mercoledì 12 marzo 2025

Presentazione di TUTTO IL TEATRO di Elio Pecora (Edizioni Il Simbolo), Libreria Feltrinelli di Caserta, 14 marzo 2025, ore 18


 

I PIEDI DEL MONDO. COME LE SCARPE NIKE HANNO RIVOLUZIONATO L’IMMAGINARIO GLOBALE di Tommaso Ariemma. Una recensione

Che l’estetica abbia carattere filosofico e speculativo a differenza delle poetiche che invece sono storiche (e mutevoli: romanticismo, naturalismo, verismo) e prescrittive è un’ormai classica distinzione posta da Luigi Pareyson nella sua teoria della performatività. L’importante è che l’artista operi, perciò sul piano estetico le poetiche sono tutte ugualmente legittime. Ma se le poetiche sono storiche e mutevoli, l’estetica si basa su un’altra storicità: quella dell’unità fondamentale del pensiero filosofico. Siamo convinti che questo discorso riguarda le belle lettere non meno delle belle arti, se solo si pensa che il neoclassicismo nacque da Winckelmann per estendersi alla letteratura europea, senza escludere le arti sviluppatesi da circa un paio di secoli a questa parte o negli ultimi decenni. Tutto il saggio intitolato I piedi del mondo che ha come sottotitolo Come le scarpe Nike hanno rivoluzionato l’immaginario globale (Luiss University Press, 2024) di Tommaso Ariemma parte dal seguente presupposto: il riferimento ellenico a Atena Nike (leggendo il nome grecamente) come fondamento cui alludono le sneakers di marca Nike (leggendolo all’americana) costituisce un momento se non di vittoria almeno di resistenza, di vitalità, di libertà non senza qualcosa di furtivo, in termini di sottrazione al destino dell’Occidente minacciato in primo luogo da sé, come la cronaca di questi mesi e giorni ci insinua con inquietante insistenza.

Ariemma ha dato molti contributi alla pop filosofia e di estetica si occupa anche come docente. Questo, si potrebbe azzardare estremizzando, è in fondo un libro sulla morte o, meglio, sul senso di perdita del passato cui paradossalmente le nuove tecnologie ci spingono quando sembrano immortalare le nostre memorie e le nostre esperienze di vita, in quanto nessuna epoca ha mai avuto a disposizione tanti dati come la nostra, nessuna si rivela così effimera. Per Ariemma, se il mondo greco era unitario, quello attuale è contraddistinto da una dinamicità che pur vuol assurgere a unità, perciò ne vengono molteplici spunti iniziando da Martin Heidegger che analizzava le scarpe dipinte da van Gogh dando così dignità di analisi filosofica all’oggetto destinato a diventare iperoggetto, a Marshall McLuhan secondo il quale ciò che indossiamo è il medium più antico nel rapporto col mondo, sicché – scrive Ariemma - «non c’è, a rigore, un oggetto più “sintetico” di una scarpa, capace di riunire in sé ogni aspetto fondamentale del reale, operando così la più sorprendente delle sintesi tra piedi e mondo» (p. 27). Ancora il compianto Gianni Vattimo è convocato per le sue analisi della postmodernità, Werner Jaeger per la sua monumentale e imprescindibile Paideia. Di grande suggestione è il resoconto che l’autore ci fa del viaggio di Heidegger in Grecia nel 1962, lo stesso anno in cui vi si recò il ventiquattrenne Phil Knight, futuro fondatore del marchio (p. 48 e sgg). Quest’ultimo rimase molto colpito nel vedere, al museo dell’Acropoli, la statua di Atena Nike intenta a sistemarsi un sandalo, Heidegger da parte sua rimane affascinato dall’assenza nel Partenone della dea fuggita. Tale assenza finisce per essere se non una presenza quantomeno una traccia, heideggerianamente una traccia della traccia lasciata dalla dea che, insieme agli altri dèi, è fuggita. In quella circostanza a Knight venne in mente il nome Nike da dare alla sua azienda.

Non dubitiamo che l’outfit sia espressione di scelte culturali proprio nel rapporto col mondo, la moda appartiene a tale vicenda come nella famosa operetta morale leopardiana dove essa dialoga con la morte, sempre nell’avvicendarsi contestuale di éros e thánatos. Ma le parafilie studiate da Krafft-Ebing e da Wilhelm Stekel, in testi ormai peraltro datati, però non c’entrano molto, nemmeno l’esilarante Piedi. Pensieri per un feticista di Laura De Luca. Ci è capitato in passato di occuparci de Le regole del mio stile di Lapo Elkann, che è un vero manuale di antropologia della moda, e cogliamo una singolare coincidenza dal momento che I piedi del mondo si conclude citando l’ottusa polemica della quale fu fatto oggetto tempo fa un articolo dello scrittore Alain Elkann, accusato di classismo laddove in treno stava giustamente cogliendo un preciso mutamento antropologico in un gruppo di ragazzotti. Si tratta di una rivoluzione, secondo ciò che è evocato dal sottotitolo del libro di Tommaso Ariemma, in atto da tempo, dal famigerato edonismo reaganiano degli anni Ottanta per proseguire con l’affermarsi sempre più radicale della digitalizzazione, dal VHS ormai diventato obsoleto al DVD che neppure gode ottima salute, al personal computer, allo smart, al tablet e quant’altro. Ma il nostro giudizio sulla rete è infine positivo, essa fornisce risorse e possibilità un tempo impensabili, sempre però attuandone un corretto utilizzo: troppe incongruenze nella comunicazione e troppi narcisismi autoreferenziali imperversano. Le Nike (ma perché no, per estensione, le Gems o le Reebock?) assurgono così a simbologia alternativa di un movimento pur sempre dentro il mondo.


                                    Sandro De Fazi

                                    Marzo 2025

                                     

lunedì 12 agosto 2024

LA DISPUTA SULL’ART POUR L’ART Mann e George /Due estetiche a confronto

 



