma se le
poetiche sono storiche e mutevoli, l’estetica si basa su un’altra storicità: quella
dell’unità fondamentale del pensiero filosofico. Siamo convinti che questo
discorso riguarda le belle lettere non meno delle belle arti, se solo si pensa
che il neoclassicismo nacque da Winckelmann per estendersi alla letteratura europea,
senza escludere le arti sviluppatesi da circa un paio di secoli a questa parte
o negli ultimi decenni. Tutto il
saggio intitolato I piedi del mondo
che ha come sottotitolo Come le scarpe
Nike hanno rivoluzionato l’immaginario globale (Luiss University Press,
2024) di Tommaso Ariemma parte dal seguente presupposto: il riferimento ellenico
a Atena Nike (leggendo il nome grecamente) come fondamento cui alludono le sneakers di marca Nike (leggendolo
all’americana) costituisce un momento se non di vittoria almeno di resistenza,
di vitalità, di libertà non senza qualcosa di furtivo, in termini di
sottrazione al destino dell’Occidente minacciato in primo luogo da sé, come la
cronaca di questi mesi e giorni ci insinua con inquietante insistenza.
Ariemma ha dato molti contributi alla pop filosofia e di estetica si occupa anche come docente. Questo, si potrebbe azzardare estremizzando, è in fondo un libro sulla morte o, meglio, sul senso di perdita del passato cui paradossalmente le nuove tecnologie ci spingono quando sembrano immortalare le nostre memorie e le nostre esperienze di vita, in quanto nessuna epoca ha mai avuto a disposizione tanti dati come la nostra, nessuna si rivela così effimera. Per Ariemma, se il mondo greco era unitario, quello attuale è contraddistinto da una dinamicità che pur vuol assurgere a unità, perciò ne vengono molteplici spunti iniziando da Martin Heidegger che analizzava le scarpe dipinte da van Gogh dando così dignità di analisi filosofica all’oggetto destinato a diventare iperoggetto, a Marshall McLuhan secondo il quale ciò che indossiamo è il medium più antico nel rapporto col mondo, sicché – scrive Ariemma - «non c’è, a rigore, un oggetto più “sintetico” di una scarpa, capace di riunire in sé ogni aspetto fondamentale del reale, operando così la più sorprendente delle sintesi tra piedi e mondo» (p. 27). Ancora il compianto Gianni Vattimo è convocato per le sue analisi della postmodernità, Werner Jaeger per la sua monumentale e imprescindibile Paideia. Di grande suggestione è il resoconto che l’autore ci fa del viaggio di Heidegger in Grecia nel 1962, lo stesso anno in cui vi si recò il ventiquattrenne Phil Knight, futuro fondatore del marchio (p. 48 e sgg). Quest’ultimo rimase molto colpito nel vedere, al museo dell’Acropoli, la statua di Atena Nike intenta a sistemarsi un sandalo, Heidegger da parte sua rimane affascinato dall’assenza nel Partenone della dea fuggita. Tale assenza finisce per essere se non una presenza quantomeno una traccia, heideggerianamente una traccia della traccia lasciata dalla dea che, insieme agli altri dèi, è fuggita. In quella circostanza a Knight venne in mente il nome Nike da dare alla sua azienda.
Non dubitiamo che l’outfit sia espressione di scelte culturali proprio nel rapporto col mondo, la moda appartiene a tale vicenda come nella famosa operetta morale leopardiana dove essa dialoga con la morte, sempre nell’avvicendarsi contestuale di éros e thánatos. Ma le parafilie studiate da Krafft-Ebing e da Wilhelm Stekel, in testi ormai peraltro datati, però non c’entrano molto, nemmeno l’esilarante Piedi. Pensieri per un feticista di Laura De Luca. Ci è capitato in passato di occuparci de Le regole del mio stile di Lapo Elkann, che è un vero manuale di antropologia della moda, e cogliamo una singolare coincidenza dal momento che I piedi del mondo si conclude citando l’ottusa polemica della quale fu fatto oggetto tempo fa un articolo dello scrittore Alain Elkann, accusato di classismo laddove in treno stava giustamente cogliendo un preciso mutamento antropologico in un gruppo di ragazzotti. Si tratta di una rivoluzione, secondo ciò che è evocato dal sottotitolo del libro di Tommaso Ariemma, in atto da tempo, dal famigerato edonismo reaganiano degli anni Ottanta per proseguire con l’affermarsi sempre più radicale della digitalizzazione, dal VHS ormai diventato obsoleto al DVD che neppure gode ottima salute, al personal computer, allo smart, al tablet e quant’altro. Ma il nostro giudizio sulla rete è infine positivo, essa fornisce risorse e possibilità un tempo impensabili, sempre però attuandone un corretto utilizzo: troppe incongruenze nella comunicazione e troppi narcisismi autoreferenziali imperversano. Le Nike (ma perché no, per estensione, le Gems o le Reebock?) assurgono così a simbologia alternativa di un movimento pur sempre dentro il mondo.
Sandro De
Fazi
Marzo 2025
giovedì 21 novembre 2024
lunedì 12 agosto 2024
LA DISPUTA SULL’ART POUR L’ART Mann e George /Due estetiche a confronto
Estasi per la bellezza
Difficilmente si potrebbe sostenere che tra Thomas Mann e
l’esperienza estetica del circolo di Stefan George corresse buon sangue, benché
Klaus Mann diventasse in futuro uno dei suoi simpatizzanti. Ma Klaus, a
differenza di Thomas, viveva apertamente la propria omosessualità senza
trincerarsi dietro la facciata della morale borghese presente nel libretto del
padre intitolato Sul matrimonio del 1925,
dove si schierava pubblicamente contro lo stile di vita libertino, lo stesso
che caratterizzò le scelte dei figli Klaus ed Erika. L’autore de La morte a Venezia stabiliva un
singolare binomio fatto di bellezza e morte; l’amore tra persone dello stesso sesso
veniva equiparato all’art pour l’art poiché
non è riproduttivo e dunque è fine a se stesso e non vitale. L’omosessualità
nel piccolo saggio è associata alla morte, non esiste benedizione in essa «se
non quella della bellezza che è benedizione di morte. Le mancano le benedizioni
della natura e della vita» (trad. it. di Italo A. Chiusano, Feltrinelli, 1993,
p. 38): argomenti fortemente obsoleti, risalenti a momenti storici molto
lontani da noi, fortunatamente non presenti negli stessi termini nell’opera
letteraria né tantomeno nei diari. Qui sta parlando Thomas Mann con la sua facies pubblica. Il cosiddetto amore
libero è per lui «amore infecondo, senza speranza, irresponsabile e incoerente.
