Accostandoci
a questa raccolta, proprio come accadeva nei
banchetti di Roma antica, siamo invitati a combattere contro la morte. Non
esito ad affermare che, nel parlarne, il mio vissuto di questi Cento canti di Andrea Rossetti (96, rue
de-La-Fontaine Edizioni, 2024) da una parte è autoreferenziale, dall’altra è
pur sempre comunicativo. Voglio dire che recensire poesia non è come recensire
prosa narrativa o saggistica, si presuppone una selezione di lettori – e qui il
discorso diventa sociologico-letterario, oltreché squisitamente critico, – il
che autorizza a una terminologia specialistica se non addirittura «poetica»
almeno nel fare riferimento testuale al libro di versi qui preso in grande considerazione.
Si tratta di uno scrittore, Andrea Rossetti, a cui mi sento particolarmente analogo
per quanto riguarda alcune premesse di carattere formale. Parliamo infatti soprattutto
della riprova, rarissima di questi tempi, che la poesia, che pur sempre è il
genere letterario più elevato se proprio vogliamo fare (e da parte nostra neanche
vogliamo) una rigida distinzione di generi, è ritmo, musicalità, abbinamento
inusuale e non denotativo di parole essendo il suo linguaggio connotativo
affinché l’emozione – nel caso dei Cento
canti, non per niente tanti quanti nella Divina Commedia, essa è frequente e intensa – arrivi a chi legge.
Dire andando a capo che il cielo è blu o coperto non ha nulla di poetico, lo
diciamo tutti i giorni nella realtà comune a tutti, surreali cambiamenti
climatici, ma molto poco poetici, permettendo; è al contrario efficace nella sua
polisemia che l’aia della chioccetta sia azzurra e che il pigolio sia di
stelle, come in Giovanni Pascoli. Sia ben chiaro che anche per la prosa le cose
non stanno ormai in modo troppo diverso, basti pensare a quel che scrisse
Sartre in Difesa dell’intellettuale:
anche quella pretende la ricerca di un linguaggio e di una struttura narrativa
che non sia già data convenzionalmente o, come spesso accade, leziosamente
negli stereotipi. Non diversamente la prosa saggistica può non essere di per sé
avulsa dall’artisticità, come ha dimostrato François Ricard in
La solitudine del saggista.
C’è
una profonda domanda esistenziale nei Cento
canti, soprattutto nella prima sezione intitolata Elegia delle ceneri, che si stempera nella seconda, Gli incontri, vero e proprio canzoniere
amoroso con varie dedicatarie (una ballatetta è rivolta a Mademoiselle S.,
notoriamente Stefania Bergamini), luci fugaci o persistenti, fino alla terza, Traümerei, in cui ogni singola poesia è dedicata a Chiara Z. Ma, come ci avverte
l’introduttivo Vergiliato dell’autore a
se stesso, «la verità della bellezza è inafferrabile per chi pretenda di
concepirla a partire dal numero incommensurabile delle estasi che,
disseminandosi nei Campi Elisi del tempo, essa elargisce». Il Vergiliato costituisce una funzione esplicativa in termini di
lettura del libro ed è una dichiarazione preliminare di poetica. «La vita non è
bella e la bellezza non è della vita», dice l’autore a se stesso in linea con
la nostra maggiore tradizione ottocentesca che va da Foscolo («di donna andando
/ in donna») a Leopardi e oltre. Rossetti dialoga con
loro, col Carducci barbaro, con d’Annunzio, senza escludere lo stesso Dante.
Anche gli antichi sono qui solennemente, scorrevolmente convocati: Saffo,
Platone, Pindaro, Catullo, Virgilio, Orazio, Petronio. Né c’è soltanto
l’elemento sentimentale o estetico, perché secondo il paradigma classico è
evidente la tensione etica tra i raggiri della nostra inquietante
post-modernità. Ma su che cosa sia classico bisognerà intendersi. Ne
concludiamo che l’unica saggezza è quella del ritmo metrico rigorosamente
tradizionale e neo-antico della versificazione, fuggevole e insieme perentorio:
che vuol dire tutto.
Gettati heideggerianamente in un mondo sempre
più complicato, non resta che «qualche / gentile e perso convito d’amore». Tra
il sentire poetico e il convito non c’è però molta differenza, fatta salva la distinzione tra «l’illusione per l’al di qua sensibile e l’allusione a un al di là
inattingibile», secondo quanto è mirabilmente espresso nel Vergiliato. Non è escluso il rapporto vassallatico con gli
oggetti d’amore, al punto che queste poesie di Andrea Rossetti ci fanno riproporre
la domanda sul senso dello stilnovo, che tuttora ci sfugge. È inspiegabile in
Guinizzelli e in parte in Cino da Pistoia (le rime per la giovane bolognese)
l’esaltazione di un amore che istituzionalmente si dà come inattingibile
laddove Lapo Gianni, il più epicureo di tutti, si tiene distante dal pianto
d’amore fino a rivendicare giustizia nell’avvalersi di una vendetta verso la
donna (più d’una, in verità) respingente. Guinizzelli, e con lui crediamo
Andrea Rossetti, non si scoraggia nel voler raggiungere una più diretta e
completa comunicazione con l’amata, anche a costo di depotenziare l’elemento
angelico. La perfidia di Angelica, del resto, ariostesca abitatrice del
non-dove, e della donna-angelo o angeli novi
e novissimi, necessari e
non-creaturali, è risaputa.
È questa una poesia che va a ricucire ferite
esistenziali, celebra la storia d’amore e dà realtà alla non-storia, perché non
solo eros vive nella parola ma di-per-sé crea bellezza e riformula la storia
(«è solo il futuro / l’oggetto prediletto dei ricordi»). Ciò perché il
classicismo di cui sono permeati i Cento
canti non appartiene al passato ma al futuro, non è mai esistito un
classicismo che non fosse neoclassicismo. Il classico, lo ribadiamo anche in
questa sede, è sempre di là da venire, non è dato una volta per tutte. Esso non
è stato contemporaneo nemmeno all’età classica, era di là da venire pure in
Orazio (più filosofo che poeta, diceva bene il Croce, l’esametro oraziano non
essendo per giunta propriamente bello). A lettura conclusa – ma leggere
un’opera di poesia non è mai un atto definitivo – la nostra vitalità è
accresciuta, e questa è infine l’unica vera riprova del valore estetico e
morale del libro.
Scauri (LT), luglio 2024
Sandro De
Fazi