Estasi per la bellezza

Difficilmente si potrebbe sostenere che tra Thomas Mann e l’esperienza estetica del circolo di Stefan George corresse buon sangue, benché Klaus Mann diventasse in futuro uno dei suoi simpatizzanti. Ma Klaus, a differenza di Thomas, viveva apertamente la propria omosessualità senza trincerarsi dietro la facciata della morale borghese presente nel libretto del padre intitolato Sul matrimonio del 1925, dove si schierava pubblicamente contro lo stile di vita libertino, lo stesso che caratterizzò le scelte dei figli Klaus ed Erika. L’autore de La morte a Venezia stabiliva un singolare binomio fatto di bellezza e morte; l’amore tra persone dello stesso sesso veniva equiparato all’art pour l’art poiché non è riproduttivo e dunque è fine a se stesso e non vitale. L’omosessualità nel piccolo saggio è associata alla morte, non esiste benedizione in essa «se non quella della bellezza che è benedizione di morte. Le mancano le benedizioni della natura e della vita» (trad. it. di Italo A. Chiusano, Feltrinelli, 1993, p. 38): argomenti fortemente obsoleti, risalenti a momenti storici molto lontani da noi, fortunatamente non presenti negli stessi termini nell’opera letteraria né tantomeno nei diari. Qui sta parlando Thomas Mann con la sua facies pubblica. Il cosiddetto amore libero è per lui «amore infecondo, senza speranza, irresponsabile e incoerente. Nulla nasce da esso, non è la base di nulla, non è che l’art pour l’art, forse un’assai libera e superba cosa dal punto di vista estetico e però immorale, senza alcun dubbio» (ibidem). L’argomentazione, sostenuta dalla sua inconfondibile prosa, ha un suo fascino ambiguo anche quando si richiama all’antichità, non tenendo però conto del fatto che la pseudo-omosessualità greca – “pseudo-” in quanto non vi era percezione etica nel mondo antico, pur tra rigorose regolamentazioni, di una differenza, o “diversità” che il cristianesimo nella sua più chiusa istituzionalizzazione pratica tenderà successivamente a demonizzare – se non è produttiva di figli, lo è di sapere filosofico. Qui la massima concessione è che l’omosessualità è l’arte e il matrimonio è la vita morale.

          Katja Pringsheim fu contenta dell’omaggio ma era perfettamente al corrente dell’attrazione provata dal marito per ragazzi e giovani uomini, dato che era lui stesso a parlargliene, il che la dice lunga sull’apertura mentale di lei; sappiamo della sua pazienza e comprensione nei momenti non infrequenti in cui Thomas si mostrava fisicamente refrattario ad avere rapporti intimi. Perciò, se ci si addentra nel perché e nel come del dissidio col George-Kreis, gruppo decisamente schierato a favore della mimesi dionisiaca, querelle nella quale si faceva a gara a darsi del borghese e antiborghese a vicenda, ora in difesa e ora contro la Germania con tutto quel che, di lì a poco, avrebbe drammaticamente significato, non se ne esce facilmente: «Mi ricordo bene con quali parole, a quanto mi hanno riferito, Stefan George ha respinto i miei Buddenbrook: “No,” disse, “questa roba non fa per me. È ancora musica e decadenza”. Ancora? Una tarda, anzi attardata borghesia faceva dunque di me un confessore della decadenza» scrive nelle Considerazioni di un impolitico (a cura di Marianello Marianelli e Marlis Ingenmey, Adelphi, 2005, p. 123), saggio di proporzioni mastodontiche dove prende di mira, attaccando implicitamente il fratello Heinrich, la pretesa dello Stato democratico di basarsi su premesse illuministiche. E risponde a George per le rime. Il Thomas Mann che parla con la sua facies pubblica in taluni casi afferma esattamente il contrario di quanto ci si aspetterebbe da uno che ha scritto i capolavori che conosciamo. Ma pure nell’opera ci sono nodi concettuali difficili da sciogliere. Di qui però una delle ragioni della sua attrattiva e della sua grandezza: la fedeltà al modello goethiano nel far coincidere gli opposti.

          Tutt’altra impostazione in Stefan George, più esplicito e diretto alla sua maniera. Se Mann accoglie nella sua opera la società borghese criticandola, George la esclude del tutto, rigetta interamente la vita sociale della sua contemporaneità, da lui percepita come perdizione. A Mann non sarebbe mai venuto in mente di condividere da vicino il proprio culto per l’arte con una ristretta cerchia di mistici adoratori della bellezza maschile, né tantomeno di esprimersi in poesia anziché nella forma-romanzo e nel romanzo-saggio, sempre a lui più congeniali, essendo la prosa narrativa, forse per la sua tendenza mimetica, tradizionalmente molto frequentata dalla borghesia colta. La visione aristocratica di George «non ammetteva fratellanze: in lui non c’è che il genio creatore e la massa bruta, senza stati intermedi, senza mediazione, senza comunità di sorta» (György Luckács, Breve storia della letteratura tedesca, trad. it. di Cesare Cases, Einaudi, 1976, pp. 149-150). Ciò è interessante in quanto George sceglie proprio la poesia, già al tempo genere letterario d’élite, come medium privilegiato per la sua tenace opposizione alla società di massa. E questo ha anche del paradossale, poiché appunto la massa non vuol arrivare direttamente alla poesia, mentre l’unica comunità che George ammette è quella del suo gruppo.

 

Primato del sentimento

Il George-Kreis era una comunità di amanti (poeti, scrittori, filosofi, intellettuali di varia tipologia) stabilita su una rigorosa selezione naturale, si direbbe una realizzazione aggiornata del Simposio platonico, e viene fatto di pensare più a una tenace operazione di resistenza e autocostruzione di sé che non a una cerchia fondata su intenti di propaganda culturale e politica. Quanti vi aderivano dovevano per statuto essere tutti uomini, tutti omosessuali e tutti belli; altro tratto peculiare era costituito dall’elemento erotico. È facile prevedere come tutto questo sfociasse in un vero e proprio misticismo, non impervio a implicazioni carnali. Col tempo George, da primus inter pares che era all’inizio, diventò il leader indiscusso del gruppo, trattato come sacerdote secondo un cerimoniale ben preciso. Sia chiaro che i sostenitori esterni, non necessariamente aderenti a tutte le istanze del Kreis (ne fece parte per qualche tempo pure Rilke), furono tanti e della più svariata estrazione, affratellati dalla medesima motivazione antiborghese, categoria che oggi non ci dice più molto ma all’epoca aveva ancora un significato. Marco Fraquelli ha ben analizzato le caratteristiche del gruppo, inconfondibile soprattutto quando emerse il giovanissimo poeta Maximilian Kronberger, lo studente di liceo del quale George si innamorò e Maximin (così veniva chiamato) diventò fatalmente il centro dell’attrazione generale, una sorta di musa ispiratrice, ma la venerazione era condivisa dagli adepti fino a un certo punto. Maximin, scrive Fraquelli, «appartiene esclusivamente a George, che gli dedica numerose poesie d’amore» (Omosessuali di destra, Rubbettino, 2007, p. 69). Maximin viene divinizzato già da vivo, il Kreis deve trattarlo religiosamente, e questo sarà tristemente ancora più facile dopo la prematura morte del ragazzo, appena diciottenne, avvenuta nel 1904.