Nulla nasce da esso, non è la base di nulla, non è che l’art pour l’art, forse un’assai libera e superba cosa dal punto di
vista estetico e però immorale, senza alcun dubbio» (ibidem). L’argomentazione, sostenuta dalla sua inconfondibile
prosa, ha un suo fascino ambiguo anche quando si richiama all’antichità, non
tenendo però conto del fatto che la pseudo-omosessualità greca – “pseudo-” in
quanto non vi era percezione etica nel mondo antico, pur tra rigorose
regolamentazioni, di una differenza, o “diversità” che il cristianesimo nella
sua più chiusa istituzionalizzazione pratica tenderà successivamente a
demonizzare – se non è produttiva di figli, lo è di sapere filosofico. Qui la
massima concessione è che l’omosessualità è l’arte e il matrimonio è la vita
morale.
Katja
Pringsheim fu contenta dell’omaggio ma era perfettamente al corrente
dell’attrazione provata dal marito per ragazzi e giovani uomini, dato che era
lui stesso a parlargliene, il che la dice lunga sull’apertura mentale di lei;
sappiamo della sua pazienza e comprensione nei momenti non infrequenti in cui Thomas
si mostrava fisicamente refrattario ad avere rapporti intimi. Perciò, se ci si
addentra nel perché e nel come del dissidio col George-Kreis, gruppo decisamente schierato a favore della mimesi
dionisiaca, querelle nella quale si
faceva a gara a darsi del borghese e antiborghese a vicenda, ora in difesa e
ora contro la Germania con tutto quel che, di lì a poco, avrebbe
drammaticamente significato, non se ne esce facilmente: «Mi ricordo bene con
quali parole, a quanto mi hanno riferito, Stefan George ha respinto i miei Buddenbrook: “No,” disse, “questa roba
non fa per me. È ancora musica e decadenza”. Ancora? Una tarda, anzi attardata
borghesia faceva dunque di me un confessore della decadenza» scrive nelle Considerazioni di un impolitico (a cura
di Marianello Marianelli e Marlis Ingenmey, Adelphi, 2005, p. 123), saggio di
proporzioni mastodontiche dove prende di mira, attaccando implicitamente il
fratello Heinrich, la pretesa dello Stato democratico di basarsi su premesse
illuministiche. E risponde a George per le rime. Il Thomas Mann che parla con
la sua facies pubblica in taluni casi
afferma esattamente il contrario di quanto ci si aspetterebbe da uno che ha
scritto i capolavori che conosciamo. Ma pure nell’opera ci sono nodi
concettuali difficili da sciogliere. Di qui però una delle ragioni della sua
attrattiva e della sua grandezza: la fedeltà al modello goethiano nel far
coincidere gli opposti.
Tutt’altra
impostazione in Stefan George, più esplicito e diretto alla sua maniera. Se
Mann accoglie nella sua opera la società borghese criticandola, George la
esclude del tutto, rigetta interamente la vita sociale della sua
contemporaneità, da lui percepita come perdizione. A Mann non sarebbe mai
venuto in mente di condividere da vicino il proprio culto per l’arte con una
ristretta cerchia di mistici adoratori della bellezza maschile, né tantomeno di
esprimersi in poesia anziché nella forma-romanzo e nel romanzo-saggio, sempre a
lui più congeniali, essendo la prosa narrativa, forse per la sua tendenza
mimetica, tradizionalmente molto frequentata dalla borghesia colta. La visione
aristocratica di George «non ammetteva fratellanze: in lui non c’è che il genio
creatore e la massa bruta, senza stati intermedi, senza mediazione, senza
comunità di sorta» (György Luckács, Breve
storia della letteratura tedesca, trad. it. di Cesare Cases, Einaudi, 1976,
pp. 149-150). Ciò è interessante in quanto George sceglie proprio la poesia,
già al tempo genere letterario d’élite,
come medium privilegiato per la sua
tenace opposizione alla società di massa. E questo ha anche del paradossale,
poiché appunto la massa non vuol arrivare direttamente alla poesia, mentre
l’unica comunità che George ammette è quella del suo gruppo.
Primato del sentimento
Il George-Kreis era
una comunità di amanti (poeti, scrittori, filosofi, intellettuali di varia
tipologia) stabilita su una rigorosa selezione naturale, si direbbe una
realizzazione aggiornata del Simposio
platonico, e viene fatto di pensare più a una tenace operazione di resistenza e
autocostruzione di sé che non a una cerchia fondata su intenti di propaganda
culturale e politica. Quanti vi aderivano dovevano per statuto essere tutti
uomini, tutti omosessuali e tutti belli; altro tratto peculiare era costituito
dall’elemento erotico. È facile prevedere come tutto questo sfociasse in un
vero e proprio misticismo, non impervio a implicazioni carnali. Col tempo
George, da primus inter pares che era
all’inizio, diventò il leader indiscusso
del gruppo, trattato come sacerdote secondo un cerimoniale ben preciso. Sia
chiaro che i sostenitori esterni, non necessariamente aderenti a tutte le
istanze del Kreis (ne fece parte per
qualche tempo pure Rilke), furono tanti e della più svariata estrazione,
affratellati dalla medesima motivazione antiborghese, categoria che oggi non ci
dice più molto ma all’epoca aveva ancora un significato. Marco Fraquelli ha ben
analizzato le caratteristiche del gruppo, inconfondibile soprattutto quando
emerse il giovanissimo poeta Maximilian Kronberger, lo studente di liceo del
quale George si innamorò e Maximin (così veniva chiamato) diventò fatalmente il
centro dell’attrazione generale, una sorta di musa ispiratrice, ma la
venerazione era condivisa dagli adepti fino a un certo punto. Maximin, scrive
Fraquelli, «appartiene esclusivamente a George, che gli dedica numerose poesie
d’amore» (Omosessuali di destra,
Rubbettino, 2007, p. 69). Maximin viene divinizzato già da vivo, il Kreis deve trattarlo religiosamente, e
questo sarà tristemente ancora più facile dopo la prematura morte del ragazzo,
appena diciottenne, avvenuta nel 1904.
Ma chi era esattamente Maximilian
Kronberger, specialmente in rapporto all’opera e alla vicenda biografica di
George? Era un ragazzo normale, sopravvalutato dal grande poeta tedesco ma ciò
è vero soltanto se ci atteniamo a un esclusivo quanto ingiusto dato oggettivo
di relativa importanza. Probabilmente il ragazzo presente nelle poesie è quello
vero e l’invenzione è data dall’innamoramento del poeta: l’amante reinventa
sempre il suo oggetto, lo crea cogliendone aspetti più veri del vero e
rivelandolo a lui stesso. Sappiamo da Margherita Versari che la frequentazione
tra i due fu sporadica, ma ciò è irrilevante dal punto di vista dell’analisi
semiotica; lui era un adolescente come potevano essercene tanti quando si
conobbero, per strada, nel 1901; fu George a scoprire il suo talento, anche se
Maximin era «probabilmente inadeguato a tanto investimento emotivo e
intellettuale del Maestro» (La poesia di
Stefan George. Strategie del discorso amoroso, Carocci, 2004, p. 83) e allo
stesso tempo tale circostanza nulla toglie all’autenticità del Maximin
immortalato nei versi.
