giovedì 11 gennaio 2024

Quell’intrigo che sa di immaginario: protagonisti al telefono/ANGELO di Dario Bellezza

 

La luce di Arthur Rimbaud

Non si capisce come mai i libri in prosa di Dario Bellezza (1944-1996), che sono ben nove, non siano più stati ristampati mentre per l’opera poetica ci sono state le pregevoli curatele di Elio Pecora per le Poesie 1971-1996 (Mondadori 2002) e di Roberto Deidier per Tutte le poesie (Mondadori 2015). Eppure ho riletto a distanza di anni il romanzo Angelo ed è stato un godimento letterario dei più sopraffini grazie alla sua prosa sfarzosa, degna di stare accanto, per derivazione, alla nostra migliore Scapigliatura, oltre che per la grandiosa capacità di affabulare personaggi del mondo della letteratura in un complesso gioco di rimandi e allusioni che solo chi sia addentro alle vicende di quei protagonisti può cogliere e apprezzare fino in fondo nelle sottili sfumature della storia narrata. Dario Bellezza era un purista della lingua e Angelo è un romanzo a suo modo leopardiano, è stato un libro inattuale quando uscì presso Garzanti nel 1979, oggi resta un classico. Lo lessi nei primi anni Ottanta, appartiene alla mia mitologia personale che fu anche quella di un’intera generazione e ricordo che me lo portavo dietro dappertutto, come fosse un oracolo da consultare o un breviario sacrale da cui non avevo che da apprendere. Non ho usato a caso l’aggettivo “leopardiano”: quel che in Pasolini è la “funzione Gramsci” diventa in lui la “funzione Leopardi”, non c’è nessun impegno politico nel protagonista Tommaso, pur in un’epoca caratterizzata da un’ideologia finanche prevaricatrice; non vi è che amore e morte, i due grandi temi romantici della nostra tradizione letteraria. E quando l’amore decade, non resta che girare intorno all’orbita della famosissima scrittrice Elisa V., la Demiurga, colei che strega Tommaso, intrigata a sua volta dall’ammirazione che il giovane nutre per lei. Lui la cerca per telefono, Elisa sulle prime finge di non essere lei: “’Ma che cosa vuole da questa Elisa? Qua telefonano solo scocciatori, e mai un angelo del Paradiso, un immortale!’ … ‘Io sono la cameriera della signora Elisa’” (p. 15). In questa fase iniziale «un angelo del Paradiso» sembra un modo di dire ma poi un personaggio denominato proprio Angelo subentrerà nella vita di entrambi. Successivamente si stabilisce un rapporto tra i due: «mi rivolsi infinite volte ad Elisa, e a furia di bussare alla fine il suo grande cuore mi fu aperto» (p. 17). Sappiamo tutti, o perlomeno chi è al corrente dei fatti, che Elisa V. è il senhal di Elsa Morante, magistralmente traslata nelle ridondanze romantiche di questa trama passionale. Lei riuscì a bloccare l’uscita del romanzo per due anni, ma qui è la Letteratura, qualcosa che fa dimenticare le brutture dell’esistenza, la fantasia visionaria che alimenta maternamente Tommaso. La loro frequentazione si interrompe presto, appena il ragazzo, omosessuale avvolto nel vizio e mancante di vitalità, decide di lasciare la casa paterna. Elisa non vuole aiutarlo in questo suo cammino verso l’autonomia. Secondo lei, la scelta di Tommaso è borghese, come gli dirà successivamente in un incontro casuale.