Ma chi era esattamente Maximilian Kronberger, specialmente in rapporto all’opera e alla vicenda biografica di George? Era un ragazzo normale, sopravvalutato dal grande poeta tedesco ma ciò è vero soltanto se ci atteniamo a un esclusivo quanto ingiusto dato oggettivo di relativa importanza. Probabilmente il ragazzo presente nelle poesie è quello vero e l’invenzione è data dall’innamoramento del poeta: l’amante reinventa sempre il suo oggetto, lo crea cogliendone aspetti più veri del vero e rivelandolo a lui stesso. Sappiamo da Margherita Versari che la frequentazione tra i due fu sporadica, ma ciò è irrilevante dal punto di vista dell’analisi semiotica; lui era un adolescente come potevano essercene tanti quando si conobbero, per strada, nel 1901; fu George a scoprire il suo talento, anche se Maximin era «probabilmente inadeguato a tanto investimento emotivo e intellettuale del Maestro» (La poesia di Stefan George. Strategie del discorso amoroso, Carocci, 2004, p. 83) e allo stesso tempo tale circostanza nulla toglie all’autenticità del Maximin immortalato nei versi.

          Fu un amore grande e breve. Ma se dal punto di vista letterario è lecito trasfigurare la situazione amorosa, è pur vero che la presa di distanza dall’oggettività, l’idealizzazione esasperata di George verrà contestata da Max Horkheimer e Theodor Adorno nella loro Dialettica dell’illuminismo, proprio per il mito della «bestia bionda» (trad. it. di Renato Solmi, Einaudi, 2010, p. 250) derivante dalla paideía greca, ma assunto di lì a poco dal nazismo. Si tratta insomma di una proiezione gheorghiana dell’idea del bello su Platone e sull’educazione dell’uomo greco, nel senso che, non c’è dubbio, «la bellezza legata a un singolo individuo» cioè Maximin «viene poi proiettata sull’idea pura del bello» (Versari 2004, p.93). Siamo oltre lo stesso Winckelmann: il bello assoluto coincide non più con l’arte greca e romana ma con Maximilian Kronberger! Però Horkheimer e Adorno,  muovendo una critica radicale anche al concetto classico di kalokagathía (il bello, buono e valoroso), lo connotano in senso classista, laddove la kalokagathía non era legata all’utile, bensì al kalón, inteso proprio nel senso di opus, di intelligenza produttiva.

Il nome del poeta tedesco ricorre varie volte nei diari di Klaus Mann, redatti negli anni più che tragici dell’ascesa di Hitler. A ripercorrerli non si capisce molto dei suoi rapporti con le tantissime persone che frequenta, degli innumerevoli fatti, letture, flirts, amori, scritture che elenca, al netto di scrittori, poeti, nomi illustri intorno ai quali o è noto o è intuibile dal contesto il suo pensiero. Un turbinio di avvenimenti senza capo né coda, ma proprio questo è il fascino della sua operazione. Solo fatti e non interpretazioni, si direbbe, ma l’interpretazione sono in questo caso proprio i fatti che annota. Stefan George è da lui letteralmente idolatrato e sempre difeso mentre la propaganda di regime va impossessandosi degli aspetti più tenacemente aristocratici della sua opera. È di particolare rilievo constatare che Klaus parla di George come di un «dittatore spirituale», a proposito del «primato del sentimento: niente verità “oggettiva”», ma come distorsione e non come elementi appartenenti a George: li considera «menzogne della stampa nazista» (30 settembre 1932, in La peste bruna. Diari 1931-1935, trad. it. di Matilde de Pasquale, Editori Riuniti, 1998, p. 73). E Klaus difende il padre dall’accusa mossagli da Rudolf Thiel, autore di un saggio contro il Mago: secondo Thiel, Thomas avrebbe copiato da Nietzsche ma Klaus annota: «che ne saprebbe un Thiel di Nietzsche senza Th. Mann?»  (25 settembre 1932, p. 71). È improprio ritenere George un precursore del nazismo, una guida spirituale dall’anima hitleriana, benché non avulsa da forti pulsioni soggettivistiche. Il nuovo regno da lui vagheggiato e, nell’ambito del Kreis, organizzato in maniera gerarchica, non era il Terzo Reich. Emigrare e morire in Svizzera sarà il suo modo di opporsi.

                                                                     

                                                                          Sandro De Fazi

per Amedit – amici del mediterraneo, n. 41 /autunno 2019-‘20

 


MASCHERE DELL’EROTISMO Mann e Visconti / Variazioni su La morte a Venezia

gran parte della critica è confessione privata, tanto vale non gabellarla

per constatazione spassionata di una realtà obiettiva, che tale non sarà mai.

 

Italo Alighiero Chiusano, Meditazione su Thomas Mann

 

 

Tadzio e i movimenti della gondola

Il sorriso del ragazzo polacco nella novella di Thomas Mann appartiene perfettamente a una singolare dialettica: esso avviene di qua indicando il là, nell’ulteriorità del significato della risposta al poeta. Quel che è inaspettato è quando l’erómenos ricambia lo sguardo: l’erastés si tiene prudente e esteriormente pudico, ma il ragazzo gli sorride in modo insolente, il suo è un sorriso sfrontato che sta in luogo di esplicito ammiccamento, senza ritegno. La luogotenenza simbolizzata avviene però, realmente, nella più stilizzata simultaneità di due tempi: l’atemporalità e l’effimero, tutt’e due compresenti e comunicanti (soltanto) a Venezia. Questa simultaneità è rappresentata dall’oscillazione della gondola, in particolare dai movimenti del gondoliere che per trainarla sull’acqua va dal qui al là con gestualità inconfondibilmente lenta, solenne, cosicché l’imbarcazione ora insiste sull’hic et nunc, ora svela l’atemporalità dell’eleganza pur rimandante al senso dell’effimero, e intesa come equilibrio serenissimo nel passaggio dall’una all’altra dimensione. Prima di questa c’è la fuga di chi crea la bellezza davanti a chi la possiede, inevitabilmente lo stato d’animo è di vero corruccio, di pena. Ma il caso fortuito risospinge il fuggitivo a Venezia, interviene la sorte a decretare un diverso andamento, l’arrovellarsi interiore cede il passo all’impeto profondo della gioia d’artista, tutto è di nuovo possibile non solo nell’oscillazione positiva della gondola, il luogo ambito sarà di nuovo accessibile, presentemente è più forte della stessa necessità razionale che aveva imposto altrimenti. Nel film di Luchino Visconti, a differenza del romanzo, Aschenbach è un esperto di amori efebici assai simile al professor Humbert Humbert di Nabokov. In passato aveva probabilmente concupito altri loliti, né è impensabile che qualcuno di quelli adesso lo riporti a Tadzio (diminutivo di Taddeo).