Fu un amore
grande e breve. Ma se dal punto di vista letterario è lecito trasfigurare la
situazione amorosa, è pur vero che la presa di distanza dall’oggettività,
l’idealizzazione esasperata di George verrà contestata da Max Horkheimer e
Theodor Adorno nella loro Dialettica
dell’illuminismo, proprio per il mito della «bestia bionda» (trad. it. di
Renato Solmi, Einaudi, 2010, p. 250) derivante dalla paideía greca, ma assunto di lì a poco dal nazismo. Si tratta
insomma di una proiezione gheorghiana dell’idea del bello su Platone e
sull’educazione dell’uomo greco, nel senso che, non c’è dubbio, «la bellezza
legata a un singolo individuo» cioè Maximin «viene poi proiettata sull’idea
pura del bello» (Versari 2004, p.93). Siamo oltre lo stesso Winckelmann: il
bello assoluto coincide non più con l’arte greca e romana ma con Maximilian
Kronberger! Però Horkheimer e Adorno, muovendo
una critica radicale anche al concetto classico di kalokagathía (il bello, buono e valoroso), lo connotano in senso
classista, laddove la kalokagathía non
era legata all’utile, bensì al kalón,
inteso proprio nel senso di opus, di
intelligenza produttiva.
Il nome del poeta tedesco ricorre varie
volte nei diari di Klaus Mann, redatti negli anni più che tragici dell’ascesa
di Hitler. A ripercorrerli non si capisce molto dei suoi rapporti con le
tantissime persone che frequenta, degli innumerevoli fatti, letture, flirts, amori, scritture che elenca, al
netto di scrittori, poeti, nomi illustri intorno ai quali o è noto o è
intuibile dal contesto il suo pensiero. Un turbinio di avvenimenti senza capo
né coda, ma proprio questo è il fascino della sua operazione. Solo fatti e non
interpretazioni, si direbbe, ma l’interpretazione sono in questo caso proprio i
fatti che annota. Stefan George è da lui letteralmente idolatrato e sempre
difeso mentre la propaganda di regime va impossessandosi degli aspetti più
tenacemente aristocratici della sua opera. È di particolare rilievo constatare
che Klaus parla di George come di un «dittatore
spirituale», a proposito del «primato del sentimento: niente verità “oggettiva”», ma come distorsione e non
come elementi appartenenti a George: li considera «menzogne della stampa
nazista» (30 settembre 1932, in La peste
bruna. Diari 1931-1935, trad. it. di Matilde de Pasquale, Editori Riuniti,
1998, p. 73). E Klaus difende il padre dall’accusa mossagli da Rudolf Thiel,
autore di un saggio contro il Mago: secondo Thiel, Thomas avrebbe copiato da
Nietzsche ma Klaus annota: «che ne saprebbe un Thiel di Nietzsche senza Th.
Mann?» (25 settembre 1932, p. 71). È
improprio ritenere George un precursore del nazismo, una guida spirituale
dall’anima hitleriana, benché non avulsa da forti pulsioni soggettivistiche. Il
nuovo regno da lui vagheggiato e, nell’ambito del Kreis, organizzato in maniera gerarchica, non era il Terzo Reich.
Emigrare e morire in Svizzera sarà il suo modo di opporsi.
Sandro De Fazi
per Amedit
– amici del mediterraneo, n. 41 /autunno 2019-‘20
MASCHERE DELL’EROTISMO Mann e Visconti / Variazioni su La morte a Venezia
gran parte della critica è confessione privata,
tanto vale non gabellarla
per constatazione spassionata di una realtà
obiettiva, che tale non sarà mai.
Italo Alighiero Chiusano, Meditazione su Thomas Mann
Tadzio e i movimenti della gondola
Il sorriso del ragazzo polacco nella novella di Thomas Mann appartiene
perfettamente a una singolare dialettica: esso avviene di qua indicando il là,
nell’ulteriorità del significato della risposta al poeta. Quel che è
inaspettato è quando l’erómenos ricambia
lo sguardo: l’erastés si tiene
prudente e esteriormente pudico, ma il ragazzo gli sorride in modo insolente,
il suo è un sorriso sfrontato che sta in luogo di esplicito ammiccamento, senza
ritegno. La luogotenenza simbolizzata avviene però, realmente, nella più
stilizzata simultaneità di due tempi: l’atemporalità e l’effimero, tutt’e due
compresenti e comunicanti (soltanto) a Venezia. Questa simultaneità è
rappresentata dall’oscillazione della gondola, in particolare dai movimenti del
gondoliere che per trainarla sull’acqua va dal qui al là con gestualità
inconfondibilmente lenta, solenne, cosicché l’imbarcazione ora insiste sull’hic et nunc, ora svela l’atemporalità
dell’eleganza pur rimandante al senso dell’effimero, e intesa come equilibrio
serenissimo nel passaggio dall’una all’altra dimensione. Prima di questa
c’è la fuga di chi crea la bellezza davanti a chi la possiede, inevitabilmente
lo stato d’animo è di vero corruccio, di pena. Ma il caso fortuito risospinge
il fuggitivo a Venezia, interviene la sorte a decretare un diverso andamento, l’arrovellarsi
interiore cede il passo all’impeto profondo della gioia d’artista, tutto è di
nuovo possibile non solo nell’oscillazione positiva della gondola, il luogo
ambito sarà di nuovo accessibile, presentemente è più forte della stessa
necessità razionale che aveva imposto altrimenti. Nel film di Luchino Visconti,
a differenza del romanzo, Aschenbach è un esperto di amori efebici assai simile
al professor Humbert Humbert di Nabokov. In passato aveva probabilmente
concupito altri loliti, né è impensabile che qualcuno di quelli adesso lo
riporti a Tadzio (diminutivo di Taddeo).
