mercoledì 31 luglio 2024

Il motivo del convito d’amore nei CENTO CANTI di Andrea Rossetti. Una recensione




Accostandoci a questa raccolta, proprio come accadeva nei banchetti di Roma antica, siamo invitati a combattere contro la morte. Non esito ad affermare che, nel parlarne, il mio vissuto di questi Cento canti di Andrea Rossetti (96, rue de-La-Fontaine Edizioni, 2024) da una parte è autoreferenziale, dall’altra è pur sempre comunicativo. Voglio dire che recensire poesia non è come recensire prosa narrativa o saggistica, si presuppone una selezione di lettori – e qui il discorso diventa sociologico-letterario, oltreché squisitamente critico, – il che autorizza a una terminologia specialistica se non addirittura «poetica» almeno nel fare riferimento testuale al libro di versi qui preso in grande considerazione. Si tratta di uno scrittore, Andrea Rossetti, a cui mi sento particolarmente analogo per quanto riguarda alcune premesse di carattere formale. Parliamo infatti soprattutto della riprova, rarissima di questi tempi, che la poesia, che pur sempre è il genere letterario più elevato se proprio vogliamo fare (e da parte nostra neanche vogliamo) una rigida distinzione di generi, è ritmo, musicalità, abbinamento inusuale e non denotativo di parole essendo il suo linguaggio connotativo affinché l’emozione – nel caso dei Cento canti, non per niente tanti quanti nella Divina Commedia, essa è frequente e intensa – arrivi a chi legge. Dire andando a capo che il cielo è blu o coperto non ha nulla di poetico, lo diciamo tutti i giorni nella realtà comune a tutti, surreali cambiamenti climatici, ma molto poco poetici, permettendo; è al contrario efficace nella sua polisemia che l’aia della chioccetta sia azzurra e che il pigolio sia di stelle, come in Giovanni Pascoli. Sia ben chiaro che anche per la prosa le cose non stanno ormai in modo troppo diverso, basti pensare a quel che scrisse Sartre in Difesa dell’intellettuale: anche quella pretende la ricerca di un linguaggio e di una struttura narrativa che non sia già data convenzionalmente o, come spesso accade, leziosamente negli stereotipi. Non diversamente la prosa saggistica può non essere di per sé avulsa dall’artisticità, come ha dimostrato François Ricard in La solitudine del saggista.

        C’è una profonda domanda esistenziale nei Cento canti, soprattutto nella prima sezione intitolata Elegia delle ceneri, che si stempera nella seconda, Gli incontri, vero e proprio canzoniere amoroso con varie dedicatarie (una ballatetta è rivolta a Mademoiselle S., notoriamente Stefania Bergamini), luci fugaci o persistenti, fino alla terza, Traümerei, in cui ogni singola poesia è dedicata a Chiara Z. Ma, come ci avverte l’introduttivo Vergiliato dell’autore a se stesso, «la verità della bellezza è inafferrabile per chi pretenda di concepirla a partire dal numero incommensurabile delle estasi che, disseminandosi nei Campi Elisi del tempo, essa elargisce». Il Vergiliato costituisce una funzione esplicativa in termini di lettura del libro ed è una dichiarazione preliminare di poetica. «La vita non è bella e la bellezza non è della vita», dice l’autore a se stesso in linea con la nostra maggiore tradizione ottocentesca che va da Foscolo («di donna andando / in donna») a Leopardi e oltre. Rossetti dialoga con loro, col Carducci barbaro, con d’Annunzio, senza escludere lo stesso Dante. Anche gli antichi sono qui solennemente, scorrevolmente convocati: Saffo, Platone, Pindaro, Catullo, Virgilio, Orazio, Petronio. Né c’è soltanto l’elemento sentimentale o estetico, perché secondo il paradigma classico è evidente la tensione etica tra i raggiri della nostra inquietante post-modernità. Ma su che cosa sia classico bisognerà intendersi. Ne concludiamo che l’unica saggezza è quella del ritmo metrico rigorosamente tradizionale e neo-antico della versificazione, fuggevole e insieme perentorio: che vuol dire tutto.

Gettati heideggerianamente in un mondo sempre più complicato, non resta che «qualche / gentile e perso convito d’amore». Tra il sentire poetico e il convito non c’è però molta differenza, fatta salva la distinzione tra «l’illusione per l’al di qua sensibile e l’allusione a un al di là inattingibile», secondo quanto è mirabilmente espresso nel Vergiliato. Non è escluso il rapporto vassallatico con gli oggetti d’amore, al punto che queste poesie di Andrea Rossetti ci fanno riproporre la domanda sul senso dello stilnovo, che tuttora ci sfugge. È inspiegabile in Guinizzelli e in parte in Cino da Pistoia (le rime per la giovane bolognese) l’esaltazione di un amore che istituzionalmente si dà come inattingibile laddove Lapo Gianni, il più epicureo di tutti, si tiene distante dal pianto d’amore fino a rivendicare giustizia nell’avvalersi di una vendetta verso la donna (più d’una, in verità) respingente. Guinizzelli, e con lui crediamo Andrea Rossetti, non si scoraggia nel voler raggiungere una più diretta e completa comunicazione con l’amata, anche a costo di depotenziare l’elemento angelico. La perfidia di Angelica, del resto, ariostesca abitatrice del non-dove, e della donna-angelo o angeli novi e novissimi, necessari e non-creaturali, è risaputa.

È questa una poesia che va a ricucire ferite esistenziali, celebra la storia d’amore e dà realtà alla non-storia, perché non solo eros vive nella parola ma di-per-sé crea bellezza e riformula la storia («è solo il futuro / l’oggetto prediletto dei ricordi»). Ciò perché il classicismo di cui sono permeati i Cento canti non appartiene al passato ma al futuro, non è mai esistito un classicismo che non fosse neoclassicismo. Il classico, lo ribadiamo anche in questa sede, è sempre di là da venire, non è dato una volta per tutte. Esso non è stato contemporaneo nemmeno all’età classica, era di là da venire pure in Orazio (più filosofo che poeta, diceva bene il Croce, l’esametro oraziano non essendo per giunta propriamente bello). A lettura conclusa – ma leggere un’opera di poesia non è mai un atto definitivo – la nostra vitalità è accresciuta, e questa è infine l’unica vera riprova del valore estetico e morale del libro.

 

Scauri (LT), luglio 2024

Sandro De Fazi

 

 

 

venerdì 5 luglio 2024

"KI. Segni dello spirito" di Maurizio Gregorini





Ricevo da Maurizio Gregorini il KI nelle neonate Edizioni Il Simbolo contenente pure un mio breve scritto sul libro.
Le dediche sono personali ma in questo caso l'autografa è così lusinghiera per me e piena di significato che è bello renderla pubblica❤️❗️
Grazie, tantissme grazie davvero❗️🌹💙🥀
        
                                                       (30 giugno 2024)