Ho nuotato davanti all’Hôtel des Bains proprio dove è ambientato il capolavoro manniano. Non ci si bagna mai due volte nella stessa acqua, figurarsi se era la stessa acqua dove faceva il bagno Tadzio: e tuttavia la suggestione c’è stata lo stesso. Ho cercato di vedere il tutto “attraverso gli occhi” di Mann, immaginando la genesi della novella non nel senso in cui lui stesso ne ha parlato nel Saggio autobiografico – questo è noto – ma cercando di “vedere” lo scrittore tedesco in quel luogo, di capire che cosa dovesse provare mentre era lì in vacanza col fratello Heinrich e la moglie. Mi ha dato una sensazione di austerità, come qualcuno che mette soggezione, che non incoraggia certo facili avvicinamenti e, allo stesso tempo, con la consapevolezza di come doveva essere a dir poco interessante scambiare con lui anche poche parole. Tadzio, personaggio preso tale e quale da Władysław Moes (Adzio al diminutivo) realmente incontrato al Lido, ideal-tipicamente tratteggiato nel film con le fattezze di Bjorn Andresen, è un senhal facente funzione di Armin Martens o di Williram Timpe o dello stesso Władysław o di tutt’e tre insieme: «Sono riaffiorate le vecchie immagini degli anni di scuola a Lubecca. ”Sentimenti trascorsi, travagli antichi e dolcissimi, morti al suo cuore in tanti anni di austera fatica, gli apparivano ora mirabilmente trasformati, ed egli li ravvisava con un incerto, stupito sorriso.” Aschenbach ripensa e sogna, come un tempo Thomas Mann al lido: “lentamente le sue labbra formularono un nome”, quello di Armin o di Willri?» (Herman Kurzke, Thomas Mann. La vita come opera d’arte, trad. it. di Italo Mauro e Anna Ruchat, Mondadori, 2005, p. 183).

La prima mondiale del film ci fu a Londra nel 1971, alla presenza della regina Elisabetta II e della principessa Anna. Il professor Aschenbach di Luchino Visconti, oltre a essere un musicista (la sua musica è quella di Gustav Mahler) e non un letterato come nel romanzo breve, è più mefistofelico e simile all’Adrian Leverkhün del Doctor Faustus  rispetto al convenzionale scrittore borghese Gustav von Aschenbach. Già all’arrivo nella città lagunare è attratto dalla soldataglia in marcia e dà l’idea, proprio grazie all’interpretazione memorabile del grande Dirk Bogarde, di muoversi con disinvoltura nel perimetro dell’omoerotismo. Un’altra differenza è che il Tadzio viscontiano è più civettuolo e seducente, l’iniziativa del corteggiamento sembrerebbe partire da lui, non dall’anziano artista. Per la verità, pure in Mann si evince che, nei primi momenti al Grand Hôtel des Bains, prima di andare a tavola insieme alle monacali sorelle e all’istitutrice Nora Ricci, avendo atteso l’arrivo di Silvana Mangano – la madre della bellezza, la madre della morte - «per un motivo qualsiasi» il ragazzo «si voltò» a guardare colui che lo stava ammirando, ma nel film il suo sguardo è più penetrante e profondo, e successivamente senz’altro più imbarazzante per Aschenbach. Ciò perché, com’è legittimo che sia, Visconti forza il testo del racconto alla sua maniera (sia detto senza alcuna intenzione limitativa).

 


L’umanità di Tadzio

Le dimensioni della spiaggia del des Bains appaiono più piccole rispetto all’idea che me ne ero fatto in base alla letteratura e al cinema, sia l’una che l’altro alterano la realtà amplificandola. È proprio vero che la letteratura e le arti in generale mentono troppo, ma soltanto per restituire una realtà più vera del vero. Il loro è un inganno necessario. Della spiaggia dell’Hôtel come di Tadzio stesso ho colto rispettivamente l’appartenenza terrestre e l’aspetto umano. L’acqua dell’Adriatico è a prima vista deludente e in sé ordinaria, con qualche sospetto di bruttezza, ma mi ci sono immerso a lungo e mi è piaciuto. Sull’umanità di Tadzio la letteratura non ci ha ingannato quando, nella prima fase del suo soggiorno, prima della decisione improvvisa di abbandonare Venezia (decisione su cui poi sarà ben felice di tornare, dopo l’erronea spedizione del suo bagaglio a Como) Aschenbach incontra l’efebo in ascensore, ne osserva molto da vicino la dentatura non impeccabile, pallida, appartenente forse a un anemico e Mann scrive: «”È molto delicato, è malaticcio”, rifletté, “probabilmente non arriverà alla vecchiaia”; e rinunziò a spiegarsi il senso di appagamento e di sollievo che si accompagnava a questa riflessione» (trad. it di Bruno Maffi). È appagato e sollevato perché se di salute cagionevole l’erómenos non vivrà a lungo, nessun altro potrà amarlo eccetto lui, non sarà mai di nessuno. A proposito dell’incontro in ascensore c’è da aggiungere che di nuovo nel film, a differenza del romanzo, è Tadzio a guardare con provocatoria insistenza l’erastés in declino, che ne risulta turbato. Ma è appunto l’Aschenbach di Mann, in ciò non dissimile da quello di Visconti, a disattendere l’umanità di Tadzio, senza mai rivolgergli la parola o, quando tenta di farlo, è sopraffatto dall’emozione e ci rinuncia. Lo idealizza e basta.