Ho nuotato davanti all’Hôtel des Bains
proprio dove è ambientato il capolavoro manniano. Non ci si bagna mai due volte
nella stessa acqua, figurarsi se era la stessa acqua dove faceva il bagno
Tadzio: e tuttavia la suggestione c’è stata lo stesso. Ho cercato di vedere il
tutto “attraverso gli occhi” di Mann, immaginando la genesi della novella non
nel senso in cui lui stesso ne ha parlato nel Saggio autobiografico – questo è noto – ma cercando di “vedere” lo
scrittore tedesco in quel luogo, di capire che cosa dovesse provare mentre era
lì in vacanza col fratello Heinrich e la moglie. Mi ha dato una sensazione di
austerità, come qualcuno che mette soggezione, che non incoraggia certo facili
avvicinamenti e, allo stesso tempo, con la consapevolezza di come doveva essere
a dir poco interessante scambiare con lui anche poche parole. Tadzio, personaggio
preso tale e quale da Władysław Moes (Adzio al diminutivo) realmente incontrato
al Lido, ideal-tipicamente tratteggiato nel film con le fattezze di Bjorn Andresen,
è un senhal facente funzione di Armin
Martens o di Williram Timpe o dello stesso Władysław o di tutt’e tre insieme: «Sono
riaffiorate le vecchie immagini degli anni di scuola a Lubecca. ”Sentimenti
trascorsi, travagli antichi e dolcissimi, morti al suo cuore in tanti anni di
austera fatica, gli apparivano ora mirabilmente trasformati, ed egli li
ravvisava con un incerto, stupito sorriso.” Aschenbach ripensa e sogna, come un
tempo Thomas Mann al lido: “lentamente le sue labbra formularono un nome”,
quello di Armin o di Willri?» (Herman Kurzke, Thomas Mann. La vita come opera d’arte, trad. it. di Italo Mauro e
Anna Ruchat, Mondadori, 2005, p. 183).
La prima mondiale del film ci fu a Londra
nel 1971, alla presenza della regina Elisabetta II e della principessa Anna. Il
professor Aschenbach di Luchino Visconti, oltre a essere un musicista (la sua
musica è quella di Gustav Mahler) e non un letterato come nel romanzo breve, è
più mefistofelico e simile all’Adrian Leverkhün del Doctor Faustus rispetto al
convenzionale scrittore borghese Gustav von Aschenbach. Già all’arrivo nella
città lagunare è attratto dalla soldataglia in marcia e dà l’idea, proprio
grazie all’interpretazione memorabile del grande Dirk Bogarde, di muoversi con disinvoltura
nel perimetro dell’omoerotismo. Un’altra differenza è che il Tadzio viscontiano
è più civettuolo e seducente, l’iniziativa del corteggiamento sembrerebbe
partire da lui, non dall’anziano artista. Per la verità, pure in Mann si evince
che, nei primi momenti al Grand Hôtel des Bains, prima di andare a tavola
insieme alle monacali sorelle e all’istitutrice Nora Ricci, avendo atteso l’arrivo
di Silvana Mangano – la madre della bellezza, la madre della morte - «per un
motivo qualsiasi» il ragazzo «si voltò» a guardare colui che lo stava
ammirando, ma nel film il suo sguardo è più penetrante e profondo, e
successivamente senz’altro più imbarazzante per Aschenbach. Ciò perché, com’è
legittimo che sia, Visconti forza il testo del racconto alla sua maniera (sia
detto senza alcuna intenzione limitativa).
L’umanità di Tadzio
Le dimensioni della spiaggia del des Bains appaiono più
piccole rispetto all’idea che me ne ero fatto in base alla letteratura e al
cinema, sia l’una che l’altro alterano la realtà amplificandola. È proprio vero
che la letteratura e le arti in generale mentono troppo, ma soltanto per restituire
una realtà più vera del vero. Il loro è un inganno necessario. Della spiaggia
dell’Hôtel come di Tadzio stesso ho colto rispettivamente l’appartenenza
terrestre e l’aspetto umano. L’acqua dell’Adriatico è a prima vista deludente e
in sé ordinaria, con qualche sospetto di bruttezza, ma mi ci sono immerso a lungo
e mi è piaciuto. Sull’umanità di Tadzio la letteratura non ci ha ingannato
quando, nella prima fase del suo soggiorno, prima della decisione improvvisa di
abbandonare Venezia (decisione su cui poi sarà ben felice di tornare, dopo
l’erronea spedizione del suo bagaglio a Como) Aschenbach incontra l’efebo in
ascensore, ne osserva molto da vicino la dentatura non impeccabile, pallida,
appartenente forse a un anemico e Mann scrive: «”È molto delicato, è
malaticcio”, rifletté, “probabilmente non arriverà alla vecchiaia”; e rinunziò
a spiegarsi il senso di appagamento e di sollievo che si accompagnava a questa
riflessione» (trad. it di Bruno Maffi). È appagato e sollevato perché se di
salute cagionevole l’erómenos non
vivrà a lungo, nessun altro potrà amarlo eccetto lui, non sarà mai di nessuno. A
proposito dell’incontro in ascensore c’è da aggiungere che di nuovo nel film, a
differenza del romanzo, è Tadzio a guardare con provocatoria insistenza l’erastés in declino, che ne risulta
turbato. Ma è appunto l’Aschenbach di Mann, in ciò non dissimile da quello di
Visconti, a disattendere l’umanità di Tadzio, senza mai rivolgergli la parola
o, quando tenta di farlo, è sopraffatto dall’emozione e ci rinuncia. Lo idealizza
e basta.
È vero che i libri attribuitigli al
secondo capitolo – una bibliografia piuttosto smilza, quattro opere in tutto
non sono molte per uno che ha già compiuto cinquant’anni – ne ha in pratica una
sessantina e di più – nella belle époque:
due romanzi (uno sulla vita di Federico il Grande e un altro intitolato Maja), un racconto (Un miserabile) e un saggio (Spirito
e arte, «che per vigoria ordinatrice ed eloquenza antitetica critici severi
– traduce Maffi – non avevano esitato ad affiancare al saggio schilleriano Della poesia ingenua e sentimentale») – sono
tutte allusioni a opere che Mann avrebbe voluto scrivere o che, meglio,
confluirono parzialmente in altri suoi lavori, ma il Mago, come veniva chiamato
da familiari e amici, solidarizza con la vicenda veneziana fino a un certo
punto. L’esaltazione per Tadzio poteva essere, è stata, la medesima sua davanti
a Władysław Moes, ma in seguito il narratore si distanzierà con l’ironia dalla
china discendente dove andava precipitando il protagonista. Ricorda la moglie,
Katja Pringsheim: «ebbe sempre un debole per questo ragazzo… e lo osservava
sempre sulla spiaggia, quando giocava con i compagni. Non gli è corso dietro
per tutta Venezia, questo no, ma l’adolescente lo affascinava ed egli vi
pensava spesso». Gustav von Aschenbach è rigido e formalistico, un borghese cui
è concessa una rispettabilità come di rado accade agli intellettuali, fin dal
primo capitolo. Più impietosamente si può affermare che Mann ne ha fatto una
caricatura. E di che cosa? Ma proprio di un rappresentante dello spirito
apollineo, di un misticismo da lui nietzscheanamente avversato, di un
determinato classicismo che parte dall’amor platonico e sembra fermarsi
wagnerianamente, benché eroicamente, lì. Aschenbach avrebbe potuto essere un
circospetto adepto del George-Kreis,
il circolo poetico-mistico antiborghese di ispirazione piuttosto omoerotica
ruotante intorno a Stefan George, del quale non intendo ora sminuire
l’importanza e l’originalità, mi riferisco soltanto a poche linee essenziali
per contestualizzare il discorso. In George, scrive Margherita Versari,
«l’amore, dislocato a distanza, parla per bocca di personaggi dell’antichità
greca, del Medioevo, o magari attraverso le immagini dipinte su un’anfora, ma
il suo spessore e la sua coloritura sono attuali e cogenti» (La poesia di Stefan George. Strategie del
discorso amoroso, Carocci, 2004, p. 53). E non è piena di rimandi ai
dialoghi platonici e non descrive qua e là una bizantineggiante Venezia la
novella in questione? Al netto del suo significato valoriale di recupero del
classicismo, il George-Kreis arrivò a
consacrare in un vero e proprio culto neopagano gli esseri amati, tra cui
spiccò senz’altro la figura del poeta Maximilian Kronberger (detto Maximin), il
ragazzo amato da George e morto giovanissimo, collocato sullo stesso piano di
Beatrice (George era solito travestirsi da Dante con tanto di alloro sul capo).