Tommaso ha ambizioni poetiche, è già un poeta maledetto, consapevole della grande influenza della scrittrice sulle menti giovanili. Quanto al forte ascendente che la Morante esercitava realmente su quegli happy few e neo-critici, è il caso di ricordare alcune parole di Elio Pecora contenute in un suo esilarante libro proprio riguardo allo «stuolo di giovani e giovanissimi delle più diverse estrazioni, tutti adoranti. Lo si vide chiaramente – scrive – quando si levarono compatti contro Dario Bellezza che, esiliato da lei per torti mai chiariti, le dichiarò guerra dalle pagine di “Paese Sera”» (Il libro degli amici, Neri Pozza 2017, p. 62). Nel racconto di Tommaso non è subito chiara la ragione del dissidio, se non quella attribuibile in maniera preconcetta alla “negatività” di Elisa. Ma tutta una serie infernale di ragazzi contesi verrà a determinare la rottura definitiva tra i due. Nei suoi vagabondaggi per la città eterna, a Campo dei Fiori, Tommaso conosce Angelo, «sguardo fiero e bocca malinconica» (p. 46). Costui pretende di essere uno scrittore affermato, in realtà è di fatto un delinquente, con una storia di abbandoni familiari alle spalle, di droga, un disadattato sociale, un folle. Millanta non solo di aver pubblicato due libri di successo, ma pure di essere stato l’amante di Elisa. Allora Tommaso le invia una lettera di insulti. La risposta di Elisa, riportata nel romanzo (pp. 69-70), non si fa attendere: non vorrà più vederlo, Tommaso è stato esiliato senza appello. La verità è che il poeta sceglie di Elisa un’immagine costantemente negativa, tra le tante possibili, come è spiegato nella lettera di lei, che è poi la trascrizione pressoché integrale di quella che realmente Elsa Morante indirizzò a Bellezza (cfr. L’amata. Lettere di e a Elsa Morante, a cura di Daniele Morante con la collaborazione di Giuliana Zagra, Einaudi 2012, pp. 538-539). Agli occhi di Elisa forse Angelo «appariva come un angelo ribelle, un giovane poeta della fortuna, estatica febbre, luce simile a quella di Arthur Rimbaud» (p. 85). Intorno a lei ruotano pure Matteo e Marco, amici di Tommaso. E si scopre che Angelo è il figlio della sublime Elisa, avuto in età giovanile quando non poteva mantenerlo e quindi l’aveva affidato a un collegio. Lei non sa, però, che il ragazzo di Tommaso è suo figlio. A ogni modo è geniale aver pensato a un figlio di Elsa Morante, la quale notoriamente non ne ha avuti. Il titolo del libro è polisemico: tanto Angelo è il ragazzo quanto può essere lo stesso Tommaso (un angelo) e, ancor di più, ed è l’interpretazione più bella, l’angelo è proprio Elsa Morante.

 

L’amore elsiano

Il poeta la vede per caso a piazza Navona e la sente parlare molto male di lui a una sua amica: «Devi conoscerlo, sai, questo Angelo: è una vittima di quel mostro, quel diavolo di Tommaso … Mi ha chiesto aiuto: è un ragazzetto carino, carino! Tenero e gentile, aspetto di leggere le sue poesie per saperne di più, ma il temperamento c’è, Rimbaud non doveva essere troppo diverso…» (p. 122). La caricatura del mito morantiano della creaturalità è evidente. Ma ecco un colpo di scena: l’inclita Elisa si degna di telefonare a Tommaso, lo ha chiamato in quanto si è stancata di Angelo: «Che cosa vuole da me questo Angelo? – gli domanda. – Perché, se dici di amarmi, non mi hai avvisato che è un rompiscatole? E per di più sgradevole? Mitomane e volgare?» (p. 143). Non sa che sta parlando di suo figlio. Gli dà un’ultima occasione di rivedersi, tornare amici ma assurdamente il poeta, sopraffatto dall’orgoglio per essere stato in precedenza respinto, si rifiuta, sancendo così la perdita inesorabile del suo rapporto con Elisa. L’epilogo del romanzo ha luogo a Venezia, dove Tommaso si reca insieme ad Angelo mentre Elisa è perduta per sempre. Vuol vivere lì in una dimensione senza tempo, per sottrarre Angelo a Elisa. Passano anni, tornano a Roma e resta aperta la domanda: che cosa voleva realmente Angelo sia da Tommaso che da Elisa? Era stato responsabile della rottura tra i due, e così il poeta, alla fine, gli spara un colpo di pistola alla testa.