È vero che i libri attribuitigli al secondo capitolo – una bibliografia piuttosto smilza, quattro opere in tutto non sono molte per uno che ha già compiuto cinquant’anni – ne ha in pratica una sessantina e di più – nella belle époque: due romanzi (uno sulla vita di Federico il Grande e un altro intitolato Maja), un racconto (Un miserabile) e un saggio (Spirito e arte, «che per vigoria ordinatrice ed eloquenza antitetica critici severi – traduce Maffi – non avevano esitato ad affiancare al saggio schilleriano Della poesia ingenua e sentimentale») – sono tutte allusioni a opere che Mann avrebbe voluto scrivere o che, meglio, confluirono parzialmente in altri suoi lavori, ma il Mago, come veniva chiamato da familiari e amici, solidarizza con la vicenda veneziana fino a un certo punto. L’esaltazione per Tadzio poteva essere, è stata, la medesima sua davanti a Władysław Moes, ma in seguito il narratore si distanzierà con l’ironia dalla china discendente dove andava precipitando il protagonista. Ricorda la moglie, Katja Pringsheim: «ebbe sempre un debole per questo ragazzo… e lo osservava sempre sulla spiaggia, quando giocava con i compagni. Non gli è corso dietro per tutta Venezia, questo no, ma l’adolescente lo affascinava ed egli vi pensava spesso». Gustav von Aschenbach è rigido e formalistico, un borghese cui è concessa una rispettabilità come di rado accade agli intellettuali, fin dal primo capitolo. Più impietosamente si può affermare che Mann ne ha fatto una caricatura. E di che cosa? Ma proprio di un rappresentante dello spirito apollineo, di un misticismo da lui nietzscheanamente avversato, di un determinato classicismo che parte dall’amor platonico e sembra fermarsi wagnerianamente, benché eroicamente, lì. Aschenbach avrebbe potuto essere un circospetto adepto del George-Kreis, il circolo poetico-mistico antiborghese di ispirazione piuttosto omoerotica ruotante intorno a Stefan George, del quale non intendo ora sminuire l’importanza e l’originalità, mi riferisco soltanto a poche linee essenziali per contestualizzare il discorso. In George, scrive Margherita Versari, «l’amore, dislocato a distanza, parla per bocca di personaggi dell’antichità greca, del Medioevo, o magari attraverso le immagini dipinte su un’anfora, ma il suo spessore e la sua coloritura sono attuali e cogenti» (La poesia di Stefan George. Strategie del discorso amoroso, Carocci, 2004, p. 53). E non è piena di rimandi ai dialoghi platonici e non descrive qua e là una bizantineggiante Venezia la novella in questione? Al netto del suo significato valoriale di recupero del classicismo, il George-Kreis arrivò a consacrare in un vero e proprio culto neopagano gli esseri amati, tra cui spiccò senz’altro la figura del poeta Maximilian Kronberger (detto Maximin), il ragazzo amato da George e morto giovanissimo, collocato sullo stesso piano di Beatrice (George era solito travestirsi da Dante con tanto di alloro sul capo). Fatto sta che, all’uscita del libro, il George-Kreis si sentì messo in ridicolo, fosse o no intenzionale la polemica di Mann e, come ricorda Cesare Cases, «Friedrich Gundolf scrisse a un amico che La morte a Venezia era “la cosa più sgradevole e falsa” che Mann avesse scritto».

Avrà invece Thomas, così affascinato e infatuato, rivolto la parola a Władysław? Certamente si è confidato con Heinrich e addirittura con Katja. Abbiamo parlato fin qui della costruzione intellettuale della novella, ma è chiaro che il sentimento ci fu, eccome, in lui. Il polacco Władysław Moes gli ricordava i suoi lontani amori di ragazzo. Eppure non è vecchio come Aschenbach: nel 1911 ha appena trentasei anni, essendo nato a Lubecca nel 1875. Tadzio è Władysław e Armin Martens: quest’ultimo, come vedremo, fu un amore mai vissuto nella realtà, ma mediante il senhal che lo sostituisce la narrativa manniana, fino alla fine, vi allude spesso. Gustav è Thomas mentre ama, anche se il Thomas che scriverà non sarà la stessa persona e intellettualizzerà. Lavorerà per un anno alla stesura, dall’estate del 1911 a quella del 1912. Władysław era partito e non c’era più alcun motivo per restare a Venezia. Non voleva consegnare l’opera conclusa, non ne era contento, fu Katja a portarla all’editore Fischer. Questi la pubblicò prima sulla rivista «Neue Rundschau» e poi, nel 1913, in volume. Il fratello aveva visto nascere il sentimento di Thomas. Scriverà una recensione sulla rivista «März» sempre nel 1913, parlando di quell’«amore nudo, inappagabile» vissuto nell’ambito di un’«austera solitudine», tanto di Gustav quanto di Thomas. E una sensazione di austerità è quella che ho raccolto al Lido. Heinrich metterà in evidenza come gli ultimi palpiti del cuore dell’artista maturo, che non arriverà alla vecchiaia, all’età che sola permette di «abbracciare per la prima volta veramente il proprio lavoro e la propria vita», che non scriverà più, che morirà di colera, lo «faranno palpitare come se fossero i primi» (Nigel Hamilton, I fratelli Mann, trad. it. di Elena Grechi, Garzanti, 1983, p. 202). Nella realtà dei fatti, nella primavera del 1911 i coniugi Mann insieme a Heinrich decisero di fare un viaggio. La prima tappa fu in Croazia, alle isole Brioni, ma non vollero restarci in quanto l’arciduchessa d’Austria entrava in sala da pranzo due minuti dopo l’ingresso degli altri ospiti, costringendoli ad alzarsi e ugualmente ne usciva due minuti prima, imponendo lo stesso rito. Così optarono per Venezia, dove arrivarono verso la fine di maggio dello stesso anno. Heinrich però si annoiava al Lido, pretese che si andasse in montagna. Lo si accontentò, sia pur controvoglia. Finirono a Bolzano, dove tuttavia non trovarono luoghi idonei per sostare e perciò fecero retromarcia verso l’antica città lagunare. Ciò corrisponde nel racconto alla decisione di Aschenbach di partire da Venezia, con la scusa del clima ostile, in realtà attuando un estremo tentativo di difesa dalla passione che, sente oscuramente, sta per travolgerlo.

 


Maschere dell’erotismo

Nonostante la coda di paglia di Gundolf, che vide un’intenzione polemica da parte di Mann dove forse non c’era, o se c’era a sua volta non coglieva nel segno, fatto sta che in George – erroneamente strumentalizzato dal nazismo – e nella sua élite «l’inscenamento liturgico crea un voluto effetto di straniamento ed è palese indizio della stilizzazione letteraria del dato reale, ma non per questo mente rispetto all’intento: la poesia eternizza, come nella concezione classica, e per eternizzare non può limitarsi alla sfera privata della sua degustazione» (Versari 2004, p. 83). L’esperienza amorosa è individuale ma vuole dirsi al mondo: di qui il senso del George-Kreis in una misura che, al di là dell’apparato rituale che di per sé vuole abolire il tempo storico, sta a eternizzare il sentimento attraverso la condivisione e universalizzazione (nel senso classico del rapporto con l’universo) della poesia.