Fatto sta che, all’uscita del libro, il George-Kreis
si sentì messo in ridicolo, fosse o no intenzionale la polemica di Mann e, come
ricorda Cesare Cases, «Friedrich Gundolf scrisse a un amico che La morte a Venezia era “la cosa più
sgradevole e falsa” che Mann avesse scritto».
Avrà invece Thomas, così affascinato e
infatuato, rivolto la parola a Władysław? Certamente si è confidato con
Heinrich e addirittura con Katja. Abbiamo parlato fin qui della costruzione
intellettuale della novella, ma è chiaro che il sentimento ci fu, eccome, in
lui. Il polacco Władysław Moes gli ricordava i suoi lontani amori di ragazzo.
Eppure non è vecchio come Aschenbach: nel 1911 ha appena trentasei anni,
essendo nato a Lubecca nel 1875. Tadzio è Władysław e Armin Martens:
quest’ultimo, come vedremo, fu un amore mai vissuto nella realtà, ma mediante il
senhal che lo sostituisce la
narrativa manniana, fino alla fine, vi allude spesso. Gustav è Thomas mentre
ama, anche se il Thomas che scriverà non sarà la stessa persona e
intellettualizzerà. Lavorerà per un anno alla stesura, dall’estate del 1911 a
quella del 1912. Władysław era partito e non c’era più alcun motivo per restare
a Venezia. Non voleva consegnare l’opera conclusa, non ne era contento, fu
Katja a portarla all’editore Fischer. Questi la pubblicò prima sulla rivista «Neue
Rundschau» e poi, nel 1913, in volume. Il fratello aveva visto nascere il
sentimento di Thomas. Scriverà una recensione sulla rivista «März» sempre nel
1913, parlando di quell’«amore nudo, inappagabile» vissuto nell’ambito di
un’«austera solitudine», tanto di Gustav quanto di Thomas. E una sensazione di
austerità è quella che ho raccolto al Lido. Heinrich metterà in evidenza come
gli ultimi palpiti del cuore dell’artista maturo, che non arriverà alla
vecchiaia, all’età che sola permette di «abbracciare per la prima volta
veramente il proprio lavoro e la propria vita», che non scriverà più, che
morirà di colera, lo «faranno palpitare come se fossero i primi» (Nigel
Hamilton, I fratelli Mann, trad. it.
di Elena Grechi, Garzanti, 1983, p. 202). Nella realtà dei fatti, nella
primavera del 1911 i coniugi Mann insieme a Heinrich decisero di fare un
viaggio. La prima tappa fu in Croazia, alle isole Brioni, ma non vollero
restarci in quanto l’arciduchessa d’Austria entrava in sala da pranzo due
minuti dopo l’ingresso degli altri ospiti, costringendoli ad alzarsi e
ugualmente ne usciva due minuti prima, imponendo lo stesso rito. Così optarono
per Venezia, dove arrivarono verso la fine di maggio dello stesso anno. Heinrich
però si annoiava al Lido, pretese che si andasse in montagna. Lo si accontentò,
sia pur controvoglia. Finirono a Bolzano, dove tuttavia non trovarono luoghi
idonei per sostare e perciò fecero retromarcia verso l’antica città lagunare.
Ciò corrisponde nel racconto alla decisione di Aschenbach di partire da
Venezia, con la scusa del clima ostile, in realtà attuando un estremo tentativo
di difesa dalla passione che, sente oscuramente, sta per travolgerlo.
Maschere dell’erotismo
Nonostante la coda di paglia di Gundolf, che vide
un’intenzione polemica da parte di Mann dove forse non c’era, o se c’era a sua
volta non coglieva nel segno, fatto sta che in George – erroneamente
strumentalizzato dal nazismo – e nella sua élite
«l’inscenamento liturgico crea un voluto effetto di straniamento ed è palese
indizio della stilizzazione letteraria del dato reale, ma non per questo mente
rispetto all’intento: la poesia eternizza, come nella concezione classica, e
per eternizzare non può limitarsi alla sfera privata della sua degustazione»
(Versari 2004, p. 83). L’esperienza amorosa è individuale ma vuole dirsi al
mondo: di qui il senso del George-Kreis
in una misura che, al di là dell’apparato rituale che di per sé vuole abolire
il tempo storico, sta a eternizzare il sentimento attraverso la condivisione e universalizzazione
(nel senso classico del rapporto con l’universo) della poesia.
Da quell’estate del 1911 è trascorso più
di un intero secolo, eppure la realtà cui Mann ha sottratto la provvisorietà
della vicenda, immortalandola, mi si è data fisicamente tangibile davanti
all’Hôtel des Bains. La suggestione è stata accentuata dal fatto che «tutto era
vero e bastava metterlo a posto perché rivelasse in modo stupefacente la
facoltà interpretativa della composizione» (Thomas Mann, Saggio autobiografico, in Romanzo
di una vita, trad. it. di Ervino Pocar, il Saggiatore, 2012, p. 38). Non si
tratta soltanto di vivere i luoghi geografici che hanno ispirato pagine
letterarie. Il celeste dell’acqua marina, la sabbia finissima, la qualità
dell’ambiente non solo nella belle époque,
ma coglibile tuttora nella riservata stilizzazione dei bagnanti, a pochi metri
sulla sinistra, molti ma senza fare ressa, ciascuno per esclusivo conto proprio
ignorando senza ostentazione la presenza altrui, sono tutti elementi che
mostrano come la vita e i suoi piaceri non si vanno qui enfatizzando. Essi
alludono e preludono a un tempo successivo la cui venuta quasi nemmeno sarebbe
più necessaria, se non si sapesse che ci sarà, tanto si sublima ed è presente
un po’ ritualisticamente nel permanere in spiaggia. In questo senso è
comprensibile ciò che riporta Gilbert Adair nel suo The real Tadzio (titolo italiano La vera storia di Tadzio. L’icona bionda di Morte a Venezia, trad.