La serie di rimandi speculari tra realtà e letteratura è molteplice. Uno dei personaggi de La Storia, il poeta Davide Segre, è ispirato a Dario Bellezza. Davide è un borghese, in parte proiezione metaletteraria della poetica anarchico-religiosa di Elsa stessa. Si legge infatti in Angelo: «Dario era uno dei protagonisti di un suo romanzo, La vita, che ebbe molti anni fa uno straripante, smisurato e meritato successo. Chi conosceva Elisa sapeva che Dario aveva la sua voce, impostata sulla retorica più solenne e altezzosa, melodiosa e osannante» (p. 7). Accadde che io stesso, come Tommaso a Elisa, telefonai a Dario Bellezza parlandogli di Angelo e della fascinazione che in quegli anni mi veniva dalla Morante, il che non apparve tra le cose più simpatiche che lui volesse ascoltare, me ne rendo conto. Ma fu preso a sua volta da quel mio gioco metaletterario, piuttosto incauto peraltro, anche perché mi posi in quella situazione non come Tommaso bensì come Angelo, tant’è vero che mi disse: “A questo punto la Morante avrebbe già riattaccato!”. Ero in preda all’”amore elsiano” in un modo diverso dal suo e successivamente osai coinvolgere in quell’intrigo la stessa Morante, alla quale piaceva giocare (in senso alto) e che non solo non mi riattaccò il telefono ma mi chiese il mio numero, le piacevano quelle parti dove io abito tuttora, il Sud, la Campania, ma assolutamente non volle, neppure in seguito, che si parlasse di Dario, col quale nel frattempo avevo stabilito un’amicizia spesso modulata in una dimensione in cui difficilmente – ma questa in lui era la regola - la vita si separa dalla letteratura. Ne venne un coacervo di equivoci, ne ho accennato qua e là in Ti scrivo brevemente per chiederti scusa dei miei silenzi. Vita di Gaetano Dimatteo (prefazione di Elio Pecora, Edizioni Libreria Croce 2009). Ho chiesto a Maurizio Gregorini, autore, tra l’altro, del libro intitolato Il male di Dario Bellezza. Vita e morte di un poeta (Stampa Alternativa 2006) e che gli è stato molto vicino, a Roma, negli ultimi, difficili tempi (io l’ho seguito fino al 1987), se Dario nei suoi giorni estremi parlasse ancora della Morante. Maurizio mi ha detto al telefono, con la sua naturale e franca disinvoltura che bravamente sottende la sua notevole sensibilità di poeta, assolutamente che sì, Dario la nominava sempre, fino alla fine, perché il suo era stato proprio un coinvolgimento duraturo, passionale, erotico, era stata l’unica donna della sua vita (il rapporto con la Ortese si fondava su altre basi), non vederla e non sentirla più fu uno dei suoi dolori più grandi, insieme al lutto per la morte di Moravia. Raccolgo così questa preziosa testimonianza di Gregorini: quello di Dario per Elsa fu un amore fatto di desiderio fisico, non a caso quasi tutti i suoi libri ne traboccano, come l’esplicito Piccolo canzoniere per E.M. (Edizione del Giano 1986): se non fosse stato per il precipitare degli eventi, cioè la morte dell’amata, avrebbe ancora potuto sperare di riappacificarsi con lei, sfidando l’impossibile, la leggendaria intransigenza di lei.

 

                                                                               Sandro De Fazi

per Amedit – amici del mediterraneo, n. 42 /autunno 2020

 

 

mercoledì 22 novembre 2023

Presentazione di INTRIGO (Locandina)

 


Recensione di Stefania Bergamini a INTRIGO

 


"I libri andrebbero scritti unicamente per dire cose che non si oserebbe confidare a nessuno."

E.M. Cioran, L'inconveniente di essere nati.

 

Questa citazione nel capitolo "Intrigo. Frammento di vita contemporanea”, insieme al tema del "Desiderio", potrebbe essere il filo conduttore di Intrigo, la nuova opera di Sandro De Fazi.