Da quell’estate del 1911 è trascorso più di un intero secolo, eppure la realtà cui Mann ha sottratto la provvisorietà della vicenda, immortalandola, mi si è data fisicamente tangibile davanti all’Hôtel des Bains. La suggestione è stata accentuata dal fatto che «tutto era vero e bastava metterlo a posto perché rivelasse in modo stupefacente la facoltà interpretativa della composizione» (Thomas Mann, Saggio autobiografico, in Romanzo di una vita, trad. it. di Ervino Pocar, il Saggiatore, 2012, p. 38). Non si tratta soltanto di vivere i luoghi geografici che hanno ispirato pagine letterarie. Il celeste dell’acqua marina, la sabbia finissima, la qualità dell’ambiente non solo nella belle époque, ma coglibile tuttora nella riservata stilizzazione dei bagnanti, a pochi metri sulla sinistra, molti ma senza fare ressa, ciascuno per esclusivo conto proprio ignorando senza ostentazione la presenza altrui, sono tutti elementi che mostrano come la vita e i suoi piaceri non si vanno qui enfatizzando. Essi alludono e preludono a un tempo successivo la cui venuta quasi nemmeno sarebbe più necessaria, se non si sapesse che ci sarà, tanto si sublima ed è presente un po’ ritualisticamente nel permanere in spiaggia. In questo senso è comprensibile ciò che riporta Gilbert Adair nel suo The real Tadzio (titolo italiano La vera storia di Tadzio. L’icona bionda di Morte a Venezia, trad. it. di Stefania Cherchi, Arcana, 2002), incentrato sulla ricostruzione delle principali linee della biografia di Adzio, ossia di Władysław Moes. Un critico francese «un po’ sboccato», di cui Adair non fa il nome, definì il film di Visconti «una fantasia per masturbatori che preferiscono non togliersi le mutande» (p. 101). Insomma il film indulgerebbe all’onanismo mentale – rectius: senza rinunciare ai preziosi vestiti indossati anche in spiaggia da signore e bagnanti dell’epoca: farebbe altrettanto il racconto? Qui ritorniamo alla polemica col George-Kreis ma, considerando che l’Aschenbach di Mann è tratteggiato, tra l’altro, con superiore ironia, la risposta è negativa. Quanto al film, aveva ragione il critico sboccato? Ogni contatto con la realtà non è forse una contaminazione? Un degradarsi? Nemmeno è troppo comodo prendere il vaporetto, perdersi nel labirinto delle calli, raggiungere Piazza san Marco, sempre per appostare il bello, poi marciare militarescamente (Venezia è una città che costringe all’esercizio ginnico, vi si cammina di continuo) per risalire in tempo sul vaporetto, ritornare al Lido e tutto questo solo per una contemplazione della bellezza fine a se stessa, in nome dell’amore in sé, senza sbocchi di rapporto. È mai possibile? Frattanto eccomi arrivato a mia volta in Piazza san Marco, la percorro fino alla basilica, forse il luogo più metafisico del mondo, in cui tutte le leggi della statica e dell’estetica sono ribaltate. Decido di sedermi a un tavolo del caffè Florian dove sostavano Silvio Pellico e altri personaggi come la fascinosa e fatale contessa Annina Morosini, la cosiddetta dogaressa, amica di Gabriele d’Annunzio (che la definì «Bellezza vivente») e di tutti i sovrani europei (cfr. Paolo Schmidlin, La magnifica narcisista. La contessa Morosini una leggenda veneziana, «Amedit – Amici del Mediterraneo», Numero 29, Dicembre 2016, pp. 26-27). Blandito dall’orchestra indugio al Florian e penso che le avventure della mente e del sentimento di Aschenbach dovevano avvicendarsi in questa Piazza rendendogli impossibile sentirsi poi tanto solo (fino a ricollegarsi al prototipo nietzscheano, come secondo i rimandi del film al Doctor Faustus), in una perfetta sintonia col mondo esterno. Ma Aschenbach a un certo punto non si accontenterà più del caso che gli metteva davanti il suo idolo: si spingerà a inseguirlo, ad appostarlo. Il vincolo di un rapporto amoroso non può non restare la corporeità, e in fondo anche l’amore in sé si vuole dire al mondo. 


Le maschere dell’erotismo si sovrappongono in un procedimento non poi così lontano dal metodo di Stefan George. Dietro Tadzio si nascondono tre persone realmente amate da Mann: il barone Władysław Moes detto Adzio, ma anche Armin Martens e Williram Timpe. Armin (alias Hans Hansen del Tonio Kröger, ma in quel personaggio confluisce pure Paul Ehrenberg) fu il compagno di scuola al Katharineum di Lubecca di cui Thomas si era infatuato nell’inverno 1889-1890. Quando gli dichiarò il suo amore, il ragazzo gli rise in faccia provocandogli «una profonda umiliazione. Altri se la sarebbero buttata alle spalle, non un poeta sensibile come Thomas Mann» (Kurzke 2005, p. 39). Il ricordo di lui lo occuperà per tutta la vita, né avrà mai più speranza di rivederlo perché Armin morirà sedici anni dopo, il 1° aprile 1906. Scriverà di lui in una lettera a Hermann Lange, altro vecchio compagno a Lubecca: «Fu davvero il mio primo amore e non me ne fu mai concesso uno più tenero, più beato e insieme più doloroso. Sono cose che non si dimenticano anche dopo 70 anni pieni di eventi» (Kurzke 2005, p. 37). Con Williram Timpe le cose non andarono molto meglio. Abitarono per due anni insieme, coi genitori di Timpe: in seguito al trasferimento della madre a Monaco e dopo la morte del padre, Thomas si trovava a pensione presso di loro. Stavolta, ancora scottato dall’infelice reazione di Armin Martens, preferì tenere per sé i propri sentimenti. Dopo queste due vicende degli anni acerbi lo scrittore non vorrà più contaminarsi col rischio della realtà, ma con almeno due significative eccezioni: il pittore Paul Ehrenberg e il giovanissimo Klaus Heuser. Si hanno indizi per affermare che con Paul riuscirà ad andare oltre: «l’ho amato ed è stato qualcosa di simile a un amore felice» scriverà nel diario, il 13 settembre 1919. Poi si sposerà, come è noto, relegando l’omosessualità nell’ambito della letteratura e nelle pagine del diario, e avrà sei figli. Sennonché nel 1927 il cinquantaduenne ormai famosissimo (due anni dopo avrebbe ricevuto il Premio Nobel) incontrerà il diciassettenne Klaus Heuser, nell’agosto, sull’isola di Sylt. Anche stavolta fu un amore felice, vissuto non in astratta teoria, perlomeno per un bacio che ci è stato tramandato («Occhi neri che versarono lagrime per me, amate labbra che io baciai… sì, è stato così, anch’io ho avuto la mia parte, potrò dire a me stesso sul letto di morte» annoterà anni dopo, il 20 febbraio 1942). La sua vita andrà avanti fino a uno degli ultimi amori senili, ora di nuovo platonico, per il cameriere Franz Westermeier, incontrato al Grand Hôtel Dolder di Zurigo, nel 1950.

          Se incrociamo tutti questi riscontri con l’Aschenbach de La morte a Venezia, ci accorgiamo che l’opera viscontiana ha saputo interpretare con audacia, compatibilmente col testo della novella, lo spirito dionisiaco dello scrittore. Non è assurdo affermare che the real Tadzio sia stato non tanto quello, diciamo così, veneziano anzi polacco che risulta dall’indagine di Gilbert Adair, bensì il ragazzo di Lubecca, Armin Martens (senza escludere del tutto Williram Timpe), se vogliamo basarci sulla coerenza strutturale del fondamento. Tanto più che se il lettore confronterà la fotografia di Armin riportata da Hermann Kurzke a p. 35 del suo libro con quella di Władysław Moes (Adzio) a 16 anni, che sta a p. 52 del gustoso libretto di Adair, vedrà che sono pressoché identiche: stessa posa e stessa mise, sembrano sbalorditivamente la stessa identica persona. E tuttavia, quando tutto è stato detto, possiamo concludere affermando che Mann indubbiamente era incline a intellettualizzare l’omoerotismo, ma l’amore in sé, nonostante le sue assolutizzazioni e astrazioni, è pur sempre riconducibile a una (o più) persone reali.   