it. di Stefania Cherchi, Arcana, 2002), incentrato sulla ricostruzione delle
principali linee della biografia di Adzio, ossia di Władysław Moes. Un critico
francese «un po’ sboccato», di cui Adair non fa il nome, definì il film di
Visconti «una fantasia per masturbatori che preferiscono non togliersi le
mutande» (p. 101). Insomma il film indulgerebbe all’onanismo mentale – rectius: senza rinunciare ai preziosi
vestiti indossati anche in spiaggia da signore e bagnanti dell’epoca: farebbe
altrettanto il racconto? Qui ritorniamo alla polemica col George-Kreis ma, considerando che l’Aschenbach di Mann è
tratteggiato, tra l’altro, con superiore ironia, la risposta è negativa. Quanto
al film, aveva ragione il critico sboccato? Ogni contatto con la realtà non è
forse una contaminazione? Un degradarsi? Nemmeno è troppo comodo prendere il
vaporetto, perdersi nel labirinto delle calli, raggiungere Piazza san Marco,
sempre per appostare il bello, poi marciare militarescamente (Venezia è una
città che costringe all’esercizio ginnico, vi si cammina di continuo) per
risalire in tempo sul vaporetto, ritornare al Lido e tutto questo solo per una
contemplazione della bellezza fine a se stessa, in nome dell’amore in sé, senza
sbocchi di rapporto. È mai possibile? Frattanto eccomi arrivato a mia volta in
Piazza san Marco, la percorro fino alla basilica, forse il luogo più metafisico
del mondo, in cui tutte le leggi della statica e dell’estetica sono ribaltate.
Decido di sedermi a un tavolo del caffè Florian dove sostavano Silvio Pellico e
altri personaggi come la fascinosa e fatale contessa Annina Morosini, la
cosiddetta dogaressa, amica di Gabriele d’Annunzio (che la definì «Bellezza
vivente») e di tutti i sovrani europei (cfr. Paolo Schmidlin, La magnifica narcisista. La contessa
Morosini una leggenda veneziana, «Amedit – Amici del Mediterraneo», Numero
29, Dicembre 2016, pp. 26-27). Blandito dall’orchestra indugio al Florian e penso
che le avventure della mente e del sentimento di Aschenbach dovevano avvicendarsi
in questa Piazza rendendogli impossibile sentirsi poi tanto solo (fino a ricollegarsi
al prototipo nietzscheano, come secondo i rimandi del film al Doctor Faustus), in una perfetta
sintonia col mondo esterno. Ma Aschenbach a un certo punto non si accontenterà
più del caso che gli metteva davanti il suo idolo: si spingerà a inseguirlo, ad
appostarlo. Il vincolo di un rapporto amoroso non può non restare la
corporeità, e in fondo anche l’amore in sé si vuole dire al mondo.
Le maschere dell’erotismo si sovrappongono
in un procedimento non poi così lontano dal metodo di Stefan George. Dietro
Tadzio si nascondono tre persone realmente amate da Mann: il barone Władysław Moes
detto Adzio, ma anche Armin Martens e Williram Timpe. Armin (alias Hans Hansen
del Tonio Kröger, ma in quel
personaggio confluisce pure Paul Ehrenberg) fu il compagno di scuola al
Katharineum di Lubecca di cui Thomas si era infatuato nell’inverno 1889-1890.
Quando gli dichiarò il suo amore, il ragazzo gli rise in faccia provocandogli
«una profonda umiliazione. Altri se la sarebbero buttata alle spalle, non un
poeta sensibile come Thomas Mann» (Kurzke 2005, p. 39). Il ricordo di lui lo occuperà
per tutta la vita, né avrà mai più speranza di rivederlo perché Armin morirà
sedici anni dopo, il 1° aprile 1906. Scriverà di lui in una lettera a Hermann Lange,
altro vecchio compagno a Lubecca: «Fu davvero il mio primo amore e non me ne fu
mai concesso uno più tenero, più beato e insieme più doloroso. Sono cose che
non si dimenticano anche dopo 70 anni pieni di eventi» (Kurzke 2005, p. 37). Con
Williram Timpe le cose non andarono molto meglio. Abitarono per due anni
insieme, coi genitori di Timpe: in seguito al trasferimento della madre a
Monaco e dopo la morte del padre, Thomas si trovava a pensione presso di loro.
Stavolta, ancora scottato dall’infelice reazione di Armin Martens, preferì
tenere per sé i propri sentimenti. Dopo queste due vicende degli anni acerbi lo
scrittore non vorrà più contaminarsi col rischio della realtà, ma con almeno
due significative eccezioni: il pittore Paul Ehrenberg e il giovanissimo Klaus
Heuser. Si hanno indizi per affermare che con Paul riuscirà ad andare oltre: «l’ho
amato ed è stato qualcosa di simile a un amore felice» scriverà nel diario, il
13 settembre 1919. Poi si sposerà, come è noto, relegando l’omosessualità
nell’ambito della letteratura e nelle pagine del diario, e avrà sei figli.
Sennonché nel 1927 il cinquantaduenne ormai famosissimo (due anni dopo avrebbe
ricevuto il Premio Nobel) incontrerà il diciassettenne Klaus Heuser,
nell’agosto, sull’isola di Sylt. Anche stavolta fu un amore felice, vissuto non
in astratta teoria, perlomeno per un bacio che ci è stato tramandato («Occhi
neri che versarono lagrime per me, amate labbra che io baciai… sì, è stato
così, anch’io ho avuto la mia parte, potrò dire a me stesso sul letto di morte»
annoterà anni dopo, il 20 febbraio 1942). La sua vita andrà avanti fino a uno
degli ultimi amori senili, ora di nuovo platonico, per il cameriere Franz
Westermeier, incontrato al Grand Hôtel Dolder di Zurigo, nel 1950.