Cito Baudelaire: "Celui qui regarde du dehors à travers une fenêtre ouverte, ne voit jamais autant de choses que celui qui regarde une fenêtre fermée."

“Chi guarda stando fuori da una finestra aperta non vede mai tante cose quanto colui che guarda una finestra chiusa.”

Desiderio inappagato e per questo tormentato e illusorio.

Desiderio desiderato se leggiamo il capitolo “Degrado estasiato”:

"Forse lo sa anche lui.

Del resto non so chi sia.

So di lui pochissimo".

Capitolo bellissimo in cui l'io narrante fa riferimento a Sexy, di Joyce Carol Oates riletto dopo anni e rimanendo deluso da questa rilettura avendo la sensazione di una trama modificata dal tempo trascorso e nel suo rielaborare il testo.

Il desiderio appagato, quindi non più desiderio ma, andando a Kierkegaard, che apre il capitolo “La scatola”:

"I grandi amanti, coloro nei quali l'amore ha bagliori di appassionata bellezza, non sono, di solito, coniugati."

Remo Cantoni, Kierkegaard e la vita etica.

 

E, nel Diario di un seduttore, Johannes è un fautore del desiderio non appagato, appena si realizza perde interesse per l'amata e fugge, provocando dolore e disperazione.

"Soffriva di una specie di eccitazione mentale, per cui la realtà non bastava a stimolarlo se non sporadicamente"

Intrigo, di Sandro De Fazi, è esattamente il "Desiderio" cerebrale e fisico, giocare assieme con i rimandi letterari, le seduzioni proibite, i pensieri sull'altro che sono sguardi infiniti, un gioco che avvicina le fantasie fatalmente immorali a un'inspiegabile ansia, una inattesa malcelata inquietudine, come un'impressione inesprimibile di un ritrarsi ombroso e raffinatamente kierkegaardiano.

Poi c'è il desiderio appagato che porta il lettore a considerare l'inevitabile vicinanza tra il non esaudire e l'esaudire .

A mio parere un'opera raffinata e coinvolgente per la trama, i riferimenti letterari, il detto e non detto, il fatto e non fatto, il vero e il non vero che attrae il lettore portandolo all'interno di un cerchio che non ha un inizio e non ha una fine.

 

Stefania Bergamini

21 novembre 2023



venerdì 10 novembre 2023

Recensione di Andrea Rossetti a EUGENIO (2 ottobre 2021)

Ogni volta che leggo un libro di Sandrino De Fazi - e li ho letti quasi tutti - mi sento sempre piacevolmente trascinato in un maelström fitto di rimandi, vivace di citazioni e soprattutto di digressioni, di geniale e un poco perfida infedeltà a ogni genere precostituito. Ciò che rende unica la scrittura di Sandro è proprio l'ariosa libertà, il gusto per la contaminazione, il racconto sempre insidiato dal saggio (e chi più di me, da sempre folle amante di Robert Musil, può apprezzarlo?), il gusto squisito per l'erudizione mai accademica e sempre raccontata come una favola bella.

In questo romanzo - Eugenio - che si offre all'apparenza come una sorta di intimo diario erotico, perso in un intricato fil rouge che va da Kierkegaard a Dario Bellezza (ma a mio parere anche a Tondelli e, andando oltreoceano, a David Leavitt), Sandro De Fazi mi ha fatto pensare soprattutto al mio amatissimo Pirandello, un Pirandello meno razionalmente paradossale e più morbido, direi addirittura giocoso, giacché la domanda di fondo che incombe fin da subito sul racconto è: chi ha scritto e cosa?

In fondo Eugenio è anche un thriller, come ogni meta-narrazione che si rispetti.

Da leggere.