 

 

Sandro De Fazi

per Amedit – amici del mediterraneo, n. 40 /autunno 2019

mercoledì 31 luglio 2024

Il motivo del convito d’amore nei CENTO CANTI di Andrea Rossetti. Una recensione




Accostandoci a questa raccolta, proprio come accadeva nei banchetti di Roma antica, siamo invitati a combattere contro la morte. Non esito ad affermare che, nel parlarne, il mio vissuto di questi Cento canti di Andrea Rossetti (96, rue de-La-Fontaine Edizioni, 2024) da una parte è autoreferenziale, dall’altra è pur sempre comunicativo. Voglio dire che recensire poesia non è come recensire prosa narrativa o saggistica, si presuppone una selezione di lettori – e qui il discorso diventa sociologico-letterario, oltreché squisitamente critico, – il che autorizza a una terminologia specialistica se non addirittura «poetica» almeno nel fare riferimento testuale al libro di versi qui preso in grande considerazione. Si tratta di uno scrittore, Andrea Rossetti, a cui mi sento particolarmente analogo per quanto riguarda alcune premesse di carattere formale. Parliamo infatti soprattutto della riprova, rarissima di questi tempi, che la poesia, che pur sempre è il genere letterario più elevato se proprio vogliamo fare (e da parte nostra neanche vogliamo) una rigida distinzione di generi, è ritmo, musicalità, abbinamento inusuale e non denotativo di parole essendo il suo linguaggio connotativo affinché l’emozione – nel caso dei Cento canti, non per niente tanti quanti nella Divina Commedia, essa è frequente e intensa – arrivi a chi legge. Dire andando a capo che il cielo è blu o coperto non ha nulla di poetico, lo diciamo tutti i giorni nella realtà comune a tutti, surreali cambiamenti climatici, ma molto poco poetici, permettendo; è al contrario efficace nella sua polisemia che l’aia della chioccetta sia azzurra e che il pigolio sia di stelle, come in Giovanni Pascoli. Sia ben chiaro che anche per la prosa le cose non stanno ormai in modo troppo diverso, basti pensare a quel che scrisse Sartre in Difesa dell’intellettuale: anche quella pretende la ricerca di un linguaggio e di una struttura narrativa che non sia già data convenzionalmente o, come spesso accade, leziosamente negli stereotipi. Non diversamente la prosa saggistica può non essere di per sé avulsa dall’artisticità, come ha dimostrato François Ricard in La solitudine del saggista.

        C’è una profonda domanda esistenziale nei Cento canti, soprattutto nella prima sezione intitolata Elegia delle ceneri, che si stempera nella seconda, Gli incontri, vero e proprio canzoniere amoroso con varie dedicatarie (una ballatetta è rivolta a Mademoiselle S., notoriamente Stefania Bergamini), luci fugaci o persistenti, fino alla terza, Traümerei, in cui ogni singola poesia è dedicata a Chiara Z. Ma, come ci avverte l’introduttivo Vergiliato dell’autore a se stesso, «la verità della bellezza è inafferrabile per chi pretenda di concepirla a partire dal numero incommensurabile delle estasi che, disseminandosi nei Campi Elisi del tempo, essa elargisce». Il Vergiliato costituisce una funzione esplicativa in termini di lettura del libro ed è una dichiarazione preliminare di poetica. «La vita non è bella e la bellezza non è della vita», dice l’autore a se stesso in linea con la nostra maggiore tradizione ottocentesca che va da Foscolo («di donna andando / in donna») a Leopardi e oltre. Rossetti dialoga con loro, col Carducci barbaro, con d’Annunzio, senza escludere lo stesso Dante. Anche gli antichi sono qui solennemente, scorrevolmente convocati: Saffo, Platone, Pindaro, Catullo, Virgilio, Orazio, Petronio. Né c’è soltanto l’elemento sentimentale o estetico, perché secondo il paradigma classico è evidente la tensione etica tra i raggiri della nostra inquietante post-modernità. Ma su che cosa sia classico bisognerà intendersi. Ne concludiamo che l’unica saggezza è quella del ritmo metrico rigorosamente tradizionale e neo-antico della versificazione, fuggevole e insieme perentorio: che vuol dire tutto.

Gettati heideggerianamente in un mondo sempre più complicato, non resta che «qualche / gentile e perso convito d’amore». Tra il sentire poetico e il convito non c’è però molta differenza, fatta salva la distinzione tra «l’illusione per l’al di qua sensibile e l’allusione a un al di là inattingibile», secondo quanto è mirabilmente espresso nel Vergiliato. Non è escluso il rapporto vassallatico con gli oggetti d’amore, al punto che queste poesie di Andrea Rossetti ci fanno riproporre la domanda sul senso dello stilnovo, che tuttora ci sfugge. È inspiegabile in Guinizzelli e in parte in Cino da Pistoia (le rime per la giovane bolognese) l’esaltazione di un amore che istituzionalmente si dà come inattingibile laddove Lapo Gianni, il più epicureo di tutti, si tiene distante dal pianto d’amore fino a rivendicare giustizia nell’avvalersi di una vendetta verso la donna (più d’una, in verità) respingente. Guinizzelli, e con lui crediamo Andrea Rossetti, non si scoraggia nel voler raggiungere una più diretta e completa comunicazione con l’amata, anche a costo di depotenziare l’elemento angelico. La perfidia di Angelica, del resto, ariostesca abitatrice del non-dove, e della donna-angelo o angeli novi e novissimi, necessari e non-creaturali, è risaputa.

È questa una poesia che va a ricucire ferite esistenziali, celebra la storia d’amore e dà realtà alla non-storia, perché non solo eros vive nella parola ma di-per-sé crea bellezza e riformula la storia («è solo il futuro / l’oggetto prediletto dei ricordi»). Ciò perché il classicismo di cui sono permeati i Cento canti non appartiene al passato ma al futuro, non è mai esistito un classicismo che non fosse neoclassicismo. Il classico, lo ribadiamo anche in questa sede, è sempre di là da venire, non è dato una volta per tutte. Esso non è stato contemporaneo nemmeno all’età classica, era di là da venire pure in Orazio (più filosofo che poeta, diceva bene il Croce, l’esametro oraziano non essendo per giunta propriamente bello). A lettura conclusa – ma leggere un’opera di poesia non è mai un atto definitivo – la nostra vitalità è accresciuta, e questa è infine l’unica vera riprova del valore estetico e morale del libro.