Se incrociamo
tutti questi riscontri con l’Aschenbach de La
morte a Venezia, ci accorgiamo che l’opera viscontiana ha saputo
interpretare con audacia, compatibilmente col testo della novella, lo spirito
dionisiaco dello scrittore. Non è assurdo affermare che the real Tadzio sia stato non tanto quello, diciamo così, veneziano
anzi polacco che risulta dall’indagine di Gilbert Adair, bensì il ragazzo di
Lubecca, Armin Martens (senza escludere del tutto Williram Timpe), se vogliamo
basarci sulla coerenza strutturale del fondamento. Tanto più che se il lettore confronterà
la fotografia di Armin riportata da Hermann Kurzke a p. 35 del suo libro con
quella di Władysław Moes (Adzio) a 16 anni, che sta a p. 52 del gustoso libretto
di Adair, vedrà che sono pressoché identiche: stessa posa e stessa mise, sembrano sbalorditivamente la
stessa identica persona. E tuttavia, quando tutto è stato detto, possiamo
concludere affermando che Mann indubbiamente era incline a intellettualizzare
l’omoerotismo, ma l’amore in sé, nonostante le sue assolutizzazioni e astrazioni,
è pur sempre riconducibile a una (o più) persone reali.
Sandro De Fazi
per Amedit
– amici del mediterraneo, n. 40 /autunno 2019
mercoledì 31 luglio 2024
Il motivo del convito d’amore nei CENTO CANTI di Andrea Rossetti. Una recensione
Accostandoci
a questa raccolta, proprio come accadeva nei
banchetti di Roma antica, siamo invitati a combattere contro la morte. Non
esito ad affermare che, nel parlarne, il mio vissuto di questi Cento canti di Andrea Rossetti (96, rue
de-La-Fontaine Edizioni, 2024) da una parte è autoreferenziale, dall’altra è
pur sempre comunicativo. Voglio dire che recensire poesia non è come recensire
prosa narrativa o saggistica, si presuppone una selezione di lettori – e qui il
discorso diventa sociologico-letterario, oltreché squisitamente critico, – il
che autorizza a una terminologia specialistica se non addirittura «poetica»
almeno nel fare riferimento testuale al libro di versi qui preso in grande considerazione.
Si tratta di uno scrittore, Andrea Rossetti, a cui mi sento particolarmente analogo
per quanto riguarda alcune premesse di carattere formale. Parliamo infatti soprattutto
della riprova, rarissima di questi tempi, che la poesia, che pur sempre è il
genere letterario più elevato se proprio vogliamo fare (e da parte nostra neanche
vogliamo) una rigida distinzione di generi, è ritmo, musicalità, abbinamento
inusuale e non denotativo di parole essendo il suo linguaggio connotativo
affinché l’emozione – nel caso dei Cento
canti, non per niente tanti quanti nella Divina Commedia, essa è frequente e intensa – arrivi a chi legge.
Dire andando a capo che il cielo è blu o coperto non ha nulla di poetico, lo
diciamo tutti i giorni nella realtà comune a tutti, surreali cambiamenti
climatici, ma molto poco poetici, permettendo; è al contrario efficace nella sua
polisemia che l’aia della chioccetta sia azzurra e che il pigolio sia di
stelle, come in Giovanni Pascoli. Sia ben chiaro che anche per la prosa le cose
non stanno ormai in modo troppo diverso, basti pensare a quel che scrisse
Sartre in Difesa dell’intellettuale:
anche quella pretende la ricerca di un linguaggio e di una struttura narrativa
che non sia già data convenzionalmente o, come spesso accade, leziosamente
negli stereotipi. Non diversamente la prosa saggistica può non essere di per sé
avulsa dall’artisticità, come ha dimostrato François Ricard in
La solitudine del saggista.
C’è
una profonda domanda esistenziale nei Cento
canti, soprattutto nella prima sezione intitolata Elegia delle ceneri, che si stempera nella seconda, Gli incontri, vero e proprio canzoniere
amoroso con varie dedicatarie (una ballatetta è rivolta a Mademoiselle S.,
notoriamente Stefania Bergamini), luci fugaci o persistenti, fino alla terza, Traümerei, in cui ogni singola poesia è dedicata a Chiara Z. Ma, come ci avverte
l’introduttivo Vergiliato dell’autore a
se stesso, «la verità della bellezza è inafferrabile per chi pretenda di
concepirla a partire dal numero incommensurabile delle estasi che,
disseminandosi nei Campi Elisi del tempo, essa elargisce». Il Vergiliato costituisce una funzione esplicativa in termini di
lettura del libro ed è una dichiarazione preliminare di poetica. «La vita non è
bella e la bellezza non è della vita», dice l’autore a se stesso in linea con
la nostra maggiore tradizione ottocentesca che va da Foscolo («di donna andando
/ in donna») a Leopardi e oltre. Rossetti dialoga con
loro, col Carducci barbaro, con d’Annunzio, senza escludere lo stesso Dante.
Anche gli antichi sono qui solennemente, scorrevolmente convocati: Saffo,
Platone, Pindaro, Catullo, Virgilio, Orazio, Petronio. Né c’è soltanto
l’elemento sentimentale o estetico, perché secondo il paradigma classico è
evidente la tensione etica tra i raggiri della nostra inquietante
post-modernità. Ma su che cosa sia classico bisognerà intendersi. Ne
concludiamo che l’unica saggezza è quella del ritmo metrico rigorosamente
tradizionale e neo-antico della versificazione, fuggevole e insieme perentorio:
che vuol dire tutto.
Gettati heideggerianamente in un mondo sempre
più complicato, non resta che «qualche / gentile e perso convito d’amore». Tra
il sentire poetico e il convito non c’è però molta differenza, fatta salva la distinzione tra «l’illusione per l’al di qua sensibile e l’allusione a un al di là
inattingibile», secondo quanto è mirabilmente espresso nel Vergiliato. Non è escluso il rapporto vassallatico con gli
oggetti d’amore, al punto che queste poesie di Andrea Rossetti ci fanno riproporre
la domanda sul senso dello stilnovo, che tuttora ci sfugge. È inspiegabile in
Guinizzelli e in parte in Cino da Pistoia (le rime per la giovane bolognese)
l’esaltazione di un amore che istituzionalmente si dà come inattingibile
laddove Lapo Gianni, il più epicureo di tutti, si tiene distante dal pianto
d’amore fino a rivendicare giustizia nell’avvalersi di una vendetta verso la
donna (più d’una, in verità) respingente. Guinizzelli, e con lui crediamo
Andrea Rossetti, non si scoraggia nel voler raggiungere una più diretta e
completa comunicazione con l’amata, anche a costo di depotenziare l’elemento
angelico. La perfidia di Angelica, del resto, ariostesca abitatrice del
non-dove, e della donna-angelo o angeli novi
e novissimi, necessari e
non-creaturali, è risaputa.
È questa una poesia che va a ricucire ferite
esistenziali, celebra la storia d’amore e dà realtà alla non-storia, perché non
solo eros vive nella parola ma di-per-sé crea bellezza e riformula la storia
(«è solo il futuro / l’oggetto prediletto dei ricordi»). Ciò perché il
classicismo di cui sono permeati i Cento
canti non appartiene al passato ma al futuro, non è mai esistito un
classicismo che non fosse neoclassicismo. Il classico, lo ribadiamo anche in
questa sede, è sempre di là da venire, non è dato una volta per tutte. Esso non
è stato contemporaneo nemmeno all’età classica, era di là da venire pure in
Orazio (più filosofo che poeta, diceva bene il Croce, l’esametro oraziano non
essendo per giunta propriamente bello). A lettura conclusa – ma leggere
un’opera di poesia non è mai un atto definitivo – la nostra vitalità è
accresciuta, e questa è infine l’unica vera riprova del valore estetico e
morale del libro.