(Andrea Rossetti, 2 ottobre 2021)

domenica 15 ottobre 2023

L’ULTIMO VIAGGIO DI WERNER MÜDE di Andrea Rossetti. Una recensione

 


Guido Valderani raccoglie le ultime lettere dell’amico Werner Müde a lui indirizzate prima che questi si rechi in Svizzera per il suicidio assistito, dopo aver scoperto non ancora quarantenne di avere l’Alzheimer. L’ultimo viaggio di Werner Müde (Giacovelli Editore, 2023) di Andrea Rossetti potrebbe apparire come la riscrittura sapiente e originale, ai giorni nostri, del capolavoro foscoliano. Werner va perdendosi in viaggi da Lisbona a Roma, da Palermo a Selinunte a Capri (proprio a Villa Lysis), da Firenze a Lucca a Milano, da Bologna a Ferrara a Zurigo. Quello di Rossetti è un romanzo epistolare dai motivi fortemente romantici e felicemente anacronistici, e allo stesso tempo è una professione di poetica e un atto eroico di resistenza estetica, nonché etica.

Werner indirizza unilateralmente a Guido il suo romanzo epistolare, nel senso che non conosciamo le eventuali risposte dell’altro e qui il pensiero al Foscolo dell’Ortis si impone obbligatoriamente, stabilendosi un’indubbia analogia tra Werner Müde-Jacopo Ortis e Guido Valderani-Lorenzo Alderani nella memoria del lettore. In appendice Guido riporta il testo di un dialogo avvenuto in chat tra Werner e Chiara, facente funzione di Teresa. Personalmente sento più vicino, però, detto questo, il romanzo di Rossetti non tanto all’Ortis bensì, ma al Sesto tomo dell’io del Foscolo, anche se i primi cinque tomi non furono mai scritti da Niccolò Ugo (cfr. Edizioni Croce 2019, con una dottissima introduzione e a cura di Maria Serena Sapegno), per la molteplicità delle tematiche affrontate. Il romanzo di Andrea Rossetti può essere benissimo Il settimo tomo dell’io della letteratura italiana nel contesto europeo per la sua tonalità picaresca, l’estetismo assoluto che fa venire in mente Joris-Karl Huysmans. E va aggiunto, a questo proposito, che prima di Andrea è esistito in Italia un altro Rossetti, esattamente il napoletano Gabriele Rossetti (1783-1854) autore di libretti d’opera e scritti danteschi tra cui Beatrice di Dante (Londra, 1842; Imola, 1935), e poeta in proprio (in Arcadia aveva il nome di Filidauro Labidiense).

Per vero si tratta di e-mail e di messaggi che hanno avuto luogo in chat: il nostro tempo non concede l’uso di penna e calamaio, anche se mi risulta che l’autore neppure disdegni tale pratica. Parliamo di una prosa lirico-narrativa di altissimo livello in forma epistolare-wertheriana post-moderna (e-mail di un solo personaggio fondamentalmente a un solo destinatario, anche se Chiara è ricorrente nel testo). Rossetti ci sfida quando fa dire al suo personaggio: «è la vita il vero capolavoro del genio, quella vita della quale le sue opere non sono che sinceri, ambigui e reticenti testimoni della difesa. La fede senza le opere è muta ma le opere senza la fede straparlano» (p. 35). Rossetti realizza un vero momento di impegno civile nel quale l’identità della critica al presente – al politically correct, alla sua degenerazione nella cancel culture che ci affligge fino al paradosso di danneggiare con tante buone intenzioni proprio i diritti egualitari e inclusivi che ne costituivano le premesse necessarie, fino, per intenderci, implicitamente e come conseguenza logica, alla neo-chiesa liberal-progressista di Bergoglio - è ben precisa e anche il suo ruolo: «Siamo immersi nell’infinita chiacchiera, siamo in pieno pianerottolo globale, tra falsi profeti, finti scoop, segreti di Pulcinella svelati, menzogne, idiozie e, soprattutto, opinioni irrilevanti» (p. 37).

Ma su tutto e tutti primeggia, superbamente intangibile, Chiara. La passione d’amore di Werner è un tutt’uno con quella letteraria, il romanzo di Rossetti è anche un breviario poetico-esistenziale: Chiara è un amore non troppo virtualmente diverso da come avrebbe, per la sua portata simbolica, potuto essere l’amore di Dante per Beatrice. «Fui almeno, fra tanti falsi mancanti, un vero assente» (p. 178) è la frase che Guido Valderani ci riporta nella sua nota finale a chi legge.