 

Scauri (LT), luglio 2024

Sandro De Fazi

 

 

 

venerdì 5 luglio 2024

"KI. Segni dello spirito" di Maurizio Gregorini





Ricevo da Maurizio Gregorini il KI nelle neonate Edizioni Il Simbolo contenente pure un mio breve scritto sul libro.
Le dediche sono personali ma in questo caso l'autografa è così lusinghiera per me e piena di significato che è bello renderla pubblica❤️❗️
Grazie, tantissme grazie davvero❗️🌹💙🥀
        
                                                       (30 giugno 2024)



martedì 25 giugno 2024

DARIO (incipit di un racconto inedito)

 

                                            (Foto: Il poeta e scrittore Dario Bellezza - Archivio storico Istituto Luce)

 

Era un tardo pomeriggio di fine gennaio del 1986. Dario Bellezza veniva da Pompei dove era andato a ritirare un premio letterario, forse a tenere una conferenza o una lettura di poesie, e sarebbe da Napoli Centrale presto ripartito per Roma, fermandosi giusto il tempo di conoscerci di persona dopo tante telefonate, trattenerci a un bar; io arrivai da Caserta in poco tempo per raggiungerlo. Che il primo, reale incontro sia avvenuto in quel periodo lo deduco da una poesia pubblicata in un mio libro di quell’anno, quando avevo compiuto venticinque anni. Lo affermo all’inizio di queste note, dove sento l’eco dei Ricordi di Friedrich Nietzsche scritti da Paul Deussen. Quello era il mio esordio letterario, piuttosto in sordina se vogliamo anche se alla compianta Cristina Annino capitò di pubblicare con lo stesso editore e io ero contentissimo perché mi aveva letto il miglior poeta della sua generazione, come lo definì Pier Paolo Pasolini. L’ultimo verso di quella poesia è il seguente: Solo ciò che conforta è la bellezza. È datata 22-28 gennaio 1986. Ma dopo tanti anni è difficile non confondersi sulle date e le circostanze e gli sviluppi ulteriori della nostra amicizia e mi pare proprio che quel mio testo poetico mi sia rivelatore non solo cronologicamente. Risulta che lo scrissi, o perlomeno aggiunsi quelle parole tra il 22 e il 28 gennaio dopo aver visto Dario alla Stazione Centrale di Napoli per la prima volta, ma non so dire con esattezza in quale giorno. Né penso che la bellezza mi confortasse particolarmente in quel periodo, avevo trascorso brutti mesi come si era accorta la Morante, qualcosa di cupo mi attraversava. Portavo una montatura nera di occhiali molto spessa, mi nascondeva metà del volto, per un vezzo giovanile quasi mi camuffavo da brutto. L’allusione alla bellezza era un gioco di parole che si riferiva proprio al cognome del poeta.

Lui era ancora più grande di quanto io stesso fossi allora in grado di comprendere, anche se per vari aspetti ne intuivo l’ulteriorità a sua volta e a suo modo nietzschiana. Ora tuttavia mi viene un dubbio: poteva essere il 1985? Gennaio 1985? Che fosse inverno inoltrato sono sicuro, Elsa Morante era ancora viva tant’è vero che ne parlammo e in quella circostanza napoletana lui aveva nominato Virginia Woolf, che nel suo romanzo Turbamento è il senhal di Elsa (la poesia la scrissi l’anno dopo). Perciò, tralasciando quella poesia, propendo in definitiva a ritenere che quel pomeriggio a Napoli fosse la fine di gennaio del 1985.  

C’era con lui un ragazzo di nome Charlie.

 

 

 

martedì 18 giugno 2024

Recensione di Stefania Bergamini a EUGENIO (4 luglio 2023)

 

Foto di Stefania Bergamini

“Niente in Eugenio è certo. Nessuna azione, nessun dialogo, nessun luogo e incontrovertibilmente accertato, nessun amore è reale, dell'esistenza di ciascun personaggio si dubita. Ma proprio per questo, paradossalmente in Eugenio niente è inventato, i personaggi sono tutti reali, le storie d'amore tutte vere. La trama di questo romanzo, il cui titolo allude a un disegno letterario mai realizzato da Giacomo Leopardi, depista il lettore e lo sfida con pathos crescente, attraverso l'avvicendarsi di eventi in cui la vita è celebrata nell'eterno superamento di se stessa.”

Sandro De Fazi 


Eugenio è il romanzo bellissimo di Sandro De Fazi.

Dentro a una scrittura profonda, sensibile e raffinata Sandro De Fazi trascina in una No man's land (Berberova. C’è una vita a tutti visibile, e ce n’è un’altra che appartiene solo a noi, di cui nessuno sa nulla), che diventa un segreto e geniale diario pieno di erotismo mai esagerato e quasi crudele nel porgerlo come sogno o la libertà di pensarlo come reale accaduto.

Dedicato al poeta Dario Bellezza, il romanzo, in certi punti, si avvicina al pensiero di Kierkegaard, il sottrarre bellezza al mondo per poi restituirla rielaborata godendone ora con l'immaginazione ora con l'intelletto e disorienta, c'è altro oltre questa dimensione?

Davvero una bella lettura.

4 luglio 2023

Recensione di Paolo Crimaldi a EUGENIO (8 settembre 2021)


Voglio consigliarvi la lettura del romanzo del mio amico Sandro De Fazi, un racconto che spazia dagli anni anni '80 ad oggi e che permette di vivere attraverso i protagonisti vicende, passioni, pensieri che vanno dal presunto al reale tanto da chiedersi continuamente cosa c'è di autobiografico e cosa invece è pura invenzione letteraria.

I personaggi più riusciti, a mio avviso, sono sicuramente quelli di Fabrizio e di Diego, e non è poi così difficile affezionarsi a loro e vivere con loro avventure e emozioni anche erotiche, appassionate, forti ma mai volgari e scontate.

Nel libro sono presenti vere e proprie finestre di erotismo anticonformista che spingono a voli pindarici e forse anche a invidiare i personaggi che le vivono con così tanta naturalezza e leggerezza.

Del resto ogni singola persona presente in questo racconto è tratteggiata con grande finezza psicologica, quasi sull'onda del romanzo russo d'inizio del secolo scorso, e lentamente si entra nella trama e si finisce col vivere le passioni, i pensieri, le considerazioni che costellano la vita di "Eugenio" (ma esiste? È presente nel libro?) e di chi ne fa parte.

Leggerlo è un piacere anche perché veloce e mai ridondante e porta a pensare che forse sarebbe bello entrare a far parte della storia raccontata non solo da spettatori, ma anche da protagonisti.

8 settembre 2021