Scauri (LT), luglio 2024
Sandro De
Fazi
venerdì 5 luglio 2024
"KI. Segni dello spirito" di Maurizio Gregorini
martedì 25 giugno 2024
DARIO (incipit di un racconto inedito)
(Foto: Il poeta e scrittore Dario Bellezza - Archivio storico Istituto Luce)
Era un tardo pomeriggio di fine gennaio del 1986.
Dario Bellezza veniva da Pompei dove era andato a ritirare un premio letterario,
forse a tenere una conferenza o una lettura di poesie, e sarebbe da Napoli
Centrale presto ripartito per Roma, fermandosi giusto il tempo di conoscerci di
persona dopo tante telefonate, trattenerci a un bar; io arrivai da Caserta in
poco tempo per raggiungerlo. Che il primo, reale incontro sia avvenuto in quel
periodo lo deduco da una poesia pubblicata in un mio libro di quell’anno,
quando avevo compiuto venticinque anni. Lo affermo all’inizio di queste note,
dove sento l’eco dei Ricordi di Friedrich Nietzsche scritti da Paul
Deussen. Quello era il mio esordio letterario, piuttosto in sordina se vogliamo
anche se alla compianta Cristina Annino capitò di pubblicare con lo stesso
editore e io ero contentissimo perché mi aveva letto il miglior poeta della sua
generazione, come lo definì Pier Paolo Pasolini. L’ultimo verso di quella
poesia è il seguente: Solo ciò che conforta è la bellezza. È datata
22-28 gennaio 1986. Ma dopo tanti anni è difficile non confondersi sulle date e
le circostanze e gli sviluppi ulteriori della nostra amicizia e mi pare proprio
che quel mio testo poetico mi sia rivelatore non solo cronologicamente. Risulta
che lo scrissi, o perlomeno aggiunsi quelle parole tra il 22 e il 28 gennaio
dopo aver visto Dario alla Stazione Centrale di Napoli per la prima volta, ma
non so dire con esattezza in quale giorno. Né penso che la bellezza mi
confortasse particolarmente in quel periodo, avevo trascorso brutti mesi come
si era accorta la Morante, qualcosa di cupo mi attraversava. Portavo una
montatura nera di occhiali molto spessa, mi nascondeva metà del volto, per un
vezzo giovanile quasi mi camuffavo da brutto. L’allusione alla bellezza
era un gioco di parole che si riferiva proprio al cognome del poeta.
Lui era ancora più grande di quanto io stesso fossi
allora in grado di comprendere, anche se per vari aspetti ne intuivo
l’ulteriorità a sua volta e a suo modo nietzschiana. Ora tuttavia mi viene un
dubbio: poteva essere il 1985? Gennaio 1985? Che fosse inverno inoltrato sono
sicuro, Elsa Morante era ancora viva tant’è vero che ne parlammo e in quella
circostanza napoletana lui aveva nominato Virginia Woolf, che nel suo romanzo
Turbamento è il senhal di Elsa (la poesia la scrissi l’anno dopo). Perciò,
tralasciando quella poesia, propendo in definitiva a ritenere che quel
pomeriggio a Napoli fosse la fine di gennaio del 1985.
C’era con lui un ragazzo di nome Charlie.
martedì 18 giugno 2024
Recensione di Stefania Bergamini a EUGENIO (4 luglio 2023)
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Foto di Stefania Bergamini |
“Niente in Eugenio è certo. Nessuna azione, nessun dialogo, nessun luogo e incontrovertibilmente accertato, nessun amore è reale, dell'esistenza di ciascun personaggio si dubita. Ma proprio per questo, paradossalmente in Eugenio niente è inventato, i personaggi sono tutti reali, le storie d'amore tutte vere. La trama di questo romanzo, il cui titolo allude a un disegno letterario mai realizzato da Giacomo Leopardi, depista il lettore e lo sfida con pathos crescente, attraverso l'avvicendarsi di eventi in cui la vita è celebrata nell'eterno superamento di se stessa.”
Sandro De Fazi
Eugenio è il romanzo bellissimo di Sandro De Fazi.
Dentro a una
scrittura profonda, sensibile e raffinata Sandro De Fazi trascina in una No man's land (Berberova. C’è una vita a
tutti visibile, e ce n’è un’altra che appartiene solo a noi, di cui nessuno sa
nulla), che diventa un segreto e geniale diario pieno di erotismo mai esagerato
e quasi crudele nel porgerlo come sogno o la libertà di pensarlo come reale
accaduto.
Dedicato al
poeta Dario Bellezza, il romanzo, in certi punti, si avvicina al pensiero di
Kierkegaard, il sottrarre bellezza al mondo per poi restituirla rielaborata godendone
ora con l'immaginazione ora con l'intelletto e disorienta, c'è altro oltre
questa dimensione?
Davvero una bella lettura.
4 luglio 2023
Recensione di Paolo Crimaldi a EUGENIO (8 settembre 2021)
Voglio consigliarvi la lettura del romanzo del mio
amico Sandro De Fazi, un racconto che spazia dagli anni anni '80 ad oggi e che
permette di vivere attraverso i protagonisti vicende, passioni, pensieri che
vanno dal presunto al reale tanto da chiedersi continuamente cosa c'è di
autobiografico e cosa invece è pura invenzione letteraria.
I personaggi più riusciti, a mio avviso, sono
sicuramente quelli di Fabrizio e di Diego, e non è poi così difficile
affezionarsi a loro e vivere con loro avventure e emozioni anche erotiche,
appassionate, forti ma mai volgari e scontate.
Nel libro sono presenti vere e proprie finestre di
erotismo anticonformista che spingono a voli pindarici e forse anche a
invidiare i personaggi che le vivono con così tanta naturalezza e leggerezza.
Del resto ogni singola persona presente in questo
racconto è tratteggiata con grande finezza psicologica, quasi sull'onda del
romanzo russo d'inizio del secolo scorso, e lentamente si entra nella trama e
si finisce col vivere le passioni, i pensieri, le considerazioni che costellano
la vita di "Eugenio" (ma esiste? È presente nel libro?) e di chi ne
fa parte.
Leggerlo è un piacere anche perché veloce e mai ridondante e porta a pensare che forse sarebbe bello entrare a far parte della storia raccontata non solo da spettatori, ma anche da protagonisti.
8 settembre 2021
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