  

 



lunedì 9 ottobre 2023

Recensione di Andrea Rossetti a INTRIGO


Quando leggo un libro di Sandro De Fazi - e li ho letti quasi tutti - do per scontato sin da principio che qualcosa mi sorprenderà, perché la cifra della sua scrittura è sempre l’inganno elegante, che io amo definire l’abuso estetico della digressione. De Fazi usa infatti la digressione in modo a dir poco mirabile, così da fuorviare, in una sorta di vergiliato malizioso, il lettore, senza sottrarsi al coinvolgimento diretto, cosicché leggere un romanzo, un saggio, un racconto, una poesia di Sandro De Fazi comporta l’onere e l’onore di una passeggiata, nel senso più walseriano del termine, sottobraccio all’autore.

In questo Intrigo che, come il Decameron, è un romanzo di racconti, si viene subito fuorviati, anzi è forse più appropriato dire confusi: Intrigo è un titolo hitchcockiano, fa pensare a un complotto, a un mistero; ma Intrigo significa anche attrazione, complicazione, imbarazzo. Ebbene De Fazi gioca magistralmente col lettore portandolo infatti a credere ciò che vuole e a volere ciò in cui non crede.

In realtà, questo romanzo di racconti è un intrigo tanto nel senso del labirinto che del mosaico.

L’etimologia, controversa e misteriosa, della parola labirinto ci offre ricchi spunti di riflessione. Una prima interpretazione sembra ricondurre la parola al greco λαβύρινθος, usato nella mitologia per indicare il labirinto di Cnosso; la parola trae la sua derivazione dal lidio labrys = bipenne, l’ascia a due lame, simbolo del potere reale a Creta. In effetti, il libro di De Fazi è un luogo complesso, nel quale il racconto viene sezionato e direi quasi disorientato dalla ricerca potente e regale della propria prescritta e fatale unità (come l’ascia bipenne, alla quale le due lame, sebbene a sé stanti, comunque appartengono). Credo tuttavia che non si debba dimenticare in questo caso anche un’etimologia più complessa e magari discutibile, quella cioè che connette λαμβάνω, prendo, e ρινάω, inganno, ovvero “vengo ingannato”. Sandro De Fazi, maestro della digressione come l’ho definito a suo tempo, non può non essere anche un grande ingannatore. Ed è proprio qui, nell’al di là di un tempo giocosamente intrecciato nel romanzo, che ci soccorre l’altro concetto che ho prima evocato: il mosaico. Intrigo ci sfida da labirinto, nel corpo a corpo, come Gamiani di Alfred de Musset (non a caso opera attribuita con certezza al suo autore ma da lui mai firmata), e ci incanta come mosaico, nella distanza spirituale di una contemplazione estatica d'insieme.

In definitiva, De Fazi ci racconta sfacciatamente l’eros solo per dircene manzonianamente “il sugo”, per digredire da par suo in un incantevole e non di rado amaro saggio sull’amore.

 

Andrea Rossetti

Palermo, 9 ottobre 2023

 


mercoledì 20 settembre 2023

Gianni Vattimo (4 gennaio 1936-19 settembre 2023)





 Mi spiace molto. Speravo che non accadesse così presto. Mi è capitato di parlare con lui a Caserta, molti anni fa ormai: un dialogo così autentico, nel senso che si parlava - parlavo - ma le parole non contavano -  con lui secondo la vera filosofia, come dire, cioè senza alcuna sovrastruttura pur dall'alto della sua statura e, penso, proprio in ragione di quella. Non era umanamente distante. Tutt'altro. Ebbi qualche scambio di e-mail qualche tempo dopo. Ne ho un bel ricordo, dal quale c'è tuttora da attingere, soprattutto ora riguardo al 《debolismo》 che qui si cita. Un grave lutto per la cultura internazionale.

Sit tibi terra levis.❤